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La città di Moriana è collocata all’inizio del capitolo VII delle Città invisibili ed è identificata come la n. 5 della serie ‘Le città e gli occhi’. È la città bifronte senza spessore che «consiste solo in un dritto e in un rovescio, come un foglio di carta, con una figura di qua e una di là, che non possono staccarsi né guardarsi» (CI, p. 449). Di conseguenza: da un lato, la città limpida e acquatica «con le porte d’alabastro trasparenti alla luce del sole, le colonne di corallo che sostengono i frontoni incrostati di serpentina, le ville tutte di vetro come acquari dove nuotano le ombre delle danzatrici dalle squame argentate sotto i lampadari a forma di medusa»; dall’altro lato, la città di detriti e spazzatura, «una distesa di lamiera arrugginita, tela di sacco, assi irte di chiodi, tubi neri di fuliggine, mucchi di barattoli, muri ciechi con scritte stinte, telai di sedie spagliate, corde buone solo per impiccarsi a un trave marcio» (ibidem). Il viaggiatore farà inevitabilmente esperienza dei due volti di Moriana, perché essi sono inseparabili come le due facce delle carte dei tarocchi: il dritto geometrico e cristallino implica anche il rovescio caotico e desolato. In questo capitolo, Marco Polo e Kublai Kan discutono in particolare della forza dell’immaginazione e si chiedono se quello che vedono sia reale oppure sia una proiezione della loro mente (ammette Polo: «Forse questo giardino esiste solo nell’ombra delle nostre palpebre abbassate», CI, p. 447). Così, Kublai mette in dubbio non solo che Polo abbia davvero visitato le città che descrive, ma addirittura l’esistenza stessa dei due uomini che dialogano affermando che potrebbe trattarsi solo di «due straccioni soprannominati Kublai Kan e Marco Polo» (ibidem).

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Il nocciolo del mondo è vuoto, il principio di ciò che si muove nell’universo è lo spazio del niente, attorno all’assenza si costruisce ciò che c’è. (Calvino 1992, p. 589)

 

 

Per i lettori di Calvino non è insolito confrontarsi con dei testi che sono il risultato di una sfida. Infatti, se l’autore ligure ha spesso ammesso che la genesi delle sue opere è puramente visiva, ossia dipende da un’immagine da cui prende forma la scrittura (‘Postfazione ai Nostri antenati [Nota 1960]’, Calvino 1991, p. 1210), avrebbe dovuto confessare che sullo stesso piano stanno anche delle contraintes autoimposte. La creatività calviniana, sin dagli anni Quaranta, sembra doversi confrontare con ingaggi impossibili per riuscire a esprimere pienamente. La prospettiva o la voce scelti per un romanzo o un racconto divengono l’unica via per esprimersi sin dal suo esordio con il Sentiero dei nidi di ragno (‘Prefazione 1964’, Calvino 1991, p. 1191).

All’interno di una pratica creativa che diviene col tempo ben rodata, la sfida con sé stesso si realizza spesso intorno all’immagine di città e diviene poi nello scorrere dei decenni una sorta di abitudine (Serra 2006, pp. 320-23), che sfocerà nel capolavoro che Calvino scrive tra il 1970 e il novembre del 1972 (Calvino 1992, pp. 1359): il suo «poema d’amore alle città» (Calvino 1993, p. IX).

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Prima della serie ‘le città e gli occhi’, Valdrada tematizza uno degli aspetti più pervasivi dell’opera di Calvino, il procedere per binarismi oppositivi per meglio riflettere sulle modalità e sulla fallacia delle nostre percezioni del reale. È solo una delle molte città speculari presenti nelle pagine delle Città invisibili (e i lavori successivi: basti pensare alla Foresta Radice-Labirinto, elaborata cinque anni più tardi, che evoca al contempo l’incatturabile Bauci e Sofronia, smontabile per metà). Ma se Eusapia è strutturata in forma apertamente binaria – con la necropoli che fa da ideale contraltare alla città dei vivi –, l’architettura e l’ethos di Valdrada non rispondono ai principi della simmetria, piuttosto a quelli della specularità: in questo più simile a Betsabea, città al contempo angelica e fecale. Come nei riflessi speculari delle stampe di Escher, tra le principali fonti visive dello scrittore, Valdrada è costituita dalla somma tra la città sopra il lago e quella «sulle rive d’un lago con case tutte verande una sopra all’altra e vie alte che affacciano sull’acqua i parapetti a balaustra» (CI, p. 399).

In molti, oltre a tentare di identificare i riferimenti teorici che hanno orientato l’immaginario di questa città doppia, si sono chiesti a quale specifica città Calvino si fosse ispirato, senza però ottenere risposte pienamente soddisfacenti. Certo è che, come per molti aspetti della sua opera, anche le scelte onomastiche sono state accuratamente vagliate tra una serie di alternative presenti negli abbozzi preparatori (Terrusi 2012). In questo caso il nome richiama una delle tante località di villeggiatura dei laghi lombardi (Valdrada è, inoltre, una principessa longobarda citata da Paolo Diacono), ma la duplicità stessa dell’architettura strizza l’occhio a Venezia – evocata a più riprese da Marco Polo – e alla natura della città più amata da Calvino, New York, continuamente riflessa nelle superfici specchianti dei grattacieli. Per paradosso, pur appartenendo alla serie più apertamente legata alla visualità, Valdrada appare tra le città meno chiaramente rappresentate all’interno di questo «inimitabile libro di figure senza illustrazioni» (Ravazzoli 1991, p. 147). Del resto, la struttura stessa dell’evocazione pare essere basata sul dispositivo retorico della correctio: se all’inizio viene accentuata l’idea della ripetizione dei gesti riflessi, la seconda buona metà dello scritto tende a sottolineare la radicale differenza che separa in modo irrimediabile le due metà, che pur «vivendo l’una per l’altra non si amano» (CI, p. 400).

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Nel suo «poema d’amore per le città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città» (Calvino 1993, p. IX), Italo Calvino guarda agli spazi urbani nei loro elementi fondanti, che scorpora e isola dal tutto facendone – volta per volta – delle metonimie per riflettere sulla vita sociale di uomini e donne. In questo contesto, la categoria della ‘città e gli scambi’ si pone come una considerazione ‘discontinua’ (sulla discontinuità come caratteristica principale dell’opera cfr. Belpoliti 2005, pp. 57-58) sull’interazione umana nelle e con le città, un elemento che evidentemente – secondo Calvino – veniva progressivamente a mancare negli spazi sempre più invivibili dei tardi anni Sessanta. È lo stesso autore a dichiarare che «le città sono luoghi di scambio, come spiegano tutti i libri di storia dell’economia, ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi» (CI, p. 1362). In questa sezione, dunque, si esplicita una declinazione particolare della natura politica delle Città invisibili: la rivendicazione di una dimensione sociale che non può essere solo economica, ma che deve avere al suo centro l’elemento umano e – se si può dire così – sentimentale.

Nelle ‘città e gli scambi’, allora, Calvino rimette al centro le parole grazie alle storie che si raccontano a Eufemia, il desiderio erotico e la «vibrazione lussuriosa» (CI, p. 398) che serpeggia tra gli abitanti di Cloe, la volontà di trasformazione delle dinamiche umane dell’eternamente mutevole Eutropia, i legami incorporati dai fili a Ersilia, le vite clandestine che si nascondono nelle vie secondarie di Smeraldina. Non si può non ricordare, a questo proposito, che, tra gli «usi politici giusti» della letteratura, Calvino aveva inserito l’«imporre modelli di linguaggio, di visione, d’immaginazione, di lavoro mentale necessari a ogni progetto d’azione politica» (si tratta del testo di una conferenza tenuta in un’università americana, poi raccolto in Una pietra sopra: Usi politici giusti e sbagliati della letteratura, in Calvino 1995, pp. 351-360): le ‘città e gli scambi’ sono proposte politiche su come immaginare varie dimensioni della socialità.

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Più espressamente che per altre Città invisibili, a Ottavia, la «città-ragnatela», Marco Polo premette la condizione del patto di fiducia, una netta sospensione dell’incredulità: «se volete credermi, bene» (CI, p. 421). Calvino la colloca tra Lalage ed Ersilia: da una parte, la città sognata dal Kan a cui la luna ha concesso il privilegio di «crescere in leggerezza» (ivi, p. 420); dall’altra, la città in cui gli abitanti tessono «ragnatele di rapporti intricati» (ivi, p. 422) con fili tesi tra gli spigoli delle case. Appesa nel baratro tra due montagne scoscese, la città sottile Ottavia è sospesa sul vuoto, a centinaia e centinaia di metri d’altezza, «legata alle due creste con funi e catene e passerelle» (ivi, p. 421). Il fondo s’intravvede appena, spiraglio lontano tra le nuvole. Gli abitanti camminano con cautela tra trasparenze, traversine di legno e maglie di canapa, incessantemente consapevoli del burrone sottostante.

