Riccardo Donati, Critica della trasparenza. Letteratura e mito architettonico

di

     

Critica della trasparenza. Letteratura e mito architettonico (Rosenberg & Sellier, Torino, 2016) costituisce una nuova tappa dell’interesse di lungo corso di Riccardo Donati per i visual studies. A differenza però di precedenti studi più specificatamente dedicati al rapporto tra parola e immagine, come il volume Nella palpebra interna. Percorsi novecenteschi tra poesia e arti della visione (Le Lettere, Firenze, 2014; recensito da Marialaura Di Nardo sul n. 4 di «Arabeschi»), in questo caso ad animare la ricerca è stato l’obiettivo, al crocevia di tematologia e storia delle idee, di ricostruire la storia del principio della ‘purovisibilità’ dalla metà dell’Ottocento in poi.

Il saggio è scandito in due sezioni – La società a venire e La società avvenuta –, in cui si ripercorre «il punto di vista di letterati, artisti, intellettuali» (p. 30) sui mutevoli rapporti tra il valore funzionale e il valore finzionale della trasparenza, ossia tra la funzione riconosciuta a un certo edificio trasparente e le proiezioni simbolico-culturali su di esso esercitate. Più in dettaglio, nel capitolo iniziale della prima e più corposa sezione, Dal sogno…, dedicato all’Ottocento, lo studioso fissa il punto di partenza del discorso nell’edificazione a Londra nel 1851 del Crystal Palace per la Great Exhibition, mostrando come nella sua struttura in ferro e vetro i modelli già settecenteschi della vetrina e della serra confluiscano in un riuso in chiave commerciale dell’immaginario romanzesco evocato dalla coltivazione di fiori e piante di origine esotica. Sin dalle prime manifestazioni architettoniche della trasparenza, cioè, soggiacciono ai criteri di funzionalità dei materiali utilizzati strategie di creazione del gusto e di persuasione all’acquisto che riconosciamo precorrere l’approccio immaginifico alle merci dell’odierna società dei consumi.

Ciò non toglie che non poche delle più immediate reazioni al gigantismo trionfale del palazzo fossero improntate alla celebrazione di un’accelerazione verso il progresso, come nel caso del Thackeray di May-Day Ode, e che queste aprissero a un filone di pensiero in cui la trasparenza architettonica si smarca dalle implicazioni materiali per assurgere a modello di un nuovo tipo di società più equo e felice. Ne fornisce un compiuto esempio romanzesco Che fare? di Nikolaj Gravilovič Černyševskij (scritto già nel 1862, ma pubblicato nel 1902), nel quale un grande edificio trasparente si offre come sede di «un’officina collettivista ma anche di atelier, di residence, luogo di svago destinato a ospitare musei e teatri» (p. 49) secondo una visione utopica di origine rousseauiana che piacque molto a Lenin. Le ombre, per così dire, della trasparenza non sfuggirono invece a personaggi pur molto diversi fra di loro come Ruskin e Dostoevskij, che presentirono nello sfolgorio brulicante di visitatori del Crystal Palace l’imbarbarimento, estetico non meno che etico, di una società tramortita dalla dismisura luccicante dell’edificio e dal benessere materiale da essa promesso. Siamo, con ciò, in prossimità dell’inversione di tendenza del Novecento, sebbene nel cruciale 1914 possiamo ancora imbatterci in un’opera manifesto come Glasarchitektur del ‘poeta costruttore’ di avanguardia Paul Scheebart. Il testo, a ben vedere, è più ambivalente di quanto suggerisca il titolo: pur attingendo al serbatoio dell’immaginario della trasparenza, il suo autore di fatto si lascia già alle spalle la purovisibilità preferendole, come materiale di costruzione della città ideale, il vetro policromatico; soprattutto, però, si tratta di una proposta deprivata di qualsiasi finalità pratica, concentrata esclusivamente «sulla suggestione di incessanti stupori e incanti» (p. 63), cosa che di per sé preannuncia l’incipiente messa in discussione del valore positivo della trasparenza.

Una simile crisi è al centro del successivo capitolo …all’incubo, dedicato al primo Novecento. Qui, attraverso numerosi casi letterari e cinematografici, da Joyce a Bontempelli, da Palazzeschi a Ejzenštein, Donati segue le varianti di due generali linee tematiche: da un lato, la trasparenza architettonica ricompare nelle vesti di uno scenario urbano segnato dal rovesciamento in negativo delle precedenti componenti utopiche: «fine dei segreti, eliminazione delle tracce, azzeramento dei significati e realizzazione di uno spazio incontaminato, di una tabula rasa vergine di semantica» (p. 81) mutano di segno divenendo vettori di controllo sociale e politico, uniformizzazione dei comportamenti e omologazione ideologica all’interno di spazi urbani trasformati in ‘inferni di cristallo’; dall’altro, si trasforma in un ambiente ideale per comportamenti ossessivi e patologici, tesi tra esibizionismo e reclusione all’interno di Glashäuser variamente rappresentate. Se nel 1933, in un’utopia fuori tempo massimo (p. 77), Walter Benjamin poteva ancora riconoscere in Esperienza e povertà alla «permeabilità ottica» (p. 78) del vetro la capacità di mettere fuori gioco i segreti e i conformismi degli interni borghesi, nella seconda e più breve sezione La società avvenuta Donati mette a fuoco tre reti tematiche che mostrano il definitivo rovesciamento distopico della trasparenza negli ultimi settanta anni. In particolare, la tripartizione si articola nel nesso fra trasparenza e civiltà dei consumi, analizzato attraverso autori italiani degli anni del boom economico, come il Testori e il Bianciardi milanesi; nella «crescente ossessione per il tema della sicurezza» (p. 152), affrontata in primis mediante un’originale lettura dei film zombie di George Romero; e nella linea catastrofico-apocalittica, imperniata sull’analisi delle rappresentazioni del motivo architettonico della cupola trasparente, anche in opere popolari come Simpson: il film di David Silverman (2007) o The Dome di Stephen King (2009).

Quelli menzionati sono solo alcuni dei numerosi autori e rami tematici che, con un’argomentazione al contempo affabile ed erudita, Donati passa in rassegna sino all’epilogo Per concludere. Ha ancora senso sognare in avanti?, in cui rileva che se il «tracollo del mito della trasparenza» (p. 182) è avvenuto nell’epoca del pensiero unico del capitalismo avanzato, tanto più «l’arte, il cinema, la letteratura, la sfera creativa ed espressiva insomma, può e deve assumersi il compito di una riattualizzazione del pensiero utopico» (ibidem). Il rischio però è che, così facendo, le discipline umanistiche e artistiche propongano un sapere sì mosso dal principio del ‘sognare in avanti’, nelle parole di Ernst Bloch citate nelle pagine finali del volume, ma destinato a rimanere invisibile, a suo modo trasparente, senza incidere fattualmente sulla contemporaneità. Per questo, proprio per raccogliere la sfida tematologica aperta dal lavoro di Donati, pare forse più opportuno uscire dalla logica dell’ou-topos e chiamare al dialogo interdisciplinare gli artefici della ‘trasparentizzazione’ del mondo contemporaneo, gli architetti: per provare a interagire coi progetti estetici che stanno alla base del «trionfo incondizionato, ovunque nel mondo, di quelle che per dirla con il titolo di un fortunato romanzo di Paul Auster possiamo chiamare ‘città di vetro’» (p. 151) ed esercitare dall’interno di queste una visibile critica della trasparenza.