6.2. Bauci: vedere l’assenza (dalla giusta distanza)

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Il nocciolo del mondo è vuoto, il principio di ciò che si muove nell’universo è lo spazio del niente, attorno all’assenza si costruisce ciò che c’è. (Calvino 1992, p. 589)

 

 

Per i lettori di Calvino non è insolito confrontarsi con dei testi che sono il risultato di una sfida. Infatti, se l’autore ligure ha spesso ammesso che la genesi delle sue opere è puramente visiva, ossia dipende da un’immagine da cui prende forma la scrittura (‘Postfazione ai Nostri antenati [Nota 1960]’, Calvino 1991, p. 1210), avrebbe dovuto confessare che sullo stesso piano stanno anche delle contraintes autoimposte. La creatività calviniana, sin dagli anni Quaranta, sembra doversi confrontare con ingaggi impossibili per riuscire a esprimere pienamente. La prospettiva o la voce scelti per un romanzo o un racconto divengono l’unica via per esprimersi sin dal suo esordio con il Sentiero dei nidi di ragno (‘Prefazione 1964’, Calvino 1991, p. 1191).

All’interno di una pratica creativa che diviene col tempo ben rodata, la sfida con sé stesso si realizza spesso intorno all’immagine di città e diviene poi nello scorrere dei decenni una sorta di abitudine (Serra 2006, pp. 320-23), che sfocerà nel capolavoro che Calvino scrive tra il 1970 e il novembre del 1972 (Calvino 1992, pp. 1359): il suo «poema d’amore alle città» (Calvino 1993, p. IX).

Le 55 città che compongono Le città invisibili hanno tutte a che fare con quella antica consuetudine e rispondono a ‘sfide’, più o meno differenti, entro i quali si sviluppano le descrizioni che Marco Polo offre in dono a Kublai Kan. Le 11 categorie che orientano la natura di tali narrazioni non sono altro che le contraintes entro le quali la struttura complessiva prende forma e plasma al contempo il ‘romanzo’ (Milanini 1990, p. 128-134). Ognuna delle 5 città che compongono l’insieme dedicato a tali categorie rappresenta, dunque, una delle possibili declinazioni interne all’impresa di rendere visibili delle città invisibili.

In tal senso la terza delle ‘città e gli occhi’, Bauci, non è soltanto il cuore dell’opera, per la sua posizione geometricamente centrale all’interno della struttura ideata da Calvino (ivi, p. 144) – la precedono ventisei città e la seguono venticinque –, ma perché porta al limite la sfida interna al racconto, ovvero descrivere un’assenza: «Dopo aver marciato sette giorni attraverso boscaglie, chi va a Bauci non riesce a vederla ed è arrivato». (CI, p. 423)

Bauci sarebbe dunque la più invisibile delle città invisibili. Ciò che riusciamo a ‘vedere’, infatti, da un lato, è quanto ad essa conduce (trampoli, scalette, gambe da fenicottero) e, dall’altro, Calvino ci induce a immaginare gli abitanti ‘assenti’ della città, che forse si tengono lontani dalla Terra per un eccesso d’odio o per un immenso amore e rispetto, che li spingerebbe a volerne osservare con cannocchiali e telescopi ogni minimo dettaglio «foglia a foglia, sasso a sasso, formica per formica, contemplando affascinati la propria assenza» (CI, p. 423).

Immagine sdoppiata dell’autore, gli abitanti di Bauci si lasciano contagiare dal demone della descrizione che affligge Calvino, insieme al suo Marco Polo, e dal suo desiderio di assenza e lontananza, alla quale si era affezionato dallo scadere degli anni Cinquanta – come attesta bene la trilogia dei Nostri Antenati (Cases 1987).

