Si può rimanere spiazzati, a una prima lettura, incontrando accostati i nomi di Henry Matisse e Philippe Parreno: due artisti che a prima vista, e sotto molti aspetti, non sembrano avere nulla a che spartire, e che potrebbero far pensare a un’abbinata stravagante di taglio ‘curatoriale’, giocata magari su un facile sillogismo. Invece, scrive Giorgio Bacci nelle prime pagine del suo libro, a partire da questo confronto è possibile una precisazione di metodo tutt’altro che peregrina. Come in molti altri esempi portati nel corso della trattazione, infatti, questa strana coppia fa emergere delle consonanze sotterranee, dei tratti comuni nel modo di rapportarsi al passato: entrambi, nello specifico, in uno dei momenti più alti delle rispettive ricerche hanno fatto riferimento a un verso o a un passo di Charles Baudelaire, cercando nella sua poesia le stesse cose, o approdandovi rispondendo alle medesime esigenze. Al di là degli esiti formali, non confrontabili, c’è dunque un filo rosso più saldo che lega esperienze così diverse, una comune tensione di ricerca che passa attraverso le stesse fonti culturali: la ricerca di un altrove, magari di un paradiso perduto come Calma, lusso e voluttà del 1904, o Anywhere Out of the World del 2013, che cita un verso di Thomas Hood attraverso la menzione che ne faceva Baudelaire nel suo Viaggio a Citera.

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Lo scenografo Paolo Fantin ormai da quasi un ventennio collabora con Damiano Michieletto, uno dei registi d’opera contemporanei più rinomati. Dalla Gazza ladra, messa in scena nel 2007 per il Rossini Opera Festival, è nato un sodalizio che attraversa non solo la lirica ma anche il cinema e di recente l’orizzonte delle arti visive. Damiano Michieletto, Paolo Fantin, Alessandro Carletti e Matteo Perin hanno infatti dato vita a Oφcina (Ophicina), descritto dai membri come un ‘laboratorio creativo’, che ha avuto come primo prodotto Archèus. Labirinto Mozart, un’installazione immersiva realizzata per La Biennale di Venezia. La conversazione con Fantin, registrata via web in data 18 febbraio 2022, ha spaziato dalla sua formazione agli obiettivi del suo lavoro, con mirata attenzione al processo creativo e all’uso della tecnologia nell’invenzione dello spazio scenico. Dalle risposte ricevute è possibile comprendere come uno dei punti di forza di Michieletto e del suo team creativo sia la ricerca di una commistione di vari linguaggi artistici che si rinnova ad ogni lavoro. Il loro punto di partenza è sempre la storia da raccontare, quindi l’utilizzo delle steady-cam sulla scena, la rimediazione in più schermi, i video preregistrati in Rigoletto, gli inserti del Gianni Schicchi, gli oggetti-simbolo che ‘vivono’ nelle cinque stanze di Archèus, i diversi materiali delle scenografie sono tutte soluzioni espressive pensate per accompagnare e rafforzare il senso drammaturgico delle opere.

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Abstract: ITA | ENG

Negli anni Sessanta si assiste a una radicale trasformazione che investe non soltanto la politica e gli assetti sociali, ma anche la riflessione e i processi artistici. Sul fronte delle arti figurative e della dimensione scenica – ma anche del cinema, della musica, della letteratura – va maturando una crescente esigenza di rifondazione, che sfocia nel sovvertimento dei tradizionali canoni estetici e in una progressiva caduta – se non in un vero e proprio collasso – dei confini linguistici. Sempre più specifici diversi entrano in dialogo, confondendosi e contaminandosi; sempre più spazi con destinazioni differenti diventano luoghi di incontro e di scambio osmotico tra linguaggi codificati. Tale fermento attraversa l’intera penisola, interessando geografie diverse; a Napoli, in particolare, si assiste alla fioritura di esperienze estremamente significative che spaziano tra arti visive e teatro. Molti sono i luoghi in cui questi due specifici si incontrano e interagiscono, alimentando dinamiche artistico-operative giocate su un’estetica interdisciplinare. Molte sono le gallerie o le cantine che si aprono al confronto con le suggestioni provenienti da altri ambiti disciplinari. Il presente saggio si propone di tracciare una sorta di ‘cartografia’ di alcuni luoghi napoletani in cui prende forma questo processo di ‘riunificazione’ delle arti attraverso proposte e tentativi di rinnovamento che gradualmente andranno a definire un nuovo sistema linguistico.

