Le libertà di Alina. Sperimentazione e divagazioni dello sguardo nei film di Marazzi

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The essay explores the elements of experimentation, particularly visual, in Alina Marazzi’s movies, focusing on four films: Un’ora sola ti vorrei (2002), Per sempre (2005), Vogliamo anche le rose (2007), Tutto parla di te (2012). These works, albeit very different, share similar topics and a personal and diaristic approach. In their diversity, these films are marked by a form of poetic license, by moments of visual ‘freedom’ that move away from the ‘narrative’ to unleash the eye and guide it in enigmatic or metaphorical wanderings, free associations which rely on new takes, found footage, or seemingly arbitrary combinations of editing. The freedom of the gaze and its wandering seem to become a metaphor for a liberation from both social (particularly concerning the condition of women) and filmic conventions.

Il cinema di Alina Marazzi, a partire da Un’ora sola ti vorrei (Italia, 2002), è stato oggetto di un corpus di riflessioni, analisi (e anche iniziative) assai denso, importante, e articolato in varie direzioni.

Il film[1] in questione, in particolare, più dei successivi, ha saputo calamitare tante e diverse attenzioni, e diversi approcci critici, per la sua intensa e sapiente orchestrazione di elementi: la memoria, la famiglia, la perdita, l’elaborazione del lutto, il ritrovamento, il disagio, la relazione madre-figlia, la condizione femminile. Ma anche per la componente specificamente filmica: i film di famiglia, i film amatoriali, le riprese di vecchie carte, il tutto amorevolmente e dolorosamente ricomposto con rumori e musiche, che intessono una storia di decenni attraverso l’intreccio di suoni e di immagini della più diversa provenienza. Una storia, quella raccontata nel film – lo si è sottolineato spesso – che da privatissima qual era riesce a presentarsi e ad agire in modo potente e delicato sullo spettatore, in tutta la sua universalità.

Un cinema in qualche modo ‘saggistico’ per le tematiche che implica e che esplicita; un cinema poetico, che si allontana dalla categoria un po’ generica del found footage e costringe a ripensare le terminologie, avvicinandosi alla forma del ‘diario filmato’.[2]

La varietà di sguardi e di approcci al film (fra cui quello psicoanalitico) e l’importanza dei temi – o, come si diceva una volta, dei ‘contenuti’ non avrebbe saputo attrarre tanta attenzione e scatenare tanta emozione se la tessitura formale fosse stata debole, frettolosa e incerta. Così non è stato, anche per l’addensarsi di una serie di elementi che l’autrice e la montatrice raccontano non solo nei numerosissimi incontri di presentazione del film ma anche nel libro che accompagna il dvd:[3] una gestazione lunghissima, l’intimità (della vicenda, ma anche quella stabilitasi nella convivenza con le immagini stesse), una adesione sofferta e partecipata, l’apporto di competenze e conoscenze adeguate alla delicatezza del tema, la ricchezza e qualità dei materiali trovati e il loro completamento con nuove riprese. Una tela, un arazzo a cui si è lavorato con la minuziosa attenzione a ogni dettaglio e con una capacità di temperare l’emozione con la lucidità, l’adesione esistenziale profonda con la necessità di un distanziamento, per così dire, anche ‘estetico’, teso a rendere ancora più efficace e autentica quell’adesione emotiva.

In questo percorso – che ha visto poi una serie di opere successive, su cui torno più avanti – quella che appare come una composizione ‘ordinata’, un congegno narrativo mirabile, presenta alcuni guizzi formali, alcune fughe dal puzzle così ben composto; ed è su queste deviazioni che mi interessa qui soffermarmi. Su questi fili matti che sfuggono alla trama complessiva, su queste divagazioni, su queste licenze poetiche, su queste incertezze e queste danze impreviste dello sguardo.

