Per Lucrezio le immagini sono «simulacri dei corpi che qua, che là van volando, quasi membrane staccatesi dal loro involucro esterno, per l’aria». Con questa citazione dal De rerum natura Giuliana Bruno apre il saggio intitolato Superfici, (Johan & Levi, 2016) e partendo da questo assunto si interroga sulla natura delle immagini, rileggendole a partire da ciò che dà loro consistenza: la superficie.
La studiosa napoletana, che alla Harvard University si occupa di Visual and Environmental Studies, tesse una serie di relazioni tra arte, architettura, moda, cinema, fotografia e design e propone di considerare l’oggetto visuale secondo una prospettiva multipla a partire dalla sua specifica concretezza tangibile, spaziale e ambientale. Nelle pagine in cui si articola il suo studio teorizza, pertanto, un nuovo materialismo, convinta pure che «la materialità non riguardi i materiali, bensì la sostanza delle relazioni materiali» (p. 16). Suggerisce pertanto un approccio aptico alle arti visive molto vicino alla percezione tattile già teorizzata da Riegl.
Il saggio di Giuliana Bruno è corposo e stratificato, le parti si assemblano e si intersecano senza tendere a un climax argomentativo. Le quattro sezioni del libro sono concepite come blocchi indipendenti ma finiscono col ripiegarsi l’una sull’altra, si rincorrono tra cuciture e risvolti e non rinunciano a una scrittura dialogica, più empatica che accademica, come dimostra in chiusura la lettera ‘virtuale’ a Sally Potter. L’aspetto tematico che sostiene il discorso, sin dalla prima sezione I. Trame del visuale, è la «tensione di superficie». La superficie, che richiama la texture e la sartorialià, rinvia alla seconda pelle dell’uomo, l’abito, alla pellicola cinematografica e dunque alla pelle di tutte le cose. Correlando i plissè di Issey Miyake alla Piega di Gilles Deleuze, Bruno analizza il cinema di Wong Kar-wai che è una questione di filosofia sartoriale, dove il vestire, oltre il coprire, sa diffondere «atmosfere mentali» (p. 51). Cucire un abito o una striscia di celluloide è un gesto di sartorialità del campo visivo.
La luce intesa come materialità e spazio e lo schermo riconfigurato come membrana sono gli snodi della sezione successiva, II. Superficie di luce. Sul concetto di schermo, non inteso solamente come supporto proiettivo ma anche come entità a sé, si costruisce una parte importante del saggio che diventa il filo rosso del discorso per i capitoli che seguono. L’autrice lo intende come luogo concreto di trasformazione e contatto, «uno spazio di crossover dove le arti visive e spaziali si ritrovano connesse nella materialità texturale e nella tensione di superficie» (p. 15). Lo schermo, nato come oggetto architettonico, parete divisoria che limita ma filtra, diventa l’elemento cardine del cinema e del suo immaginario ed è oggi condizione espressiva del contemporaneo. Onnipresente e potenziato dal digitale, costituisce i nostri palmari, frequenta i musei e veste le facciate dei palazzi, trasformando gli oggetti, l’architettura e l’arte in piani duttili e in movimento.
Anche le pratiche artistiche contemporanee indagate nel testo attraverso lo schermo rimandano alla materialità della superficie. Antony McCall, Bill Viola, James Turrell, Eugenia Balcells, Tacita Dean, Janet Cardiff nelle loro opere riflettono sulle relazioni materiali tra superficie, medium e schermo e lo fanno attraverso la proiezione e l’immaginazione su spazi di luce, raccontando un tempo denso e non lineare, concreto e interiore.
L’architettura partecipa non di meno a questa performatività facendo della sua superficie un vero teatro. Nelle architetture di Diller Scofidio + Renfro, prese in esame dalla Bruno, si aprono scenari suggestivi, atmosfere sensibili e luminose come schermi. Negli ambienti di Herzog & de Meuron la pelle architettonica è metamorfica, diventa sfocatura, svela lo spessore e si decora di luce. Anche il museo, come il cinema, è un luogo dello schermo, condivide l’esperienza della proiezione e dello sguardo in sequenza (III. Schermi di proiezione; IV. Materiali dell’immaginazione).
La superficie è un’inter-faccia che mentre separa connette un dentro e un fuori, è esterna ma non si contrappone alla profondità, si lega a questa, invece, tramite la sua natura porosa. Secondo l’autrice è un’entità sostanziale che assorbe tempo e memorie, che archivia e narra, che si usura, si macchia, s’impolvera e si decompone. Ci mette in contatto con l’oggetto artistico e lo spazio dell’arte riuscendo a trattenere tutto quello che su di essa proiettiamo.
Pertanto, tra il visivo e la superficie, il guardare e il toccare non c’è più divaricazione ma una continua connessione fatta di rapporti sinestetici.