Bauci custodisce in sé, dunque, tre termini nodali per comprendere non solo Le città invisibili ma forse l’intera parabola esistenziale e letteraria di Calvino: assenza, distanza e sguardo. A ben vedere, queste parole chiave sono inscritte già nel nome della città: Bauci appartiene a quel gruppo di nomi, che in Calvino divengono toponimi parlanti, di ascendenza classica e, più nello specifico, ovidiana (Barenghi 2002, p. 83 e Terrusi 2012, pp. 198-200). L’autore ligure attinge dalle Metamorfosi e battezza la città dell’assenza come la protagonista di una delle storie dell’ottavo libro (Met. VIII, 610-724), centro dell’opera di Ovidio. Bauci è la protagonista, insieme al marito Filemone, di un racconto che contiene in sé alcuni degli elementi che sembrano alimentare la fantasia creativa di Calvino. La vicenda viene spesso ricordata quale emblema dell’ospitalità che i due anziani, poveri e malandati, ma disposti ad accogliere con gioia Zeus ed Ermes, incarnano alla perfezione. Tuttavia, la loro storia non è molto distante da quella degli abitanti di Bauci (lo aveva in parte suggerito già Ossola 1987, p. 248). Come si ricorderà, dopo la generosa accoglienza riservata alle divinità travestite da mendicanti e respinte dagli altri abitanti della Frigia, i due vecchietti vengono condotti in cima a un monte e assistono dall’alto allo sterminio di coloro che si sono macchiati del tremendo peccato dell’inospitalità. Ottengono poi di veder trasformata in tempio la loro umile dimora e di divenirne sacerdoti, e soprattutto di poter morire insieme; infine vengono trasformati in quercia, Filemone, e tiglio (simbolo dell’amore coniugale) Bauci, che a loro volta divengono oggetto di culto alle porte del tempio. Se proviamo a ridurre all’essenziale la storia narrata da Ovidio, emergono gli elementi semplici che Calvino riadatta alla terza delle ‘città e gli occhi’. Il mito contiene in sé il vuoto, nel quale sorge la Bauci di Calvino, la distanza e soprattutto lo sguardo da lontano con cui i due coniugi di cui scrive Ovidio contemplano ciò che rimane della Terra, dopo il tremendo diluvio sterminatore. Se volessimo spingerci più in là, potremmo dire che perfino il fogliame che prende il posto dei corpi dei due protagonisti umani tramutati in alberi nutre la fantasia di Calvino e diviene l’oggetto dello sguardo degli abitanti di Bauci.

Intorno all’assenza, alla lontananza e allo sguardo ruotano, come era facile prevedere, anche le trasposizioni visive che di Bauci sono state e continuano ad essere realizzate.

 

  1. Vivere da ‘assenti’

 

Se – come ha sostenuto Marco Belpoliti – le città descritte da Marco Polo sfuggono programmaticamente a ogni tentativo di visualizzazione o sono quanto meno «difficili da rappresentare in figura» (Belpoliti 2005, p. 45), il compito, di per sé arduo, si complica nel dover rappresentare un vuoto. Iper-sfida è di conseguenza quella nella quale si sono lanciati i tanti artisti che hanno provato a dare corpo e immagine alla ‘città dell’assenza’, utopia iconica per eccellenza. Eppure, non sono mancati coloro che hanno accolto tale sfida rappresentativa e hanno provato a dar forma visibile all’invisibile e assente Bauci.

Memorabile in tal senso è l’installazione che a questa città ha dedicato Studio Azzurro in occasione della mostra che nel 2002 la Triennale di Milano (Le città In/visibili, 5 novembre 2002 – 9 marzo 2003) ha organizzato per celebrare i trent’anni dalla pubblicazione delle Città invisibili (https://www.studioazzurro.com/opere/la-citta-degli-occhi/ ) (vd. Iacoli 2004). Il fulcro visivo da cui trae ispirazione ‘l’ambiente sensibile’ ideato dal collettivo milanese è la via di accesso alla città: «ci si sale con scalette» (CI, p. 423). Il diminutivo impiegato da Calvino si traduce, però, in uno scalone, percorribile dai visitatori della mostra, sul quale vengono proiettate le ombre degli abitanti di Bauci che ascendono verso la città o ne vengono espulsi con violenza. A piovere non sono soltanto i corpi effimeri di questi cittadini assenti, ma l’esperienza immersiva diviene totale in virtù di un tappeto sonoro che recita il testo di Calvino come una litania scomposta (video visibile su yuotube: https://www.youtube.com/watch?v=jSX3Gp1iesY). Una nuvola evanescente lascia soltanto presagire, al disopra della scala, la città invisibile e post-antropica (Barenghi, Canova, Falcetto 2002, pp. 184-187).