Un’ora sola ti vorrei si prende delle libertà, infatti. La libertà di non rispettare un ordine cronologico (se non a tratti, e per ovvia necessità narrativa e di comprensione degli eventi): di particolare efficacia e intensità sono ad esempio i confronti ‘virtuali’, di montaggio, fra gli sguardi di madre e figlia qui quasi coetanee, filmate in epoche diverse, in un dialogo impossibile, sia nella realtà che metaforicamente, eppure presente e reale nelle dinamiche di sofferenza e colpa. Coesistenza di spazi e tempi nel lavoro di montaggio, anticipazioni, salti temporali frequenti.

Fin da subito avevamo deciso con Ilaria di non seguire un ordine cronologico nel raccontare gli eventi, ma di alternare, in una struttura narrativa complessa, il prima e il dopo, i filmati in bianco e nero con quelli a colori degli anni Sessanta e Settanta, la biografia con la poesia.[4]

Ma le libertà sono anche altre: la libertà di sonorizzare i vecchi film muti, ricostruendo il labiale con un effetto di sorpresa tanto più spiazzante quanto più è episodico e non sistematico; la libertà di rallentare le immagini, o di fermarle, facendole indietreggiare allo stadio fotografico.

Di queste scelte il film è, con estrema discrezione, costellato: esse sono anche esplicitate a livello di poetica, nelle dichiarazioni di autrice e montatrice, seppure in modo frammentario, non ascrivibili a una parte specificamente dedicata alla sperimentazione di linguaggio o a una sorta di appartenenza o scelta di campo. Una delle caratteristiche felici di quest’opera è, appunto, il suo sfuggire a etichette e categorie: anche a quella di cinema ‘sperimentale’, del resto essa stessa frastagliata e sfuggente. La consapevolezza di una struttura impeccabilmente costruita è intrisa di notazioni attente a quanto trasgredisce e sfugge, alle immagini anomale, a un’estetica anche ‘incerta’, che dialoga con la perfezione fotografica sfolgorante. Come da più parti è stato sottolineato, Alina Marazzi (come altre autrici e altri autori odierni che rileggono le vecchie immagini domestiche) capovolge di senso il cinema di famiglia e amatoriale, ci fa vedere il lato doloroso di quei sorrisi e di quella implacabile euforia autocelebrativa. Questo suo lavoro compositivo crea un nuovo senso e un nuovo percorso di lettura anche grazie alla ‘lettera’ della madre alla figlia (vertiginosamente, in realtà, dalla figlia alla madre). Ma alle antiche immagini e alle nuove parole si intrecciano le infrazioni, le anomalie, i ‘disturbi’: anch’essi segnali di una percezione da mettere in discussione. Ferite nel corpo della narrazione.

Il racconto – scrive Ilaria Fraioli, la montatrice – è volutamente sottoposto all’esercizio delle associazioni che si spostano avanti e indietro lungo l’asse del tempo. […] Nel film si alternano la dimensione del racconto e la dimensione ‘onirica’, di suggestione visiva. Trattandosi di immagini preesistenti e non girate ad hoc è stata maggiore la libertà di associare un’immagine degli anni Trenta a una dei Sessanta. Una a colori e l’altra in bianco e nero, una sgranata e l’altra limpida… È come se avessimo avuto un verso dell'Inferno di Dante e un verso di una poesia futurista. Bisognava metterli in dialogo in una stessa composizione. Sembrava impossibile, eppure è avvenuto.[5]

Dal cinema amatoriale (soprattutto quello più antico: ricordiamo che i materiali trovati dalla regista andavano dal 1926 al 1972) vengono prelevate immagini non illustrative, apparentemente slegate dal resto, e scelte per la loro valenza simbolica o premonitrice, o per una potenza fantasmatica evocatrice («sembrano tutti dei fantasmi», scrive Alina Marazzi).[6] E vengono selezionate anche alcune immagini super 8 girate in macro dal nonno dell’autrice: sperimentazioni tecnico-formali ravvicinatissime (occhi, fiori...) che sono state scelte proprio per evocare la perdita dell’insieme, metafora di uno sguardo medico che si focalizza su un aspetto dimenticando il contesto.

