Lo scenografo Paolo Fantin ormai da quasi un ventennio collabora con Damiano Michieletto, uno dei registi d’opera contemporanei più rinomati. Dalla Gazza ladra, messa in scena nel 2007 per il Rossini Opera Festival, è nato un sodalizio che attraversa non solo la lirica ma anche il cinema e di recente l’orizzonte delle arti visive. Damiano Michieletto, Paolo Fantin, Alessandro Carletti e Matteo Perin hanno infatti dato vita a Oφcina (Ophicina), descritto dai membri come un ‘laboratorio creativo’, che ha avuto come primo prodotto Archèus. Labirinto Mozart, un’installazione immersiva realizzata per La Biennale di Venezia. La conversazione con Fantin, registrata via web in data 18 febbraio 2022, ha spaziato dalla sua formazione agli obiettivi del suo lavoro, con mirata attenzione al processo creativo e all’uso della tecnologia nell’invenzione dello spazio scenico. Dalle risposte ricevute è possibile comprendere come uno dei punti di forza di Michieletto e del suo team creativo sia la ricerca di una commistione di vari linguaggi artistici che si rinnova ad ogni lavoro. Il loro punto di partenza è sempre la storia da raccontare, quindi l’utilizzo delle steady-cam sulla scena, la rimediazione in più schermi, i video preregistrati in Rigoletto, gli inserti del Gianni Schicchi, gli oggetti-simbolo che ‘vivono’ nelle cinque stanze di Archèus, i diversi materiali delle scenografie sono tutte soluzioni espressive pensate per accompagnare e rafforzare il senso drammaturgico delle opere.
1. Gli spazi ‘di frontiera’ dell’arte
1960. Napoli, Via San Pasquale a Chiaia, 43: Renato Bacarelli, insieme con i fratelli Armando e Arturo Caròla, apre la Galleria Il Centro.
1963. Napoli, Via Port’Alba, 20/23: nell’ambito della Libreria-Galleria Guida viene inaugurata la Saletta rossa.
1965. Napoli, Parco Margherita, 85: Lucio Amelio inizia la sua attività di gallerista dando vita alla Modern Art Agency.
Sono solo alcuni dei luoghi che segnano la geografia culturale napoletana nella prima metà degli anni Sessanta. Una geografia dai confini spesso molto precisi: quasi tutti questi spazi si trovano entro un perimetro piuttosto circoscritto, un’area compresa tra Chiaia e Port’Alba.
Attorno a questi luoghi si riuniscono artisti visivi, architetti, uomini di teatro, poeti, critici, giornalisti alimentando incontri e sperimentazioni, dibattiti e discussioni, conversazioni e polemiche. Che si tratti di gallerie, librerie o cantine, l’idea comune è interrogarsi sul fare artistico, verificando il rinnovamento linguistico che, nel decennio in questione, sta investendo tutti campi dell’estetico, prima e a prescindere dal singolo specifico. In questi luoghi, anzi, costante risulta la fluttuazione tra codici diversi, la contaminazione e lo sconfinamento – più o meno consapevole – tra esperienze e ambiti disciplinari differenti.
Sulla scia di quanto sta accadendo a livello nazionale ed internazionale,[2] anche a Napoli, tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, si assiste a un processo di ibridazione performativa delle arti, influenzato anzitutto dall’Happening. In tal senso, cambia progressivamente il modo di fare pittura nella misura in cui si verifica un rifiuto della cornice e del quadro in favore di una sorta di ‘teatralizzazione’; parallelamente, la scena tende sempre più ad assorbire e far propria la lezione delle arti visive, privilegiando, tra l’altro, la dimensione iconica e l’elemento fisico-gestuale a discapito del testo letterario. Al contempo, avviene un graduale superamento della compiutezza dell’opera d’arte in quanto oggetto nonché del tradizionale rapporto con l’osservatore/spettatore, chiamato ora a svolgere un ruolo più attivo. Questa tensione innovativa interessa in primo luogo le arti figurative; come osserva Marta Porzio,