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Il nocciolo del mondo è vuoto, il principio di ciò che si muove nell’universo è lo spazio del niente, attorno all’assenza si costruisce ciò che c’è. (Calvino 1992, p. 589)

 

 

Per i lettori di Calvino non è insolito confrontarsi con dei testi che sono il risultato di una sfida. Infatti, se l’autore ligure ha spesso ammesso che la genesi delle sue opere è puramente visiva, ossia dipende da un’immagine da cui prende forma la scrittura (‘Postfazione ai Nostri antenati [Nota 1960]’, Calvino 1991, p. 1210), avrebbe dovuto confessare che sullo stesso piano stanno anche delle contraintes autoimposte. La creatività calviniana, sin dagli anni Quaranta, sembra doversi confrontare con ingaggi impossibili per riuscire a esprimere pienamente. La prospettiva o la voce scelti per un romanzo o un racconto divengono l’unica via per esprimersi sin dal suo esordio con il Sentiero dei nidi di ragno (‘Prefazione 1964’, Calvino 1991, p. 1191).

All’interno di una pratica creativa che diviene col tempo ben rodata, la sfida con sé stesso si realizza spesso intorno all’immagine di città e diviene poi nello scorrere dei decenni una sorta di abitudine (Serra 2006, pp. 320-23), che sfocerà nel capolavoro che Calvino scrive tra il 1970 e il novembre del 1972 (Calvino 1992, pp. 1359): il suo «poema d’amore alle città» (Calvino 1993, p. IX).

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Promossa dal Comune di Milano, prodotta e realizzata da Palazzo Reale e Studio Azzurro, con la collaborazione di Arthemisia Group, il 4 settembre 2016 si è conclusa Studio Azzurro. immagini sensibili,[1] la «retroprospettiva» omaggio della città meneghina a una delle massime realtà della scena artistica contemporanea; e anche doveroso tributo al suo indimenticabile teorico, Paolo Rosa, portato via troppo presto da un infarto, nell’agosto del 2013.

Inaugurato lo scorso 9 aprile, il percorso espositivo si è snodato tra le quattordici sale più prestigiose di Palazzo Reale ed è stato articolato come un viaggio in un’ampia parte dell’immaginario di Studio Azzurro, che lo ha filtrato attraverso il proprio sguardo ed enucleato principalmente intorno a nove opere rappresentative, scelte come tappe nodali di una storia colta in divenire – ‘retro-prospettica’, appunto – e trasformatasi nel tempo.

Al contempo, però, Studio Azzurro, immagini sensibili ha offerto anche la possibilità di ripercorrere quasi integralmente l’intera sperimentazione del gruppo, compresa quella teatrale, affidandola in forma di videodocumentazione a monitor e proiezioni distribuiti su cinque sale tematiche. Ogni sala, inoltre, è stata corredata da pannelli illustrativi con sopra riprodotta una selezione di immagini, disegni di progetti e note relative; un apparato arricchente, andato nettamente al di là dell’esclusiva funzione didascalica.

La storia formale di Studio Azzurro comincia a Milano nel 1982. A fondarlo, unendo diverse competenze, sono Fabio Cirifino (fotografia), Paolo Rosa (arti visive e cinema) e Leonardo Sangiorgi (grafica e animazione) che, di fatto, lavoravano insieme già da alcuni anni, dalla realizzazione del film Facce di festa (1979).

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[…] giorno dopo giorno,

anno dopo anno,

passo dopo passo, disperatamente,

trovavamo la maniera di portare

chi stava dentro fuori

e chi stava fuori dentro.

Franco Basaglia

Il Museo Laboratorio della Mente,[1] aperto al pubblico nel 2000, all’interno del Padiglione 6 dell’ex Ospedale Psichiatrico Santa Maria della Pietà, a Roma, ha visto nel 2008 l’inaugurazione del nuovo allestimento ideato dagli artisti di Studio Azzurro e dal Centro Studi e Ricerche ASL RomaE divenendo, come scrive il direttore scientifico Pompeo Martelli, un luogo che non esaurisce la sua funzione nella conservazione della memoria di un ex ospedale psichiatrico. Una parte del vecchio ospedale si converte così in luogo da esplorare, in un eccezionale laboratorio per la critica al modello manicomiale e la sperimentazione di una nuova cultura della salute mentale, già sancita con la legge 180 del 1978. La progettazione è stata affrontata con estremo rispetto dalla ‘squadra’ di Studio Azzurro, consapevole della memoria e dell’esperienza passata, e con un’attenzione particolare all’uso e al senso di una tecnologia che è parte integrante del percorso e ‘oggetto’ stesso del discorso. Si viaggia accompagnati in questo museo articolato in sette sezioni e diviso interamente da una barriera trasparente in plexiglass che condiziona il percorso, divenendo di volta in volta oggetto, supporto di proiezione, barriera, vetrina e che produce nel visitatore la sensazione di trovarsi al di qua o al di là di un ambiente, di essere ‘dentro’ o ‘fuori’.

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