Ma ci sono anche immagini girate appositamente dalla regista, immagini «di raccordo e di documentazione: quelle con le farfalle e gli insetti, le cortecce delle betulle, le cartelle cliniche, i referti medici, le lettere, i diari, il disco».[7] Molte di queste immagini ‘nuove’ sono documentarie appunto, e arricchiscono il quadro degli indizi e dei dati reali; altre, come quelle della corteccia e delle farfalle, sono di deviazione dall’andamento del racconto e assumono una valenza metaforica o ‘sensoriale’ (le farfalle «immobilizzate con le ali aperte ricordano anche le tavole di Rorschach, le chiazze d’inchiostro per i test psicanalitici...»).[8]

È evidente che queste immagini aprono delle falle, degli strappi nel flusso del racconto, rafforzandone non solo la soggettività (anche a livello percettivo) ma anche un aspetto di fragilità, come crepe in un ritratto, generando nello spettatore una fruizione che va continuamente rielaborata non solo per costruire e comprendere l’enigma ma per diventare parte di questo enigma, assumerne la vertigine e l’ansia, il passo cauto, la produttiva ambiguità.

Il suono è parte essenziale di questo percorso, con scelte che implicano e valorizzano le infrazioni e le sorprese sonore, le decontestualizzazioni, le distorsioni, le astrazioni: un percorso analogo a quello compiuto sulle immagini. Benni Atria (sound designer) ha creato un testo sonoro fatto di «risonanze armoniche»[9] e di impossibili realismi, di sollecitazioni della percezione acustica e di apparenti incongruenze. All’andamento della voce che legge la lettera (testo nitidamente udibile) e alle musiche si intrecciano sovrapposizioni di voci, sussurrate a evocare il pensiero, rumori evocativi, talvolta disturbanti, libere associazioni; una «complessità sonora» (ancora Atria) in cui al realismo dei suoni si intreccia una valenza emozionale ed espressiva, sganciata dall’elemento visivo ma avvinta al senso profondo del discorso.

Queste caratteristiche sensoriali e quasi ‘protesiche’ sono già all’opera nel film amatoriale e di famiglia, come sottolinea Alice Cati:

dopo l’autoritratto e il ritratto di famiglia – la terza e ultima modalità di messa in forma del sé esemplificata nel film privato consiste nel lascare sulle immagini un’impronta sensoriale. Questo significa che la macchina da presa diventa una sorta di prolungamento del corpo dell’operatore e che, per dirla con Fontanille, il soggetto dell’enunciazione «mette in gioco il proprio corpo, la propria carne sensibile dato che riferisce di ciò che vede, sente e percepisce nel mentre si trova nel luogo dell'evento, in carne e ossa». Le sequenze filmiche amatoriali possono configurarsi come delle vere e proprie soggettive sensoriali, perché vi è indicato non solo un ancoraggio deittico con l’evento, ossia una contiguità con l’esperienza vissuta, ma la relazione instauratasi tra una sensazione esterna e un’impressione interiore.[10]

Il punto è che qui, nell’opera della Marazzi che stiamo analizzando, queste caratteristiche vengono da un lato enfatizzate (con una deliberata e accresciuta scelta di soggettività e arbitrarietà della percezione) e dall’altro, contemporaneamente, mutate di segno: quello che il nonno di Alina ‘vedeva’ diventa il segno di quello che non vedeva, e il lavoro sull’immagine e sul suono sottolinea proprio quelle falle della visione, della sensorialità e della sensibilità, mostrandoci allo stesso tempo una rappresentazione e il suo rovescio.

Com’è noto, Alina Marazzi ha poi continuato a indagare queste soglie della condizione femminile, questa oscillazione (non è un caso che un’immagine significativa in Un’ora sola ti vorrei sia quella di un’altalena) fra storia collettiva e storia privata, memorie tendenziose e verità nascoste, istanze personali e regole sociali. Scelte radicali, strappi, infelicità ma anche gioia di un trovare e trovarsi.

Il film successivo, Per sempre (Italia, 2005), resta fedele a questa ricerca: le scelte estreme (in questo caso il votarsi a Dio rafforzato dalla clausura), i percorsi per arrivare a quella che viene definita «l’anima più vera del proprio desiderio» e «la verità di se stessi» attraverso ritratti di una piccola comunità e di una serie di donne diverse per età e provenienza e apparentate da questa radicalità silenziosa. Ma anche la lotta contro le convenzioni sociali, per sfuggire a un destino segnato da una condizione femminile predeterminata ed eterodiretta. Dal punto di vista stilistico, Alina Marazzi qui cambia registro, perché non ci troviamo di fronte a film preesistenti, e la logica del collage – a comporre un puzzle della memoria – non è all’opera: si tratta di riprese dal vero, punteggiate talvolta da fotografie in bianco e nero che servono da rievocazione del mondo e degli affetti o del percorso religioso delle monache. Eppure la volontà di capire, di andare al fondo di un enigma, o almeno di provarci, muove le inquadrature e la loro successione. E anche qui Alina Marazzi si concede e concede al racconto delle digressioni non diegetiche: le frequenti immagini di cielo e di nuvole (più che facili metafore di una dimensione ‘elevata’, assumono una valenza di contemplazione e silenzio), le sfocature sui rami, una serie di ragnatele dorate dal sole, un bosco fitto di alte colonne di tronchi attraversati a intermittenza dal sole, nel muoversi avvolgente della macchina da presa. Qui pare evidente il collegamento con la sequenza delle cortecce di Un’ora sola ti vorrei: tanto più che in una di queste sequenze sentiamo la voce di Alina, la stessa che abbiamo ascoltato nel film precedente, che legge una lettera a Valeria, che a quel punto ha rinunciato alla clausura e alla scelta di prendere il velo. Più avanti sentiamo una telefonata di Alina a Valeria, e sulle parole di quest’ultima («... è un altro mondo... un altro modo di stare al mondo...») l’immagine del bosco si sfoca. È un momento di congiunzione e di felice confusione col film precedente: come nota Elena Marcheschi, questo registro così personale («la regista ha scelto di apparire attraverso la propria presenza narrativa...») spiazza lo spettatore, «che in alcuni momenti non capisce quale sia la realtà indagata, se quella delle monache di clausura o la dimensione personale di ricerca dell’autrice».[11]

In fondo Alina Marazzi porta qui alla luce l’ambiguità dell’enunciazione, una presenza dell’autore che spesso è troppo esibita, spesso è troppo occultata: in questo caso la compresenza dei due piani genera un’altalena di prospettive di senso, portando un po’ di scompiglio nella pulizia formale di quest’opera, come nell’ordinata scansione temporale, negli spazi lindi e disadorni del convento.

Gli elementi naturali, tutti, diventano una punteggiatura nel racconto: l’aria del cielo, l’acqua di un torrente che scorre, il fuoco acceso, la terra dei campi intorno. Il sole, la neve. Punteggiature come elementi di fuga dal racconto piano e ordinato di queste donne, appena scalfito dalla testimonianza diversa di Valeria, che cerca il piacere, la dimensione della gioia, in una scelta così radicale. Questa ricerca di sé a qualunque prezzo vede fra i testi frequentati da Valeria anche un libro di Luisa Muraro, a sostegno di un percorso che, appunto, non si vuole né doloroso né punitivo, benché impegnativo, difficile e controcorrente.

