Studio Azzurro, immagini sensibili

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Promossa dal Comune di Milano, prodotta e realizzata da Palazzo Reale e Studio Azzurro, con la collaborazione di Arthemisia Group, il 4 settembre 2016 si è conclusa Studio Azzurro. immagini sensibili,[1] la «retroprospettiva» omaggio della città meneghina a una delle massime realtà della scena artistica contemporanea; e anche doveroso tributo al suo indimenticabile teorico, Paolo Rosa, portato via troppo presto da un infarto, nell’agosto del 2013.

Inaugurato lo scorso 9 aprile, il percorso espositivo si è snodato tra le quattordici sale più prestigiose di Palazzo Reale ed è stato articolato come un viaggio in un’ampia parte dell’immaginario di Studio Azzurro, che lo ha filtrato attraverso il proprio sguardo ed enucleato principalmente intorno a nove opere rappresentative, scelte come tappe nodali di una storia colta in divenire – ‘retro-prospettica’, appunto – e trasformatasi nel tempo.

Al contempo, però, Studio Azzurro, immagini sensibili ha offerto anche la possibilità di ripercorrere quasi integralmente l’intera sperimentazione del gruppo, compresa quella teatrale, affidandola in forma di videodocumentazione a monitor e proiezioni distribuiti su cinque sale tematiche. Ogni sala, inoltre, è stata corredata da pannelli illustrativi con sopra riprodotta una selezione di immagini, disegni di progetti e note relative; un apparato arricchente, andato nettamente al di là dell’esclusiva funzione didascalica.

La storia formale di Studio Azzurro comincia a Milano nel 1982. A fondarlo, unendo diverse competenze, sono Fabio Cirifino (fotografia), Paolo Rosa (arti visive e cinema) e Leonardo Sangiorgi (grafica e animazione) che, di fatto, lavoravano insieme già da alcuni anni, dalla realizzazione del film Facce di festa (1979).

I tre avevano maturato anche singolarmente le proprie esperienze.

Gli inizi artistici di ognuno risalgono ad alcuni anni prima e, soprattutto nel caso di Paolo Rosa, sono stati pure contrassegnati da un forte impegno politico, sfociato in diverse ‘azioni’ e, sempre a Milano, nella fondazione del Laboratorio di comunicazione militante (1976). Un osservatorio sulle forme e le ‘deformazioni’ impattanti della comunicazione e sui nuovi linguaggi, nato dall’esigenza di Rosa e altri artisti (Tullio Brunone, Giovanni Columbu, Ettore Pasculli) di ricollegare l’arte, ritenuta prigioniera di un intellettualismo avulso dal reale, al contesto sociale.[2] L’aspetto militante resta ancorato a quegli anni, ma l’impegno di ordine etico e l’affrancamento da un sistema dell’arte considerato ghettizzante e ghettizzato rimarrà centrale anche per Studio Azzurro.

Nella sede di allora, in via Davanzati 5, dove già dal 1978 si trovava lo studio fotografico di Cirifino (Studio Azzurro Fotografia, da cui deriva il nome), convergono dunque delle professionalità già formate e un pensiero che oltre a consolidarsi, fa da leva a un cammino sperimentale e imprenditoriale autonomo. A questo concorre in maniera determinante l’incontro ‘produttivo’ con la tecnologia video. «Il video – ricorda Paolo Rosa, in un’intervista di qualche anno fa – per noi presupponeva un ripensamento radicale delle modalità creative e anche organizzative».[3] Le potenzialità del dispositivo elettronico vengono saggiate con Luci di inganni (1982), la prima videoinstallazione del gruppo, o meglio, il primo dei «videoambienti» - non in mostra, ma visibile nella sala dedicata alle produzioni del periodo 1982-1992.

Progettata per esporre in modo non convenzionale alcuni oggetti della collezione del gruppo Memphis, Luci di inganni presentava una successione di micro-set modulari, dove ogni oggetto era posto in dialogo con un monitor, che trasmetteva, sotto forma di videosequenza preregistrata, la rappresentazione animata dell’oggetto stesso.

Congiuntamente all’esplorazione e messa in scena della duttilità del medium, nell’installazione emersero subito alcuni punti della poetica di Studio Azzurro: il concetto di spazializzazione; il rapporto con una tecnologia ‘amichevole’; il dialogo tra reale e immaginario, tra la corporeità e la virtualità e tra un dentro e un fuori quadro.