The radical transformation of the Sixties affected not only politics and social structures, but also artistic thought and processes. On the front of the figurative arts and the scenic dimension - but also of cinema, music, literature - a growing need for refoundation emerges, which leads to the subversion of traditional aesthetic canons and a progressive fall – if not a total downfall – of linguistic boundaries. More and more different specific linguistic codes interact, becoming mixed and contaminated; more and more spaces with different functions become places of encounter and osmotic exchange between codified languages. This ferment crosses the entire country, affecting different geographies; in Naples, in particular, it produced the flowering of extremely significant experiences ranging from visual arts to theatre. There are many places where these two specific codes meet and interact, fuelling artistic-operational dynamics played on an interdisciplinary aesthetic. And many galleries or ‘cantine’ open up to the confrontation with suggestions coming from other subject areas. The aim of this essay is to trace a sort of ‘cartography’ of some Neapolitan places in which this process of ‘reunification’ of the arts takes shape through proposals and attempts at renewal that will gradually define a new linguistic system.

1. Gli spazi ‘di frontiera’ dell’arte

1960. Napoli, Via San Pasquale a Chiaia, 43: Renato Bacarelli, insieme con i fratelli Armando e Arturo Caròla, apre la Galleria Il Centro.

1963. Napoli, Via Port’Alba, 20/23: nell’ambito della Libreria-Galleria Guida viene inaugurata la Saletta rossa.

1965. Napoli, Parco Margherita, 85: Lucio Amelio inizia la sua attività di gallerista dando vita alla Modern Art Agency.

Sono solo alcuni dei luoghi che segnano la geografia culturale napoletana nella prima metà degli anni Sessanta. Una geografia dai confini spesso molto precisi: quasi tutti questi spazi si trovano entro un perimetro piuttosto circoscritto, un’area compresa tra Chiaia e Port’Alba.

Attorno a questi luoghi si riuniscono artisti visivi, architetti, uomini di teatro, poeti, critici, giornalisti alimentando incontri e sperimentazioni, dibattiti e discussioni, conversazioni e polemiche. Che si tratti di gallerie, librerie o cantine, l’idea comune è interrogarsi sul fare artistico, verificando il rinnovamento linguistico che, nel decennio in questione, sta investendo tutti campi dell’estetico, prima e a prescindere dal singolo specifico. In questi luoghi, anzi, costante risulta la fluttuazione tra codici diversi, la contaminazione e lo sconfinamento – più o meno consapevole – tra esperienze e ambiti disciplinari differenti.

Sulla scia di quanto sta accadendo a livello nazionale ed internazionale,[2] anche a Napoli, tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, si assiste a un processo di ibridazione performativa delle arti, influenzato anzitutto dall’Happening. In tal senso, cambia progressivamente il modo di fare pittura nella misura in cui si verifica un rifiuto della cornice e del quadro in favore di una sorta di ‘teatralizzazione’; parallelamente, la scena tende sempre più ad assorbire e far propria la lezione delle arti visive, privilegiando, tra l’altro, la dimensione iconica e l’elemento fisico-gestuale a discapito del testo letterario. Al contempo, avviene un graduale superamento della compiutezza dell’opera d’arte in quanto oggetto nonché del tradizionale rapporto con l’osservatore/spettatore, chiamato ora a svolgere un ruolo più attivo. Questa tensione innovativa interessa in primo luogo le arti figurative; come osserva Marta Porzio,

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Promossa dal Comune di Milano, prodotta e realizzata da Palazzo Reale e Studio Azzurro, con la collaborazione di Arthemisia Group, il 4 settembre 2016 si è conclusa Studio Azzurro. immagini sensibili,[1] la «retroprospettiva» omaggio della città meneghina a una delle massime realtà della scena artistica contemporanea; e anche doveroso tributo al suo indimenticabile teorico, Paolo Rosa, portato via troppo presto da un infarto, nell’agosto del 2013.

Inaugurato lo scorso 9 aprile, il percorso espositivo si è snodato tra le quattordici sale più prestigiose di Palazzo Reale ed è stato articolato come un viaggio in un’ampia parte dell’immaginario di Studio Azzurro, che lo ha filtrato attraverso il proprio sguardo ed enucleato principalmente intorno a nove opere rappresentative, scelte come tappe nodali di una storia colta in divenire – ‘retro-prospettica’, appunto – e trasformatasi nel tempo.

Al contempo, però, Studio Azzurro, immagini sensibili ha offerto anche la possibilità di ripercorrere quasi integralmente l’intera sperimentazione del gruppo, compresa quella teatrale, affidandola in forma di videodocumentazione a monitor e proiezioni distribuiti su cinque sale tematiche. Ogni sala, inoltre, è stata corredata da pannelli illustrativi con sopra riprodotta una selezione di immagini, disegni di progetti e note relative; un apparato arricchente, andato nettamente al di là dell’esclusiva funzione didascalica.

La storia formale di Studio Azzurro comincia a Milano nel 1982. A fondarlo, unendo diverse competenze, sono Fabio Cirifino (fotografia), Paolo Rosa (arti visive e cinema) e Leonardo Sangiorgi (grafica e animazione) che, di fatto, lavoravano insieme già da alcuni anni, dalla realizzazione del film Facce di festa (1979).

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