Riprese: Mathias Becker; suono: Livia Anita Fiorio; montaggio: Salvo Arcidiacono, Gaetano Tribulato, Luca Zarbano; animazioni: Gaetano Tribulato
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Riprese: Mathias Becker; suono: Livia Anita Fiorio; montaggio: Salvo Arcidiacono, Gaetano Tribulato, Luca Zarbano; animazioni: Gaetano Tribulato
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Il film[1] in questione, in particolare, più dei successivi, ha saputo calamitare tante e diverse attenzioni, e diversi approcci critici, per la sua intensa e sapiente orchestrazione di elementi: la memoria, la famiglia, la perdita, l’elaborazione del lutto, il ritrovamento, il disagio, la relazione madre-figlia, la condizione femminile. Ma anche per la componente specificamente filmica: i film di famiglia, i film amatoriali, le riprese di vecchie carte, il tutto amorevolmente e dolorosamente ricomposto con rumori e musiche, che intessono una storia di decenni attraverso l’intreccio di suoni e di immagini della più diversa provenienza. Una storia, quella raccontata nel film – lo si è sottolineato spesso – che da privatissima qual era riesce a presentarsi e ad agire in modo potente e delicato sullo spettatore, in tutta la sua universalità.
Un cinema in qualche modo ‘saggistico’ per le tematiche che implica e che esplicita; un cinema poetico, che si allontana dalla categoria un po’ generica del found footage e costringe a ripensare le terminologie, avvicinandosi alla forma del ‘diario filmato’.[2]
La varietà di sguardi e di approcci al film (fra cui quello psicoanalitico) e l’importanza dei temi – o, come si diceva una volta, dei ‘contenuti’ – non avrebbe saputo attrarre tanta attenzione e scatenare tanta emozione se la tessitura formale fosse stata debole, frettolosa e incerta. Così non è stato, anche per l’addensarsi di una serie di elementi che l’autrice e la montatrice raccontano non solo nei numerosissimi incontri di presentazione del film ma anche nel libro che accompagna il dvd:[3] una gestazione lunghissima, l’intimità (della vicenda, ma anche quella stabilitasi nella convivenza con le immagini stesse), una adesione sofferta e partecipata, l’apporto di competenze e conoscenze adeguate alla delicatezza del tema, la ricchezza e qualità dei materiali trovati e il loro completamento con nuove riprese. Una tela, un arazzo a cui si è lavorato con la minuziosa attenzione a ogni dettaglio e con una capacità di temperare l’emozione con la lucidità, l’adesione esistenziale profonda con la necessità di un distanziamento, per così dire, anche ‘estetico’, teso a rendere ancora più efficace e autentica quell’adesione emotiva.
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La tua morte caratterizza la mia vita. Voglio trovare l'amore di cui fummo privi ed esercitarlo in tuo nome.
Voglio divulgare i tuoi segreti. Voglio azzerare la distanza tra me e te.
Voglio darti vita.
J. Ellroy, I miei luoghi oscuri
«Quando il film non è un documento, è un sogno»: così annota Bergman in Lanterna magica, confessando poco più avanti la sua ammirazione per Tarkovskij («Il più grande di tutti. Lui si muove con assoluta sicurezza nello spazio dei sogni»).[1] Con le dovute cautele, si ritiene di poter dire che il cinema di Alina Marazzi contraddice l’assunto bergmaniano, poiché giunge all’elaborazione di una «scrittura affettiva»[2] in grado di trasformare, grazie alla forza espressiva del montaggio, materiali d’archivio in partiture ‘sensoriali’, in insolite ‘avventure’[3] della mente e dello sguardo. L’eccezionalità dello stile di Marazzi consiste nella capacità di far deragliare le immagini oltre la soglia del reale, per cui gli inserti documentaristici vengono proiettati dentro un flusso visuale che disegna «lo spazio crepuscolare»[4] dell’anima, regno di una temporalità ambigua, continuamente in bilico fra presente e passato, memoria e testimonianza.
Si deve ad Antonio Costa una delle intuizioni più interessanti sul percorso di ricerca della regista milanese:
Non c’è soluzione di continuità, dunque, tra documento e sogno, i suoi film viaggiano in direzione ostinata e contraria a ogni classificazione, pur inserendosi nel solco di quella «rifondazione del documentario italiano»[6] che ha segnato il cinema degli anni zero del cinema del nostro paese, liberando una serie di talenti interessanti, purtroppo ancora fuori circuito a causa di una miope politica di distribuzione. Per Adriano Aprà la novità che accomuna i nuovi autori di fine millennio è il distacco dalla tradizione, una sorta di euforica emancipazione dai modelli, per cui l’ormai abusata voce fuori campo onnisciente, che commenta immagini cieche, sopravvive solo nella televisione di massa, superata da un «moderno reticolo»[7] di piani e suoni. Si tratta di un contesto variegato, ricco di modi e forme del racconto, dominato da un convinto sperimentalismo, all’interno del quale è possibile isolare almeno tre categorie, utili a tracciare una mappa delle direzioni di ricerca: