Gabriele Basilico, Leggere le fotografie. In dodici lezioni, Milano, Rizzoli, 2012

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«Si possono comunicare le ragioni e il senso del fotografare solo incidendo sull’immagine, evidenziando le linee costruttive, i contrasti e le profondità. Ma soprattutto annotandoci sopra. È un bisogno fisico di riappropriazione». Così Mario Piazza sintetizza l’operazione di Gabriele Basilico nell’Introduzione al suo ultimo libro, Leggere le fotografie. In dodici lezioni (Milano, Abitare e Rizzoli, 2012). Il volume, quasi un saluto dell’autore ai lettori di poco precedente alla sua scomparsa, raccoglie la serie di lezioni precedentemente pubblicate, su iniziativa di Stefano Boeri, sulla rivista di progetto Abitare, con l’aggiunta di due inedite. Ma cosa si intende per ‘lezione’? L’utilizzo dei propri scatti a scopo didattico non ha rappresentato per Basilico il pretesto per una riflessione di tipo manualistico sulle scelte tecniche; il fotografo ripercorre la sua intera produzione e, selezionando le opere più significative, rilegge e commenta il contesto in cui esse sono nate, i momenti di svolta e gli influssi fondamentali della propria formazione. Ciò che viene offerto al lettore è un appassionante racconto visivo e verbale, cronologicamente ordinato, della carriera di un maestro italiano, in una forma innovativa: Basilico, nel tentativo di illustrare un metodo, ‘sporca’ le foto, scrive su di esse «come se ogni “lezione” fosse un layout di un possibile progetto o la traccia di una discussione, una memoria o un post it…» (p. 131). Quasi un gioco, dunque, ma la leggerezza non sottrae valore al messaggio, lo rende solo più godibile, anche quando si tratta di annotazioni tecniche; del resto, le poche presenti nel testo sono relative alle funzioni della fuga prospettica, o all’ordine che lo spazio assume attraverso il punto di vista centrale, con alcune esemplificative riproduzioni di riprese frontali.

Questo agile volume funge da guida, quindi, al procedere fotografico di Gabriele Basilico. La lezione relativa a Milano ritratti di fabbriche (1981), ad esempio, introduce il lettore alla conoscenza dell’oggetto costante del suo impegno: l’osservazione critica dei mutamenti del paesaggio contemporaneo e dell’identità urbana indagati attraverso l’architettura; un’acuta analisi che ha portato il fotografo ad affermare, a proposito di un’indagine compiuta nel 1996 per la VI Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, che «al di là delle differenze morfologiche regionali e delle normative urbanistiche, il territorio italiano si stava trasformando in modo omogeneo, invaso da un’unica ondata di anarchici sussulti edilizi» (p. 70). È una sensibilità che induce chi scrive in questa sede a ricordare il Pasolini de Le mura di Sana’a (documentario in forma di appello all’UNESCO del 1970-1971) e del cortometraggio La forma della città (1974), letture trasversali dell’appiattimento neocapitalistico.

Un indiscusso punto di riferimento esplicitamente riconosciuto dall’autore è Walker Evans, noto per la partecipazione alla storica Farm Security Administration, maestro di uno sguardo disciplinato ed elegante che Basilico ha avuto modo di adottare nella sua personale missione fotografica, la Mission Photographique de la DATAR, commissionata dal governo francese per la sistemazione e la documentazione del territorio nazionale. Il libro che pubblicò in seguito a quell’incarico, Bord de mer (Forum ar/ge kunst, 1990) rappresenta un cambiamento fondamentale sul piano estetico, opportunamente evidenziato dall’autore: ha inizio da quel momento un atteggiamento contemplativo nei confronti del paesaggio, un’appropriazione lenta e progressiva della realtà, che si esprime nelle riprese dall’alto e nelle panoramiche. Queste ultime sono di cruciale importanza, dal momento che rendono visibili i punti di contatto con il linguaggio minuziosamente descrittivo della pittura fiamminga e con il Canaletto e il Bellotto, anch’essi modelli dichiarati; potrebbe essere non privo di interesse, inoltre, aggiungere che il legame dei due artisti citati con la fotografia esiste a monte, dato che, come ci informano i manuali, essi vengono considerati predecessori della tecnica fotografica per l’utilizzo strumentale della camera ottica.

Dalla lettura del testo, infine, emerge come l’opera di Basilico si sia mossa in direzione della ricerca di punti di vista portatori di un senso nuovo e non abusato. Così, per il servizio realizzato nel 1991 a Beirut, distrutta dalla guerra civile, prima di immortalare la città il fotografo prova a immaginarla nella sua forma originaria, in modo da procedere senza lasciarsi piegare dalla retorica del dolore; per Roma, invitato nel 2007 da FotoGrafia (Festival Internazionale della Fotografia di Roma) a proporre una sua lettura della città, sceglie una grigia luce autunnale, quasi ci si trovasse nel Nord Europa e non in piena area mediterranea, e confina la capitale dietro gli argini del Tevere, inaspettatamente vero protagonista; per Mosca, infine, in occasione della mostra del 2005 Mosca XXI secolo alla Triennale di Milano, riprende la città dalla cima delle torri di Stalin, da quel simbolo architettonico del potere generalmente fotografato frontalmente e dal basso. Sono solo alcuni esempi di uno scarto rispetto ai comuni punti di vista (o di una ‘vertigine’, per usare un termine caro all’autore) tale da determinare un rinnovamento della percezione in grado di rendere la fotografia un processo cognitivo e creativo. È anche all’affermazione di questa poetica che è possibile ricondurre la carriera professionale di Gabriele Basilico.