Le immagini errabonde, le zone dilatate da uno sguardo la cui messa a fuoco non è operata dalle convenzioni – sociali, di costume, cinematografiche – le ritroviamo nell’opera successiva, per certi aspetti affine a Un’ora sola ti vorrei, e cioè in Vogliamo anche le rose (Italia, 2007). Affine per la composizione accurata e ricchissima di diverse fonti iconografiche – più eterogenea e movimentata di quella del primo lavoro, perché comprende ricerche in numerosi archivi, animazioni, pubblicità, disegni, oltre a fotografie, fotoromanzi, filmati, video, e sequenze prelevate dalla TV. Affine per il confronto ravvicinato e a distanza che si instaura fra donne e fra generazioni e per l’apporto diaristico e soggettivo che sostiene le storie delle tre donne. Affine per una modalità, anche, di diffusione capillare, accompagnata dalla stessa regista e spesso anche dalla montatrice (ancora Ilaria Fraioli) con l’attivazione di discussioni e il tam-tam della rete.

Qui, le fughe dalla rappresentazione tradizionale (dove per tradizionale si intende anche lo stereotipo militante) non sono solo punteggiate dalle varie fonti e dalle animazioni di Cristina Diana Seresini; sono robustamente sostenute, ‘incarnate’ da veri e propri contributi dal cinema sperimentale: in particolare, sequenze dall’underground italiano, così raro e così poco conosciuto. Oltre ad Alberto Grifi, forse il più noto dei filmmaker qui convocati, in particolare con Anna, ormai un classico non solo del cinema indipendente italiano ma anche dell’uso dell’allora nuovissimo videotape, Vogliamo anche le rose cuce nel proprio tessuto di fonti e narrazioni diverse anche sequenze dai film di famiglia di Mario Masini, dall’opera di Anna Lajolo e Guido Lombardi e da quella di Adriana Monti. Sono sequenze in cui ritroviamo, in modo ancora più esplicito che nel primo film, quelle divagazioni dello sguardo che ‘scatenano’ le immagini e il racconto, destrutturandone ulteriormente un andamento che già privilegia percorsi incrociati e cortocircuiti di frammenti eterogenei.

Se i prelievi da Grifi sono quelli più documentari (con la freschezza, la dolcezza e la durezza che hanno le immagini degli anni Settanta in Anna e Parco Lambro), quelli dal corpus di opere di Mario Masini riguardano gli home movies, con sequenze casalinghe e femminili del tutto anomale, sottoposte ad accelerazioni e movimenti a ritroso, enigmatiche e sospese. Ancor più enigmatiche, oniriche e a tratti decisamente astratte sono le sequenze da D-non diversi giorni di Lajolo-Lombardi, che pure hanno prodotto un gran numero di film politici e di videodocumentazioni sociali.

Nel suo testo su questo particolare aspetto di Vogliamo anche le rose Dario Zonta cita, oltre a questi lavori, anche alcuni film femministi degli anni Settanta tanto preziosi quanto ‘invisibili’ e le animazioni di Pino Zac, di Giulio Cingoli e dei fratelli Pagot; e sottolinea come, appunto, anche nell’ambito del cinema indipendente italiano Alina Marazzi abbia privilegiato film e sequenze di film particolarmente ‘sperimentali’, come appunto per Lajolo-Lombardi:

una moltiplicazione di lune s’affaccia per esposizione multipla, insieme ad altre immagini astratte legate al sogno di Anita, nel primo diario. L’omaggio a Lajolo-Lombardi è quindi indirettamente rivolto alla loro fase più avanguardistica e poetica, astrale e immaginifica, riportando a noi quel momento della loro sperimentazione e riflessione sociopolitica.[12]

Così, un paziente lavoro di scelta e di montaggio ha permesso di prelevare dai film di Adriana Monti degli anni Settanta immagini evocative e metaforiche: una danza, una fumosa riunione, immagini caratterizzate da una dimensione comunque intima e famigliare:

in queste immagini c’è tutta la forza evocativa di riprese ‘semplici’, quasi paradossalmente degli home movie, perché restituiscono una forte famigliarità tra chi riprende e chi è ripreso. Una visione dall’interno, rarissima nei filmati dell’epoca.[13]