Su questi due emblemi, scalette e nuvole, ruota interamente anche la Bauci inclusa nel progetto Seeing Calvino (https://seeingcalvino.tumblr.com ) realizzato da tre artisti statunitensi: Leighton Connor, Matt Kish e Joe Kuth, i quali hanno illustrato sia le Città invisibili sia Le Cosmicomiche servendosi della piattaforma tumblr.com. Il progetto Seeing Calvino è stato inaugurato nell’aprile del 2014 e si è concluso dopo un anno (per quel che riguarda le Città): i tre artisti per cinquantacinque mercoledì hanno caricato sul blog l’immagine di una delle città descritte da Calvino accompagnata da estratti dei testi ai quali si sono ispirati. Le loro città, come piccoli emblemi digitali, giocano sulla perfetta sinergia tra testo e immagine, non rinunciando a tenere insieme ‘l’anima e il corpo’ delle Città invisibili.

La Bauci di Matt Kish [fig. 1], pur impiegando le stesse ‘figure’ evocate nel testo, giunge a un effetto diametralmente opposto rispetto all’installazione di Studio Azzurro. L’immagine, dal cromatismo essenziale, giocato sui toni del verde, del bianco e del nero, trasforma l’assenza della città in qualcosa di concreto e familiare: un morbido uccello dalle «lunghe gambe da fenicottero» (CI, p. 423) o forse un ragno che al posto delle zampe pelose ha invece delle scalette a pioli (Rizzarelli 2015, p. 54). Le soffici nuvole che fanno da corpo a questo animale fantastico si stagliano sullo sfondo verde che riempie il vuoto con il colore che meglio rappresenta uno degli oggetti che attrae l’attenzione degli abitanti di Bauci: le foglie passate in rassegna ad una ad una dall’alto. Il vuoto saturato cromaticamente dal colore ci restituisce un’assenza gioiosa, che trova consolazione in ciò dal quale ci si tiene lontani, ma che si osserva affascinati.

Il vuoto si traduce, invece, in assenza di colore nell’opera di Gabriele Genini, che insieme a Sara Vettori ha dato vita a due esposizione dedicate alle Città invisibili (Le visibili città invisibili. Un omaggio a Italo Calvino, Firenze, Sala delle Colonne, 19-29 novembre 2012 e Siena, Palazzo Patrizi, 19 settembre-15 ottobre 2015). I due artisti, impiegando differenti tecniche incisorie, hanno conferito visibilità alle città di Calvino servendosi della matericità delle inchiostrature e dei segni lasciati dagli acidi (si veda il video di Vettori su youtube: https://www.youtube.com/watch?v=B-7vDFFCGvY ), e sull’opposizione tra bianco e nero che ne deriva. Bauci [fig. 2] si traduce così in un paesaggio contemplato dal basso, nel quale l’osservatore, destreggiandosi tra i pilastri da palafitta che sorreggono la città, totalmente preclusa al suo sguardo, sente quasi di poter sfiorare le molli scale agitate dal vento, che lo allettano ad unirsi agli abitanti nascosti sopra le nuvole.

L’assenza sembra il filo conduttore anche dell’acquerello che Pedro Cano ha dedicato alla città che si annida al centro del regno di Kublai Kan. Come è noto, l’artista spagnolo, accogliendo l’invito alla lettura di Esther Singer Calvino, che gli ha fatto dono di una copia del romanzo, ha dedicato un articolato progetto illustrativo alle Città invisibili, forse la più nota transcodificazione visiva dell’opera. Per questo ciclo iconografico sarebbe più corretto di parlare di visualizzazione dei racconti di Marco Polo all’imperatore, dal momento che i 55 acquerelli che lo compongono sono ben più di semplici illustrazioni (Kreisberg 2012). Le città di Cano sono un raffinato percorso ermeneutico del testo calviniano, nel quale le immagini ingaggiano con le parole un serrato processo di transcodificazione e sostituzione: sono a tutti gli effetti narrazioni visive, piccoli poemi iconici.

