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Più espressamente che per altre Città invisibili, a Ottavia, la «città-ragnatela», Marco Polo premette la condizione del patto di fiducia, una netta sospensione dell’incredulità: «se volete credermi, bene» (CI, p. 421). Calvino la colloca tra Lalage ed Ersilia: da una parte, la città sognata dal Kan a cui la luna ha concesso il privilegio di «crescere in leggerezza» (ivi, p. 420); dall’altra, la città in cui gli abitanti tessono «ragnatele di rapporti intricati» (ivi, p. 422) con fili tesi tra gli spigoli delle case. Appesa nel baratro tra due montagne scoscese, la città sottile Ottavia è sospesa sul vuoto, a centinaia e centinaia di metri d’altezza, «legata alle due creste con funi e catene e passerelle» (ivi, p. 421). Il fondo s’intravvede appena, spiraglio lontano tra le nuvole. Gli abitanti camminano con cautela tra trasparenze, traversine di legno e maglie di canapa, incessantemente consapevoli del burrone sottostante.

Il piano su cui si forma il tessuto urbano di un insediamento è sempre il livello del passaggio: da lì, elevandosi in verticale, si forma la città. A Ottavia, lo sviluppo è antitetico, e il nucleo abitativo è appeso sotto:


 

È il luogo della sospensione, della fragilità, della relazione fra il tutto, e soprattutto della precarietà esplicita: «sospesa sull’abisso, la vita degli abitanti d’Ottavia è meno incerta che in altre città. Sanno che più di tanto la rete non regge» (ibidem).

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Per Lucrezio le immagini sono «simulacri dei corpi che qua, che là van volando, quasi membrane staccatesi dal loro involucro esterno, per l’aria». Con questa citazione dal De rerum natura Giuliana Bruno apre il saggio intitolato Superfici, (Johan & Levi, 2016) e partendo da questo assunto si interroga sulla natura delle immagini, rileggendole a partire da ciò che dà loro consistenza: la superficie.

La studiosa napoletana, che alla Harvard University si occupa di Visual and Environmental Studies, tesse una serie di relazioni tra arte, architettura, moda, cinema, fotografia e design e propone di considerare l’oggetto visuale secondo una prospettiva multipla a partire dalla sua specifica concretezza tangibile, spaziale e ambientale. Nelle pagine in cui si articola il suo studio teorizza, pertanto, un nuovo materialismo, convinta pure che «la materialità non riguardi i materiali, bensì la sostanza delle relazioni materiali» (p. 16). Suggerisce pertanto un approccio aptico alle arti visive molto vicino alla percezione tattile già teorizzata da Riegl.

Il saggio di Giuliana Bruno è corposo e stratificato, le parti si assemblano e si intersecano senza tendere a un climax argomentativo. Le quattro sezioni del libro sono concepite come blocchi indipendenti ma finiscono col ripiegarsi l’una sull’altra, si rincorrono tra cuciture e risvolti e non rinunciano a una scrittura dialogica, più empatica che accademica, come dimostra in chiusura la lettera ‘virtuale’ a Sally Potter. L’aspetto tematico che sostiene il discorso, sin dalla prima sezione I. Trame del visuale, è la «tensione di superficie». La superficie, che richiama la texture e la sartorialià, rinvia alla seconda pelle dell’uomo, l’abito, alla pellicola cinematografica e dunque alla pelle di tutte le cose. Correlando i plissè di Issey Miyake alla Piega di Gilles Deleuze, Bruno analizza il cinema di Wong Kar-wai che è una questione di filosofia sartoriale, dove il vestire, oltre il coprire, sa diffondere «atmosfere mentali» (p. 51). Cucire un abito o una striscia di celluloide è un gesto di sartorialità del campo visivo.

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Critica della trasparenza. Letteratura e mito architettonico (Rosenberg & Sellier, Torino, 2016) costituisce una nuova tappa dell’interesse di lungo corso di Riccardo Donati per i visual studies. A differenza però di precedenti studi più specificatamente dedicati al rapporto tra parola e immagine, come il volume Nella palpebra interna. Percorsi novecenteschi tra poesia e arti della visione (Le Lettere, Firenze, 2014; recensito da Marialaura Di Nardo sul n. 4 di «Arabeschi»), in questo caso ad animare la ricerca è stato l’obiettivo, al crocevia di tematologia e storia delle idee, di ricostruire la storia del principio della ‘purovisibilità’ dalla metà dell’Ottocento in poi.

Il saggio è scandito in due sezioni – La società a venire e La società avvenuta –, in cui si ripercorre «il punto di vista di letterati, artisti, intellettuali» (p. 30) sui mutevoli rapporti tra il valore funzionale e il valore finzionale della trasparenza, ossia tra la funzione riconosciuta a un certo edificio trasparente e le proiezioni simbolico-culturali su di esso esercitate. Più in dettaglio, nel capitolo iniziale della prima e più corposa sezione, Dal sogno…, dedicato all’Ottocento, lo studioso fissa il punto di partenza del discorso nell’edificazione a Londra nel 1851 del Crystal Palace per la Great Exhibition, mostrando come nella sua struttura in ferro e vetro i modelli già settecenteschi della vetrina e della serra confluiscano in un riuso in chiave commerciale dell’immaginario romanzesco evocato dalla coltivazione di fiori e piante di origine esotica. Sin dalle prime manifestazioni architettoniche della trasparenza, cioè, soggiacciono ai criteri di funzionalità dei materiali utilizzati strategie di creazione del gusto e di persuasione all’acquisto che riconosciamo precorrere l’approccio immaginifico alle merci dell’odierna società dei consumi.

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la mescolanza delle due cose infastidisce, è un'incrinatura, un turbamento della forma, dello stile.

P.P. Pasolini, La forma della città

 

Pier Paolo Pasolini a Sana’a di fronte le mura della città vecchia osserva i luoghi scelti come set di Alibech, unico episodio (peraltro poi non confluito nel montaggio finale) del Decameron non girato nel napoletano. Il 18 ottobre 1970, l’ultima domenica che avrebbe trascorso con la troupe nello Yemen del sud, con un po’ di pellicola avanzata dalle riprese e con le ultime energie residue («energia e forza fisica mi son bastate, o perlomeno le ho fatte bastare – dirà poi il regista al Corriere della Sera – ci tenevo troppo a girare questo documento») gira un cortometraggio in forma di appello all’UNESCO per la salvaguardia della città: Le mura di Sana’a.

Prodotto da Franco Rossellini, con la fotografia di Tonino Delli Colli e l’aiuto al montaggio di Tatiana Casini Morigi, il film è una sorta di reportage poetico, mandato in onda dalla Rai all’interno della rubrica boomerang il 16 febbraio del 1971 (in una forma embrionale in cui mancavano le sequenze su Orte e Sabaudia) e proiettato poi al Cinema Capitol di Milano in occasione dell’anteprima de Il Fiore delle mille e una notte (1974), opera per la quale Pasolini era tornato a Sana’a per girare le scene dell’episodio di Aziz e Aziza. Le due sequenze sulle città di Orte e Sabaudia verranno aggiunte dopo che Pasolini realizzerà insieme al regista Paolo Brunatto La forma della città (1974), per una trasmissione Rai (Io e...) curata da Anna Zanoli, una storica dell’arte della cerchia di Roberto Longhi.

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«Si possono comunicare le ragioni e il senso del fotografare solo incidendo sull’immagine, evidenziando le linee costruttive, i contrasti e le profondità. Ma soprattutto annotandoci sopra. È un bisogno fisico di riappropriazione». Così Mario Piazza sintetizza l’operazione di Gabriele Basilico nell’Introduzione al suo ultimo libro, Leggere le fotografie. In dodici lezioni (Milano, Abitare e Rizzoli, 2012). Il volume, quasi un saluto dell’autore ai lettori di poco precedente alla sua scomparsa, raccoglie la serie di lezioni precedentemente pubblicate, su iniziativa di Stefano Boeri, sulla rivista di progetto Abitare, con l’aggiunta di due inedite. Ma cosa si intende per ‘lezione’? L’utilizzo dei propri scatti a scopo didattico non ha rappresentato per Basilico il pretesto per una riflessione di tipo manualistico sulle scelte tecniche; il fotografo ripercorre la sua intera produzione e, selezionando le opere più significative, rilegge e commenta il contesto in cui esse sono nate, i momenti di svolta e gli influssi fondamentali della propria formazione. Ciò che viene offerto al lettore è un appassionante racconto visivo e verbale, cronologicamente ordinato, della carriera di un maestro italiano, in una forma innovativa: Basilico, nel tentativo di illustrare un metodo, ‘sporca’ le foto, scrive su di esse «come se ogni “lezione” fosse un layout di un possibile progetto o la traccia di una discussione, una memoria o un post it…» (p. 131). Quasi un gioco, dunque, ma la leggerezza non sottrae valore al messaggio, lo rende solo più godibile, anche quando si tratta di annotazioni tecniche; del resto, le poche presenti nel testo sono relative alle funzioni della fuga prospettica, o all’ordine che lo spazio assume attraverso il punto di vista centrale, con alcune esemplificative riproduzioni di riprese frontali.

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