Da immagini girate e mai montate, le cui bobine sono state trovate da Alina Marazzi nel lavoro di ‘scavo’ nel cinema di Adriana Monti, arriva la sequenza, poi ricomposta con la suddivisione dello schermo in quattro parti, del taglio dei capelli (tagliati e di nuovo cresciuti e di nuovo tagliati, in un movimento ossessivo) di una donna. Anche qui, dalle parole di Alina Marazzi come da quelle della montatrice Ilaria Fraioli, affiora la piena consapevolezza di come queste immagini talvolta incerte, talvolta mal definite, spesso ‘incomprensibili’ nel loro alludere o nelle loro astrazioni – oppure che affiorano «di tanto in tanto, così non tutti si accorgono della loro presenza»,[14] come nel caso del personaggio tratto dal film di Mario Masini X chiama Y – siano veicolo di una ‘verità’, di una complessa ma necessaria uscita dai percorsi dell'ovvio, dai sentieri di senso battuti e logorati non solo dall’ideologia dominante, come si diceva una volta, ma anche dalle ideologie che volevano contrastarla.

Così, se alcune di queste sequenze restituiscono il clima di un’epoca, altre veicolano una divertita capacità di distanza critica e ironica, altre ancora portano in sé un grado di arbitrarietà volutamente confusa e spiazzante, anche perché sono come ‘sbriciolate’ nella grande macchina di un montaggio veloce e a tratti anche vivacemente Pop, e fanno da contraltare alle pubblicità di casalinghe perfette e di impeccabili signore. Uno scombussolamento di carte, un girovagare dello sguardo (ma anche del fittissimo e vario tessuto sonoro) che porta in territori inesplorati e talvolta nemmeno pienamente riconoscibili secondo le forme già note e il proprio bagaglio culturale: il film sperimentale diventa indizio di un percorso a tentoni, sperimentale anch’esso, frammentato e rischioso, sfocato e sovrapposto, appassionante quanto ignoto. Del resto ricorrono nel film immagini di piedi nudi che avanzano su una lastra di ghiaccio: metafora di «un blocco di dolore ghiacciato» ma anche di un’incertezza in cui il pericolo è in agguato. Anche il finale è enigmatico: in bianco e nero, una donna corre sulla battigia con un velo bianco in testa; poi una bambina che corre e volteggia, rallentata e sfocata, come imprendibile; i due volti e infine una rosa, ora a colori, accesa, a cui lo sguardo si avvicina fino a toccarla, a odorarla, a inabissarvisi. E se nella precedente ‘stazione’ del discorso di Alina avevamo ascoltato le frasi di Luisa Muraro, in questo film compare un riferimento a Carla Lonzi: anche questo è uno dei percorsi, di film in film.

‘Per sempre’ è anche la scelta della maternità, la nascita di un figlio, la condizione di madre: ed è questo il tema dell’ultimo film, Tutto parla di te (Italia, Svizzera 2012). Film molto diverso, perché per la prima volta si tratta di un lungometraggio già in partenza destinato al circuito delle sale (per Un’ora sola ti vorrei la distribuzione in sala era arrivata solo dopo qualche anno) e con un impianto narrativo: una finzione con attori strutturata con testimonianze reali, soggettive. Storie vere e storia ricostruita; ma certo Alina Marazzi torna, ancora una volta e in modi ancora diversi, sulla questione dell’identità femminile e della ricerca di sé, sulle gabbie delle convenzioni e degli obblighi sociali, sul desiderio e sulla repressione; e, soprattutto (visto che si tratta di depressione post-partum) sulla maternità e sulla inadeguatezza, i temi cardine, fra gli altri, di Un’ora sola ti vorrei.