I semi di un’estetica e di un’ambivalenza dialettica erano stati dunque piantati. I primi frutti si potranno cogliere un paio di anni più tardi, con il debutto di Il nuotatore (va troppo spesso a Heildeberg) (1984) a Palazzo Fortuny (Venezia). Nel celebre Palazzo viene ricostruita un’intera piscina, rivestita da migliaia di piastrelline azzurre. Il vano piastrellato resta però asciutto, mentre l’acqua vive all’interno di una compatta doppia fila di dodici monitor, attraversata in continuità da un nuotatore - come se il confine tra un apparecchio e l’altro fosse soltanto apparente - e animata, altresì, da un centinaio di micro azioni (un salvagente che sbuca, un’ancora che scende…), vincolate al quadro di ogni singolo monitor, (a differenza del nuotatore, per gli oggetti il margine non è oltrepassabile). Al di fuori, un tredicesimo monitor isolato dal resto trasmette l’immagine di un orologio, che segna, disordinatamente, il tempo. Lo spettatore prova a mettere insieme tutti i frammenti, tentando di dar loro un senso. Il risultato è che non può seguire nessuna forma di linearità: né temporale, né narrativa; anzi, quest’ultima è direttamente chiamato a costruirla, con i propri tempi.

 Studio Azzurro, Il nuotatore (va troppo spesso a Heildeberg), versione 2016, Palazzo Reale

L’apertura della mostra a Palazzo Reale è stata affidata proprio a Il nuotatore, opera con cui Studio Azzurro conquista, sul campo, i vertici dello scenario artistico contemporaneo, nonché la notorietà internazionale. Pur senza il rivestimento ambientante e in presenza di soltanto una delle due file di monitor, la sua forza non è stata intaccata dal tempo, rimasto in parte sibillino nel monitor isolato – presente, come appena riportato, anche nell’opera originaria – e in parte andato avanti, con gli sviluppi di una ricerca estesa anche agli ambiti teatrale e performativo.

In spettacoli come Prologo a un diario segreto contraffatto (1985) e La camera astratta (1987) – visibili nella videodocumentazione della prima delle due sale riservate al teatro – i principi compositivi dei videoambienti si amplificano e portano all’invenzione della «doppia scena». Oltre a essere una componente scenografica e a trasformarsi in pareti mobili, tese a prolungare lo spazio del palco, i monitor hanno qua una funzione drammaturgica: diventano ‘attori’ e, in quanto tali, si relazionano, in diretta (con il circuito chiuso) e in differita (con brevi sequenze preregistrate), con gli attori in carne e ossa, che si muovono sia di fronte agli spettatori che dietro le quinte, in una continua altalena tra scena reale e virtuale.

Nella sperimentazione sono introdotte ulteriori varianti, aumenta la complessità linguistica e a distanza di pochi anni comincia il passaggio dalla produzione dei videoambienti (1982-1992/1995) agli «ambienti sensibili» (dal 1995).

Se, infatti, le videoinstallazioni circoscritte al decennio 1982-1992 erano vincolate alla presenza dei monitor, con gli ambienti sensibili la tecnologia si alleggerisce, scompare alla vista facendo spazio ai dispositivi interattivi invisibili e alle «interfacce naturali» delle proiezioni. È in questa fase che Stefano Roveda, con le proprie competenze sui sistemi interattivi, si unisce al gruppo dei fondatori storici, diventandone la quarta «anima» (1995).

Le opere cerniera tra il prima e il dopo sono Il giardino delle cose (1992), il videoambiente meticcio, ibridato con la ‘sensibilità’ delle future produzioni, e, per il teatro, Delfi (visibile anch’essa nella prima sezione della videodocumentazione teatrale), da cui partono, due anni prima, nel 1990, le suggestioni al cambiamento. Fa da faro potenziante la lettura di un racconto di Ghianni Ritsos, di cui si riporta un estratto:

Sono stufe anche le statue. Sono stanche anche loro, le belle, le innocenti, le prive di responsabilità, loro che sono state plasmate con così tanta dolcezza dalle mani innamorate degli uomini per mostrare il corpo umano in tutta la sua bellezza. […] A volte sotto i drappeggi lavorati nel marmo, riesci ancora a distinguere, tremanti come una preghiera, delle membra umane, e toccando il ginocchio di pietra di una divinità in frantumi è ancora possibile sentire tutto quanto c’è nascosto.[4]

Lo Studio – racconta Paolo Rosa – vi si imbatte proprio in un momento in cui il vociare di troppe immagini e dati ‘aggrediva’ il loro immaginario e li spingeva insistentemente verso un cambio di rotta. Sulla scia del testo di Ritsos, Delfi viene progettata pensando a una scena affollata di statue, ma prevalentemente buia. La luce era fornita dal performer in movimento sul palco, ripreso da videocamere a infrarossi (videocamere termiche, capaci quindi di riprendere il calore emesso da un corpo) collegate a circuito chiuso con due grandi schermi che così lo diffondevano e lo riflettevano sul bianco delle statue. Lo spazio scenico, in sintesi, con quel che vi accadeva, era reso visibile soltanto per riflesso, in seguito al passaggio e all’azione dell’attore.

L’idea viene traslata a Il giardino delle cose. Il meccanismo non è ancora interattivo, ma gli oggetti che compaiono nei monitor prendono vita proprio grazie al calore delle mani che li manipolano e alla videocamera a infrarossi che lo registra.

 Studio Azzurro, Il giardino delle cose, versione 2016, Palazzo Reale

«Toccare per vedere», questa è la chiave di volta. Il toccare trasferisce calore e il termine si riempie di implicazioni estetiche ed etiche. In Studio Azzurro, immagini sensibili anche Il giardino delle cose – secondo, nell’ordine espositivo – è stato proposto in versione ridotta e liberamente rivisitato alla luce delle ricerche successive. Nonostante, infatti, i videoproiettori siano stati utilizzati a partire dal 1995, forse proprio per sottolineare il ruolo di passaggio dell’opera, i monitor sono stati sostituiti da proiezioni su piccoli schermi trasparenti. Inoltre, come a marcare l’allontanamento dalla visione e rafforzare l’idea di una fusione tra una dimensione immateriale e la corporeità della superficie di approdo, tipica degli ambienti sensibili che seguiranno, al blu immersivo originario (ossia al fondo da cui scaturiscono e verso cui ritornano gli oggetti manipolati) è stata aggiunta una tessitura di pennellate opacizzante. Una rilettura senza dubbio spettacolare, che ha intaccato però la natura dell’opera iniziale;[5] da tenere, viceversa, presente, proprio per ragioni storiche e per la fondamentale importanza nell’evoluzione del gruppo.

Il primo ambiente sensibile della storia di Studio Azzurro, e della mostra, è invece Tavoli (Perché queste mani mi toccano?) (1995);[6] e qui l’immaterialità del video si è davvero fusa con la fisicità di una superficie, peraltro dall’aspetto familiare: il tavolo, simbolo per eccellenza della convivialità. Proiettata sul suo piano, reso sensibile al tatto da invisibili sensori, l’immagine sollecita un ‘naturale’ dialogo tra questo e lo spettatore. Non c’è alcuna mediazione tecnica: non ci sono né le tastiere né i joystick tipici della classica interattività. La sollecitazione è spontanea, indotta com’è dall’insistente pseudo staticità dell’immagine. Il toccare si trasforma così in un gesto liberatorio. Le figure «pressoché immobili», si animano: una donna dormiente si volta; una tovaglia viene tirata via... La reazione al gesto trasforma la visione in un’esperienza sinestetica e relazionale che si attua ancora per frammenti modulari – tre i tavoli esposti (sei, in origine).

Con Coro (1995) lo spazio si essenzializza e la frammentazione si compatta in un grande tappeto. Il dispositivo interattivo qui si è fatto superficie da percorrere e ha su di sé una concentrazione di corpi. Una trama di gente ‘calpestata’, metafora di poteri agiti e subiti, che si gira, si sposta, sbuffa infastidita tra le pareti della sala. Giocosa è invece la dimensione di La pozzanghera (Micropaesaggio interattivo dedicato ai bambini) (2006), anch’essa in mostra a rappresentare, attraverso uno dei giochi più amati dai bambini, il crescendo di sfumature con cui è chiamata in causa la tattilità.