La sua Bauci [fig. 3] interpreta l’assenza giungendo ad obliterare quasi tutto ciò che altri artisti e Calvino stesso avevano impiegato per descriverla. Una serie ritmata di pilastri, interrotta forse da una scaletta visibile a malapena, è avvolta da una nebbia fangosa e diffusa: qui tutto sembra essere scomparso, un paesaggio post-atomico. Cano, infatti, coglie e sviluppa l’enigma con cui si chiude la descrizione di Marco Polo:

 

Tre ipotesi si danno sugli abitanti di Bauci: che odino la Terra; che la rispettino al punto d’evitare ogni contatto; che la amino com’era prima di loro […]. (CI, 423)
 

L’acquerello, anche grazie allo sfumato che avvolge ogni cosa, lascia il lettore/osservatore dinanzi al mistero di questo rompicapo: che cosa genera l’assenza? Odio, rispetto o amore restano le cause possibili, ma poco importa ciò che li origina rispetto al vuoto che tali emozioni producono. L’assenza è assenza, senza scampo e senza attenuanti.

 

  1. La giusta distanza

 

La città di Bauci, tuttavia, contiene in sé tutte e tre le risposte possibili. L’assenza, infatti, potrebbe essere prodotta anche dal rispetto e dall’amore, che inducono alla distanza – tanto amata da Calvino. Potremmo dire allora che Bauci ‘somiglia’ a uno dei personaggi più noti creati dall’autore ligure alla fine degli anni Cinquanta, anzi si potrebbe ipotizzare che si tratti della città in cui ha trovato rifugio il barone Cosimo Piovasco di Rondò, dove è atterrato trasportato dalla mongolfiera che nell’epilogo lo sottrae allo sguardo del fratello e dei lettori (Calvino 1991, pp. 775-776). Gli abitanti di Bauci, come Cosimo, hanno deciso di non mettere più piede sulla Terra e di contemplarla dalla giusta distanza. Ma la distanza è per Calvino l’opposto dell’assenza, rappresenta la chiave per rimanere nel mondo e provare a cambiarlo, come spiega molto bene il suo barone:

 

Anche qui avevo da tempo un’immagine in testa: un ragazzo che sale su di un albero; sale, e cosa gli succede? sale ed entra in un altro mondo; no: sale, e incontra personaggi straordinari; ecco: sale, e d’albero in albero viaggia per giorni e giorni, anzi, non torna più giù, si rifiuta di scendere a terra, passa sugli alberi tutta la vita. Dovevo farne la storia di una fuga dai rapporti umani, dalla società, dalla politica eccetera? No, sarebbe stato troppo ovvio e futile: il gioco cominciava a interessarmi solo se facevo di questo personaggio che rifiuta di camminare per terra come gli altri non un misantropo ma un uomo continuamente dedito al bene del prossimo, inserito nel movimento dei suoi tempi, che vuole partecipare a ogni aspetto della vita attiva […]. Sempre però sapendo che essere con gli altri veramente, la sola via era d’essere separati dagli altri, d’imporre testardamente a sé e agli altri quella sua incomoda singolarità e solitudine in tutte le ore e i momenti della sua vita, così come è vocazione del poeta, dell’esploratore, del rivoluzionario. (‘Postfazione ai Nostri antenati [Nota 1960]’, Calvino 1991, p. 1214)

 

In questa direzione sembra muoversi la traduzione visiva di Bauci di Karina Puente [fig. 4]. L’architetta e illustratrice peruviana ha intrapreso nel 2015 un viaggio attraverso le 55 Città di Calvino che si è tradotto in altrettante opere, realizzate con tecnica mista, nelle quali, attraverso l’impiego di tre colori, o meglio, di un bianco e nero spezzato dal giallo ocra, si narra l’invisibile attraverso il familiare. Puente si serve del proprio bagaglio di immagini memoriali per dar forma ai resoconti di Marco Polo, che – allo stesso modo – hanno origine dalla memoria del viaggiatore. L’illustrazione diviene per ammissione dell’artista la forma migliore di traduzione interpretativa: «one of the biggest challenges raised with this project is to target the subjective. I am passionate about the interpretation of the word into an image» (https://karinapuente.com/about-me ).