Non mi addentro in questo film, che si discosta decisamente nella forma dai tre precedenti, e in cui la sperimentazione è più nell’incontro fra documento e finzione che nell’esplicito ricorso a linguaggi sperimentali o a divagazioni dello sguardo. Eppure anche qui la costruzione procede per evocazioni; anche qui, come in Un’ora sola ti vorrei, c’è un enigma su cui indagare; anche qui, in modi ora allusivi ora espliciti, c’è la lettera di una figlia alla madre – che diventa lettera e storia condivisa dalla protagonista anziana a una protagonista giovane e madre da poco, in un gioco di scatole cinesi; anche qui c’è un dialogo fra tempi diversi, fra un ieri e un oggi che sembrano coesistere. Il film è costruito per frammenti di una storia, esile e insieme pesante da ricordare, incarnata dall’alternarsi e dal coesistere di vecchie foto – fra le tante, anche quelle di Alina in braccio alla madre e di Alina con in braccio suo figlio – e vecchi filmati (e registrazioni audio) con le riprese ‘narrative’, alternate a loro volta con testimonianze reali, racconti fuori campo, uno spezzone dal programma TV Storie maledette, interviste in video.

Di nuovo immagini del cielo, di un bosco che la giovane Emma attraversa; e poi l’ecografia di un feto nel ventre materno, immagini di danza, come di una leggerezza perduta (a un certo punto Emma, ex danzatrice, retrocede e si sfoca, come a scomparire di fronte a un passato che la maternità sembra averle fatto perdere per sempre). Immagini extradiegetiche, un volo di uccelli, il balzo di un gattino. Mentre la ‘casa di bambola’ rispolverata e ricostruita si popola di una famigliola perfetta grazie alle animazioni di Beatrice Pucci: ancora un anello di congiunzione con i film precedenti, e in particolare con l’universo multicolore e ironico di Vogliamo anche le rose. E poi le foto di Simona Ghizzoni che compaiono nel film, isole di figuratività appena accennata, fantasmatica, figure di donne in impercettibile transito o riposo o precario equilibrio, sfuggenti e delicate, fra finestre, tendaggi chiari, ringhiere di vecchie scale. Niente a che vedere con la ‘narrazione’ principale: vagabondaggi dello sguardo, tasselli nel gioco del desiderio, immagini insieme vaghe e sensuali che, come la danza, sembrano alludere a una metamorfosi, a una fuga o a un ritrovarsi. Non è un caso che dopo il testo di Luisa Muraro (in Vogliamo anche le rose) e di Carla Lonzi (in Per sempre) il libro qui citato, che compare fra le mani della protagonista anziana, sia L'arte della gioia di Goliarda Sapienza. L’importanza (e la conquista) del piacere, dell’autenticità, della gioia.

Solo alla fine l’enigma viene svelato, come l’eco persistente del primo film: «tu non sei stata lasciata sola come mia madre». Di nuovo l’animazione della famiglia di pupazzetti nella casa di bambola, ma stavolta – sulla voce della madre della protagonista che, parlando con lo psichiatra, riconosce delle farfalle nelle macchie di Rorschach che questi le sottopone – oggetti-farfalla compaiono nel gioco, come piccole costruzioni che battono le ali. Quelle farfalle, verrebbe da dire, già rappresentate in Un’ora sola ti vorrei, tornano nei voli che percorrono Tutto parla di te, come le volute dei movimenti di danza. E tornano in quelle foglioline leggere e colorate che il bambino della giovane Emma dimostra di saper guardare autonomamente, con uno sguardo che si scioglie dalla madre e che scioglie in lei il groviglio delle colpe e della pesantezza: «per la prima volta l’ho guardato. Lui era lui e io ero io. Io sono io, e posso continuare a esserlo anche con lui al mio fianco...».