 Studio Azzurro, Tarocchi, versione 2016, Palazzo Reale

L’itinerario di Palazzo Reale ha previsto anche un omaggio di Studio Azzurro a Fabrizio De André, con Tarocchi, un saggio in veste contemplativa di tre dei Tarocchi di Faber, esposti per la prima volta nell’estensione interattiva della mostra itinerante dedicata alla poetica e alla figura del cantautore genovese (Palazzo Ducale, Genova, 31 dicembre 2008 - 3 maggio 2009). Il percorso ideato per De André è parte di una terza fase sperimentale, tuttora in corso. Nel passaggio al nuovo millennio, la poetica di Studio Azzurro si cimenta con una dimensione interattiva maggiormente partecipata, avviata, da un lato, con i paesaggi della mostra interattiva Meditazioni Mediterraneo (2002; riprese iniziate nel 2000), diventata un ciclo che prosegue nel tempo, e dall’altra con l’inaugurazione di una nuova concezione museale: i musei tematici, o «musei di narrazione»[7]. Entrambe le situazioni aprono a un «habitat narrativo» nuovo, dove all’arte e alla tecnologia si integra adesso la memoria, di luoghi e persone. Si fa strada così un’idea di territorialità espansa e stratificata – indagata con criteri multimediali e appresa in modalità plurisensoriale – che muove dagli ambiti geografico e storico (si pensi anche al Museo Audiovisivo della Resistenza di Fosdinovo, 2000; oppure alla Fabbrica della Ruota di Biella, 2005) per spaziare su panorami identitari, sociali o creativi, sfociati in un altro ciclo ancora, quello dei Portatori di storie.[8]

È in questo quadro che si inseriscono le ultime opere dell’esposizione.

 Studio Azzurro, Mediterraneo_La Siria che memoria scricchiolante avremo, versione 2016, Palazzo Reale

In rappresentanza dei paesi del Mediterraneo finora esplorati (Marocco, Libia, Italia, Grecia, Francia, Siria, Spagna), per la Sala delle Colonne è stata allestita, con riprese girate nel 2009, Mediterraneo_La Siria che memoria scricchiolante avremo: un doppio trittico di gigantesche proiezioni per sei teli di lino, disposti a tre a tre fra le colonne della sala. Su di essi, in alto, delle scarne ed esili mappature sintetizzano graficamente dei luoghi siriani. Poco al di sotto, accompagnate dalla voce di Khaled Soliman Alnassiry, che recita, come una litania, un suo breve componimento poetico, le proiezioni scorrono sul lino fino a debordare, a investire le colonne e le mappe sovrastanti, per poi dissolversi e riprendere il ciclo. Contengono gli sguardi persistenti di uomini e donne che si alternano a immagini di maggiore respiro: strade, paesaggi archeologici, dettagli di città piene di memoria, come Aleppo, Palmyra, Raqqa, Damasco… martoriate dal tempo e dall’uomo; andate in frantumi con i ricordi delle persone.

 Studio Azzurro, Miracolo a Milano, 2016, Palazzo Reale

Si colloca, invece, nei Portatori di storie, Miracolo a Milano (2016), l’ultima opera del percorso, ispirata al film di De Sica e pensata appositamente per la Sala delle Cariatidi. L’avvio verso la conclusione, però, si compie con una sorta di passaggio di testimone da Dove va tutta ‘sta gente (2000). Fra questo lavoro e l’ultimo ambiente sensibile, il salto temporale è di sedici anni, periodo durante il quale la ricerca di Studio Azzurro ha fatto in modo di dissolvere ulteriormente, con le produzioni appena presentate, i confini tra natura e artificio. Sono aumentate però, ed esponenzialmente, le barriere reali, dovute a più forme di immaginari virtuali. Nata come installazione interattiva, Dove va tutta ‘sta gente poneva la questione attraverso un gioco di riflessi speculari:

In questa opera tre porte automatiche di vetro accolgono lo spettatore spalancandosi amichevolmente come soglie che non si oppongono alla sua presenza. Ma, dall’altra parte degli schermi di vetro, le figure videoproiettate si agitano impattandosi sulle solide barriere di una civiltà diversa e seducente che non prevede divisione di privilegi.[9]