Il piano su cui si forma il tessuto urbano di un insediamento è sempre il livello del passaggio: da lì, elevandosi in verticale, si forma la città. A Ottavia, lo sviluppo è antitetico, e il nucleo abitativo è appeso sotto:


 

È il luogo della sospensione, della fragilità, della relazione fra il tutto, e soprattutto della precarietà esplicita: «sospesa sull’abisso, la vita degli abitanti d’Ottavia è meno incerta che in altre città. Sanno che più di tanto la rete non regge» (ibidem).

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A differenza di altre città invisibili più impalpabili o rarefatte, Zenobia è facilmente immaginabile. Seconda delle cinque città sottili, è descritta innanzitutto per le sue caratteristiche strutturali:

Chi legge, si figura subito alti pali a sorreggere casette, l’intrico dei terrazzini a diverse altezze che si mescolano a scale e belvederi, meccanismi di argani e pulegge. Non si sa perché Zenobia sia stata costruita così, ma sicuramente le palafitte, all’apparenza fragili e inutili su terra, proteggono da predatori e inondazioni. Riflettendo sull’origine della città, Calvino nomina i due centri nevralgici di questo luogo: la memoria e il desiderio:

Se nella città di Isidora «i desideri sono già ricordi», qui avviene forse l’opposto: è il ricordo a lasciar spazio al desiderio. Sebbene Zenobia non sia inserita fra Le città e la memoria e né Le città e il desiderio, in lei la relazione tra memoria e desiderio è così potente da creare una felicità non esibita:

E così fanno le trasposizioni visive di questa città, combinando, in modi diversi, elementi di uno stesso modello: altissimi pali, case di bambù, ballatoi, balconi, scale a pioli, marciapiedi pensili, tettoie a cono, girandole, serbatoi d’acqua, carrucole, gru.

La maggior parte di queste raffigurazioni privilegia l’idea delle palafitte: l’architetta e illustratrice peruviana Karina Puente, che dal 2015 ha intrapreso il progetto [In]visible cities, lo fa in maniera piuttosto geometrica e regolare, con pali equidistanti, la scelta di una pulita tricromia (nero, bianco e ocra) e una simmetria del caos tipicamente calviniana [fig. 1].

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Quarta tra ‘le città e il desiderio’, Fedora non è che una «metropoli di pietra grigia» con al centro un palazzo di metallo (CI, p. 382): nessun altro dettaglio viene offerto direttamente, al Kan e al lettore, nel racconto di Polo. Pure, di essa si inferisce un’immagine in controluce, una descrizione in negativo. Il palazzo contiene, infatti, in innumerevoli sfere di vetro, i modelli in miniatura di un’altra Fedora, progettati invano da qualcuno, in ogni epoca, nel tentativo di renderla la città ideale. L’edificio ha così finito per trasformarsi in un museo di possibilità remote della città immaginata; ipotesi cadute, poiché, mentre venivano concepite, «già Fedora non era più la stessa di prima, e quello che fino a ieri era stato un suo possibile futuro ormai era solo un giocattolo in una sfera di vetro» (ibidem).

Fedora è forse l’esempio più icastico dello sforzo calviniano, affidato in particolare a ‘le città e il desiderio’, di affrancare la scrittura dalle proprie limitate combinatorie, indirizzandola quanto possibile verso «lo spazio di molteplicità dei sogni e dei segni rappresentativi» (Ciccuto 2002, p. 80). Il suo carattere proteiforme, dai contorni malfermi, non si limita a materializzare il desiderio, che pure in questo gruppo – e in specie in Fedora – in sé «è l’illimitato divenire e, in quanto tale, non può essere fissato in una forma» (Zancan 1996, p. 903): paradossalmente informata dalla nostalgia delle sue stesse alternative, la città permette all’autore di suggerire a un tempo l’utilità e la storicità delle utopie. Proprio in questa contraddizione risiede il valore civile, proiettivo, ma allo stesso tempo inevitabilmente velleitario del progetto di ogni Fedora nuova e diversa, dato che «nel momento della sua nascita tale sogno è già superato e può servire alle generazioni future solo come reperto utopico, se non addirittura anti-utopico» (Kuon 2001, p. 32).

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