Storie di sguardi: sguardi che dialogano a distanza, sguardi appannati dalle lacrime, sguardi che trovano percorsi nuovi, sguardi che acquistano autonomia. Sono, come scrive Marco Bertozzi, questi sguardi delle donne che rivisitano anche vecchie immagini di famiglia e amatoriali (che percorrono fittamente anche Tutto parla di te) testimonianze di un crollo insieme sociale e filmico:

come se al crollo dell’ideologia familiare quale tenutaria dell’ordine sociale associassimo il crollo delle categorie del cinema classico, la fine di baluardi antropologico-narrativi, il dolore e la gioia per alcune forme-credenza finite col Novecento. Ora il corpo del film e il corpo della donna danzano, a pezzi, nel corpo della camera...[15]

E ancora: «i materiali d’archivio sono montati liberamente, evitando una drammaturgia ancorata all’asse diacronico […]. Aggressioni, seduzioni, svirgolamenti».[16] Come in Un’ora sola ti vorrei l’uscita delle vecchie pizze di pellicola dalle scatole di metallo aveva rappresentato la ‘liberazione’ di una storia dalla gabbia di una colpevole rimozione, nel corpo di questo e dei film successivi di Alina Marazzi questa ‘liberazione’ ha scatenato anche le immagini: al fare ordine, al comporre un puzzle storico ed emotivo, ha corrisposto un processo di affrancamento dello sguardo, di recupero di un saper vedere e di una gioia del guardare e del guardarsi. È di questo, in fondo, che narra l’opera di Alina.

E quando lo sguardo (delle donne, certo; ma, parallelamente, delle immagini, sulle immagini) si fa errabondo, si prende le sue libertà, si perde, ecco, proprio allora ci sembra di poter davvero trovare la strada.


1 Uso qui il termine “film” deliberatamente, sia per il materiale filmico di base che per la circolazione in sala; ma anche per le opere successive mi pare un termine appropriato, scavalcando questioni di supporti e di modalità di ripresa (video, digitale) che in questo caso mi sembrano obsolete.

2 L. Farinotti, La ri-scrittura della storia. “Un’ora sola ti vorrei” di Alina Marazzi e la memoria delle immagini, in L. Farinotti, E. Mosconi (a cura di), Il metodo e la passione. Cinema amatoriale e film di famiglia in Italia, «Comunicazioni Sociali», XXVII, 3, settembre-dicembre 2005, p. 499.

3 A. Marazzi, Un’ora sola ti vorrei, libro allegato al dvd del film, Milano, Rizzoli, 2006.

4 Ivi, p. 44. Ilaria è la montatrice Ilaria Fraioli.

5 I. Fraioli, in A. Marazzi, Un’ora sola ti vorrei, cit., pp. 44-45.

6 Ivi, p. 47.

7 L. Farinotti, La ri-scrittura della storia, cit., p. 499.

8 A. Marazzi, Un’ora sola ti vorrei, cit., p. 98.

9 B. Atria, ivi, p. 73.

10 A. Cati, Figure del sé nel cinema di famiglia, «Fata Morgana», V, 15, settembre-dicembre 2011, p. 39.

11 E. Marcheschi, Lo specchio elettronico. Donne e corpo nei film di donne, in L. Cardone, M. Fanchi (a cura di), Donne e generi. Figure femminili nell'immaginario cinematografico italiano, «Comunicazioni Sociali», XXIX, 2, maggio-agosto 2007, p. 276.

12 D. Zonta, Chi è cosa... “Vogliamo anche le rose” e il cinema underground italiano, in A. Marazzi (a cura di), Le Rose, libro allegato al dvd, Milano, Feltrinelli Real Cinema, 2008, p. 91.

13 Ivi, p. 93.

14 I. Fraioli, Intervista a Ilaria Fraioli, a cura di Maria Grosso, ivi, p.43.

15 M. Bertozzi, Recycled cinema. Immagini perdute, visioni ritrovate, Venezia, Marsilio, 2012, pp. 49.

16 Ivi, p. 50.