La Bauci di Puente traduce in figura il legame tra basso e alto, che la distanza calviniana prevede; pur trattandosi di un’immagine bipartita, nella quale l’osservatore può vedere sia gli abitanti della città, sia la terra al di sotto delle nuvole, ciò che emerge è la complementarità tra i due piani. La Terrà giù e la città in alto sono distanti e divise, ma le scalette – che qui somigliano a moderni ascensori dalle pareti invisibili – esplicitano il legame inscindibile tra i due mondi, come del resto suggerisce anche il giallo che fa da trait d’union cromatico. La distanza, dunque, benché percepibile, diviene contatto, un nodo che unisce e non separa.

Ne troviamo conferma anche nell’opera di Colleen Corradi Brannigan [fig. 5], anch’essa autrice di una serie completa dedicata alle Città invisibili ( https://www.cittainvisibili.com ) che ha contribuito a renderla nota. Anche le sue città, come dichiara l’artista, provengono da un affioramento memoriale:

 

My first approach to the “Invisible Cities” came as a shallow indifference. Nothing more than part of a university programme to carry out; they remained dormant in my mind for years. Then, one day, in New York, while I was working on etchings of English castles that I was familiar with, Eudossia took form. That is how the dusty cities of the past came to life and set the foundations of imaginary worlds that I wished to create from the “English” designs. Now, each time my mind recalls the streets of the cities as described by Calvino, I get new inspirations from words that I had not noticed before or meanings that are open to new interpretations in a discovery that is never ending. (https://www.cittainvisibili.com/page/about_us )

 

Di legami stretti e duraturi sembra narrare la sua Bauci, realizzata sia ad acquaforte e acqua tinta, sia con pittura ad olio [fig. 5]. Corradi Brannigan enfatizza con un processo quasi di distorsione e di allungamento dell’immagine la distanza della città dalla Terra, che sembra respingerla e proiettarla nello spazio, ma tuttavia colma tale spazio con un groviglio di intricate radici, ancor più accentuate nella versione a olio. Le scalette citate da Calvino cedono il posto a un cordone ombelicale arboreo: la città e la Terra sono lontanissime ma inscindibili, parti inseparabili di un unico organismo botanico. Pur distanti, gli abitanti di Bauci, come Calvino, restano saldamente ancorati alla superficie terreste, senza toccarla ma non potendo staccarsene.

Al polo opposto si colloca, invece, la visualizzazione della città di Bauci realizzata da Angelo Stano, in occasione della mostra milanese del 2002 già ricordata, all’interno di un gruppo di illustrazioni create da disegnatori dell’illustre casa Bonelli (https://www.sergiobonelli.it/gallery/10009/-Le-citta-in-visibili-.html#1 ).

Il noto fumettista capovolge la prospettiva della descrizione di Marco Polo e si lascia ispirare dal vuoto trasformandolo in pieno, in ciò che si vede. La sua Bauci è lontanissima dalla Terra, come suggerisce la prospettiva aerea che la inquadra, ma l’osservatore, sub specie Dei, può vedere nella tavola di Stano ciò che si nasconde al di là delle nuvole. Bauci si mostra, così, come una giostra volante, distaccata e distante dalla terra che rimane nascosta sotto la folta coperta di nuvole che contorna il margine inferiore della tavola e che ne lascia presagire qualche francobollo attraverso la fitta rete di nubi. La distanza dalla Terra mostra qui l’altra faccia della medaglia, si svela forse per ciò che è, il rischio che comporta: lo scollamento dalla realtà. Un barlume di speranza è contenuto nei sottilissimi fili che legano Bauci, dalle cupole che sembrano palloncini, a ciò che non è visibile ma si può intuire come una promessa.