In Miracolo a Milano le persone non sbattono più contro nulla; per ragioni molteplici, anche imprevedibili, sono diventate loro stesse «invisibili», degli emarginati. È a loro, alle realtà dedicate all’accoglienza con cui fa i conti Milano che il lavoro vuole dar voce. Al posto degli schermi di vetro qui ci sono quattro grandi specchi. In ognuno di essi il visitatore si riflette soltanto per pochi attimi; quasi subito il riflesso si raddoppia e il proprio simulacro è affiancato dall’immagine dell’«invisibile» di turno che dallo specchio gli racconta in breve un pezzetto della propria storia; gli fa una confidenza sui propri vizi, sulle proprie passioni, le qualità. Poi, con un salto raggiunge il pantheon dei suoi simili, situato in alto, nella grande medaglia ovale al centro della volta. In quel punto, nel 1838, Francesco Hayez aveva dipinto un affresco in onore di Ferdinando I: «un invito alla virtù e alla gloria».[10]

Chi ha percorso Studio Azzurro, immagini sensibili ha rivisitato più di una storia. Dal 1982 di Luci di inganni sono trascorsi quasi trentacinque intensi anni di indagini estetiche e linguistiche. In questo periodo sono stati attraversati innumerevoli spazi, di ispirazione, creazione e azione e, come hanno testimoniato le opere, le foto e i testi, innumerevoli sono state anche le persone incontrate. Altrettanto vari sono stati i linguaggi con cui il dispositivo elettronico, passato nel frattempo dall’analogico al digitale, è stato posto a confronto: le arti visive, il teatro, la musica, ma anche la televisione e il cinema. A tal proposito va ricordato che nel periodo della mostra, da fine giugno a fine luglio 2016, il cinema Anteo ha proposto una rassegna di film (dal citato Facce di festa a Il Mnemonista, 2000) e videodocumenti inediti di Studio Azzurro. Negli anni, tutto il lavoro svolto è stato realizzato di volta in volta insieme a una rete di collaboratori sempre più estesa, che sono passati, fermandosi più o meno a lungo, sia nella sede di via Davanzati, che in quella attuale alla Fabbrica del Vapore. L’elenco, lunghissimo, è stato posto all’ingresso della mostra, in uno dei pannelli illustrativi. Non semplici credits, ma un imprescindibile valore aggiunto, di cui mantenere, anche in questo caso, retro-prospetticamente memoria.

 


1 Studio Azzurro, immagini sensibili, (catalogo della mostra), Cinisello Balsamo, Silvana editoriale, 2016.

2 V. Valentini, I sentieri interrotti del video. Una conversazione con Paolo Rosa e Fabio Cirifino, in V. Valentini (a cura di), Dialoghi tra film, video e televisione, Palermo, Sellerio, 1990, pp. 152-154.

3 B. Di Marino (a cura di), Studio Azzurro. Videoambienti, Ambienti sensibili e altre esperienze tra arte, cinema, teatro e musica, Milano, Feltrinelli, 2007, p. 41.

4 P. Rosa, Turisti dell’immaginario, in V. Valentini (a cura di), Studio Azzurro. Percorsi tra video, cinema e teatro, Milano, Electa, 1995, p. 87.

5 Studio Azzurro, Il giardino delle cose <https://vimeo.com/34812227> [accessed 23 ottobre 2016].

6 Studio Azzurro, Tavoli (Perché queste mani mi toccano?) <https://www.youtube.com/watch?v=9sB_CXsimp4> [accessed 23 ottobre 2016].

7 Studio Azzurro, Studio Azzurro - Musei di narrazione. Percorsi interattivi e affreschi multimediali, Milano, Silvana editoriale, 2011.

8 UOS Centro Studi e Ricerche, ASL Roma, Studio Azzurro (a cura di), Portatori di storie. Da vicino nessuno è normale, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2012.

9 Dove va tutta ‘sta gente (scheda) in B. Di Marino (a cura di), Studio Azzurro. Videoambienti, Ambienti sensibili e altre esperienze tra arte, cinema, teatro e musica, p. 164.

10 F. Mazzocca, ‘L’apparato decorativo: scultura e pittura’, in G. Carbonara, M. Palazzo (a cura di), La sala delle Cariatidi nel Palazzo Reale di Milano. Ricerche e restauro, Roma, Gangemi, 2012, p. 132.