 

 

  1. Con gli occhi ben aperti

 

Assenti, o semplicemente distanti dalla Terra, gli abitanti di Bauci non rinunciano a compiere l’azione che nel vocabolario di Calvino corrisponde a qualcosa di primordiale e di irrinunciabile, guardare (vd. Belpoliti 2006 e Belpoliti 2023). Per Calvino osservare, ovvero non rinunciare a guardare il mondo, rappresenta una forma di resistenza.

La resistenza dello sguardo è infatti la marca distintiva di un altro celeberrimo personaggio calviniano: il signor Palomar. Il protagonista dell’ultimo romanzo di Calvino (1983) è quello che per certi versi gli somiglia di più, il più «scopertamente autobiografico» (Serra 2006, p. 34 e si veda anche Serra 1996) ed è al contempo il personaggio che meglio si avvicina agli abitanti di Bauci. Il suo nome, non a caso, deriva proprio da un noto osservatorio astronomico, come spiega il trafiletto che accompagna la sua prima apparizione:

 

Nasce un nuovo personaggio: il signor Palomar. Forse dandogli il nome di un famoso osservatorio astronomico Italo Calvino ha voluto significare che la realtà contemporanea, la natura e gli atteggiamenti umani sono guardati come da un lontano attento telescopio.
(«Corriere della Sera», agosto 1975, in Serra 2006, p. 341)

 

Potremmo dire che il signor Palomar sviluppa nell’arco della sua parabola esistenziale ciò che Marco Polo racconta della terza ‘città e gli occhi’: andando a ritroso, il capitolo conclusivo, Come imparare a essere i morti (Calvino 1992, pp. 975-979) ricorda da vicino l’abitudine degli abitanti di Bauci a «contemplare affascinati la propria assenza»:

 

Il signor Palomar decide che d’ora in poi farà come se fosse morto, per vedere come va il mondo senza di lui. (CI, p. 423)

 

E tutte le avventure di Palomar ‘scrutatore’ della «superficie delle cose» (Calvino 1992, p. 920) e perfino del cielo stellato a «occhio nudo» (ivi, p. 909) sembrano sviluppare l’amore smodato e inesausto per l’osservazione con cannocchiali e telescopi degli abitanti di Bauci del mondo di giù, che passano «in rassegna, foglia a foglia, sasso a sasso, formica per formica» (ibidem). Potremmo pensare che Palomar sia un cittadino onorario di Bauci, dal momento che anche per lui guardare vuol dire enumerare, riconoscere nell’insieme il singolo elemento e da quello risalire ancora all’insieme e al suo significato:

 

Palomar è già passato a un altro corso di pensieri: è il «prato» ciò che noi vediamo oppure vediamo un’erba più un’erba più un’erba…? Quello che noi diciamo «vedere il prato» è solo un effetto dei nostri sensi approssimativi e grossolani; un insieme esiste solo in quanto formato da elementi distinti. Non è il caso di contarli, il numero non importa; quel che importa è afferrare in un solo colpo d’occhio le singole pianticelle una per una, nelle loro particolarità e differenze. E non solamente vederle: pensarle. Invece di pensare «prato», pensare quel gambo con due foglie di trifoglio, quella sottile e quella lanceolata un po’ ingobbita, quel corimbo sottile… (ivi, p. 900)

 

Il prato o l’onda (si veda Lettura di un’onda, ivi, pp. 875-879), che Palomar prova a scomporre in elementi singoli da guardare, sono le chiavi per decodificare il mondo e in parte provare a controllarlo o almeno comprenderlo.

Il guardare, come operazione inesauribile e incessante, sostanzia la versione di Bauci realizzata da Shreya Gupta [fig. 6]. L’artista, indiana di nascita e newyorchese per scelta, ci mostra gli abitanti di Bauci per quel che sono: voyeur, dotati di binocoli e cannocchiali, che fanno capolino tra le nuvole e non riescono a staccare lo sguardo da un bellissimo e intricato prato fiorito. Il cuore del racconto di Calvino è tutto lì, non resta spazio per altro.

Come accade anche nell’interpretazione visiva di Bauci offerta da Eda Akaltun [fig. 7], che come Gupta – pur essendo nata a Istambul e aver studiato a Londra – ha scelto di vivere nella città più amata da Calvino, ovvero New York. La Bauci di Akaltun, dalla chiara ispirazione surrealista, celebra come fulcro visivo e narrativo l’elemento che rappresenta la categoria a cui la città appartiene, ovvero gli occhi. I protagonisti della scena sono proprio gli occhi degli abitanti di Bauci, dei quali non scorgiamo altro, ma che li rappresentano come per sineddoche: con uno sguardo bifocale guardano l’osservato e insieme, con telescopi stilizzati, contemplano un paesaggio arido. Non rimane quasi nulla delle foglie o delle formiche evocate da Calvino; soltanto degli uccelli dal piumaggio screziato di rosso interrompono la desolazione di questa Terra più simile alla Luna.

 

Bibliografia

 

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I. Calvino, ‘Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno’, in Id., Romanzi e Racconti, 1991, I, pp. 1185-1204.

I. Calvino, ‘Postfazione ai Nostri antenati (Nota 1960)’, in Id., Romanzi e Racconti, 1991, I, pp. 1208-1219.

I. Calvino, Palomar [1983], in Id., Romanzi e Racconti, 1992, II, pp. 874-979.

 

 

M. Barenghi, G. Canova, B. Falcetto (a cura di), La visione dell'invisibile: saggi e materiali su Le città invisibili di Italo Calvino, Milano, Mondadori, 2002.

M. Barenghi, Gli abbozzi dell’indice. Quattro fogli dell’archivio di Calvino, in La visione dell’invisibile, pp. 74-95.

M. Belpoliti, ‘Città visibili e città invisibili’, Chroniques italiennes, 2005, nn. 75/76 (1-2), pp. 45-59.

M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, Torino, Einaudi, 2006

M. Belpoliti (a cura di), I. Calvino, Guardare: disegno, cinema, fotografia, arte, paesaggio, visioni e collezioni, Milano, Mondadori, 2023.

P. Cano, Le città invisibili. Las ciudades invisibles, catalogo della mostra presso Palazzo Vecchio, Firenze, 8 ottobre – 22 novembre 2005, Firenze, Falteri Grafica Antica e Moderna, 2005.

C. Cases, Calvino e il «pathos della distanza», in Id., Patrie lettere, Torino, Einaudi, 1987, pp. 160-166.

G. Iacoli, Calvino alla “Triennale”. Un tracciato critico per le Città invisibili Portales, 5, 2004, pp. 143-150.

A. Kreisberg, ‘Le città invisibili nell’immaginario di Italo Calvino e nelle immagini di Pedro Cano”, Italies, 16 (2012) [accessed 03 October 2023]

C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, Milano, Garzanti, 1990.

C. Ossola, ‘L’invisibile e il suo ‘dove’: «geografia interiore» di Italo Calvino, Lettere Italiane, XXIX, 1987, 2, pp. 220-251

G. Rizzarelli, ‘Le città visibili. Il progetto Seeing Calvino di Math Kish, Joe Kuth e Leighton Connor’, Cenobio. Rivista trimestrale di cultura, LXIV, 4, 2015, pp. 35-57.

F. Serra, Calvino e il pulviscolo di Palomar, Firenze, Le Lettere, 1996.

F. Serra, Calvino, Roma, Salerno, 2006.

L. Terrusi, ‘Il ‘grado zero’ onomastico delle Città invisibili di Italo Calvino’, in Id., I nomi non importano. Funzioni e strategie onomastiche nella tradizione letterarie italiana, Pisa, ETS, 2012, pp. 195-217.

 

Sitografia

 

https://www.studioazzurro.com/opere/la-citta-degli-occhi/

https://seeingcalvino.tumblr.com

https://karinapuente.com/about-me

https://www.cittainvisibili.com

https://www.sergiobonelli.it/gallery/10009/-Le-citta-in-visibili-.html#1