Categorie



 

Così scrive lo storico tedesco Karl Schlögel in un paragrafo del suo libro Leggere il tempo nello spazio (Il selciato del marciapiede. Superfici, geroglifici). L’estratto citato propone un particolare esercizio di lettura topografica rivolto a quello spazio anonimo e di transito che sono i marciapiedi cittadini, considerati come indicatori affidabili dello stato delle stesse, ma applicabile a tutti gli elementi che compongono il paesaggio urbano in quanto «geroglifici della cultura umana» (ivi, p. 113). Il discorso di Schlögel ricorda sotto più aspetti una idea di città che Calvino esprime diffusamente nei suoi testi, sia in alcune delle Città invisibili (soprattutto nelle due rubriche dedicate ai segni e alla memoria), sia nella bellissima raccolta Collezione di sabbia (1984), le cui pagine – come sostiene Pier Vincenzo Mengaldo nella postfazione – «sono insieme prosecuzione e commento ottimale della summa narrativa sull’argomento» (Mengaldo 1984, p. 282), Le città invisibili, appunto.

Diomira, Isidora, Zaira, Zora e Maurilia sono le cinque città della memoria, ognuna di esse identifica un aspetto della relazione tra le due componenti: Zaira rappresenta la città come luogo di interpretazione, palinsesto mnemonico, spazio scritto in un alfabeto di gesti, avvenimenti, ricordi di ‘vite minuscole’ e di uomini illustri, impressi nelle cose.

Calvino, in un saggio intitolato La città scritta: epigrafi e graffiti (1980), riflettendo a partire da uno studio di Armando Petrucci (La scrittura fra ideologia e rappresentazione) ma distanziandosi dalle posizioni del paleografo, giudica negativamente la pratica di scrivere sui muri:

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

 

 

In uno dei più noti e folgoranti dialoghi di cornice che conclude il capitolo VIII delle Città invisibili Marco Polo e Kublai Kan scoprono le carte e offrono al lettore una delle immagini con le quali è possibile visualizzare la macchina narrativa che si nasconde dietro il complesso edificio diegetico costruito da Italo Calvino per il suo «poema d’amore alle città» (Calvino 1993, p. IX). L’opera si offre a chi voglia intenderla per quel che è: una mirabolante scacchiera, nella quale, da singoli tasselli di legno piallato, Polo, con l’aiuto dell’imperatore-ascoltatore, riesce a far scaturire mondi, o meglio città incantate e intriganti. La fabulazione e la forza immaginifica della letteratura forniscono materiali inesauribili al viaggiatore-scrittore che da singole tessere apparentemente insignificanti sa lasciarsi ispirare. La complessa struttura entro la quale Calvino imbriglia tale forza immaginifica non è diversa dalla scacchiera di cui parlano Polo e il Kan: ogni tassello corrisponde allo spazio bianco e nero che le 55 città invisibili colmano, trasformando in parole e immagini quello che solo in apparenza era un vuoto.

Se è innegabile la straordinaria ‘visionarietà’ dell’opera che Calvino concepisce già alla fine del 1970 e che porta a termine nel novembre del 1972, le Città invisibili sono tuttavia sfuggenti per chi voglia trasformare le descrizioni, le immagini mentali evocate da Marco Polo, in immagini reali. In tal senso l’opera di Calvino rappresenta una vera e propria sfida per gli artisti che con essa hanno provato a confrontarsi: la loro natura ecfrastica e al contempo «esplosa», «discontinua» (Belpoliti 2005, p. 45) le rende oggetti di difficile ‘visibilità’, ma di grande fascino iconico. Se, come è stato messo in evidenza, «sono città da leggere, non da guardare» (ibidem), è altrettanto vero che nei cinquant’anni che ci separano dalla loro pubblicazione non sono mancati artisti che hanno provato a rendere visibili le Città invisibili.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



 

1. L’opera di Calvino è sempre stata caratterizzata dallo sguardo sugli ambienti e sui paesaggi, osservati non solo dal punto di vista dei personaggi umani ma anche attraverso gli occhi delle altre creature. Queste sono spesso al centro della narrazione: possono rappresentarne il motivo centrale (come nella Formica argentina); oppure assumere la funzione di punctum nella storia (come il camoscio che osserva gli uomini e la natura nel finale di Mai nessuno degli uomini lo seppe, 1950), se non proprio di protagonisti o deuteragonisti (dall’ibrido proteiforme Qwfwq delle Cosmicomiche ai vari personaggi del ‘bestiario’ di Palomar, come il geco o il gorilla albino). È proprio in Palomar che viene illustrata la ragione fondamentale dell’interesse calviniano nei confronti del mondo animale: «per il signor Palomar […] la discrepanza tra il comportamento umano e il resto dell’universo è sempre stata fonte d’angoscia. Il fischio uguale dell’uomo e del merlo ecco gli appare come un ponte gettato sull’abisso» (Calvino 1994, p. 895). Non è un caso perciò che Calvino sia, con molta probabilità, lo scrittore italiano più studiato e interpretato alla luce dell’ecologia letteraria; il rapporto tra l’umano e la storia in relazione all’ambiente e alla natura è infatti un elemento strutturale costante e centrale nell’invenzione e nella riflessione calviniane (mi limito a citare, per l’attinenza con il tema di Teodora, Iovino 2023; per un inquadramento generale, mi permetto di rimandare a Scaffai 2017 e 2023).

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



 

In quella «mappa assurda» di città della morte, in cui ogni descrizione rispetta l’«esattezza dura e vitrea dei colori dello stemma e del disegno dello stemma» (Manganelli 2002, p. 105), Eusapia ha esercitato una fascinazione iconografica piuttosto specifica e orientata. L’immaginario degli artisti si è concentrato soprattutto sulla corrispondenza straniante tra la città dei vivi e la città dei morti, una «copia identica» costruita dagli abitanti di Eusapia per rendere il trapasso «meno brusco» (CI, p. 452). Qui i morti vengono trasportati sottoterra per proseguire le solite occupazioni, domestiche e professionali. Tuttavia, non è raro che i defunti reclamino «un destino diverso» da quello sperimentato in vita, istituendo una società fatta di soli mestieri eccezionali, dalle duchesse ai cacciatori di leoni (ibidem). Sia in termini mimetici che in forme trasformative, tra le due Eusapie si stabilisce subito un rapporto di mutuo contagio: la «confraternita di incappucciati» che si occupa dei cadaveri racconta che i morti «apportano innovazioni alla loro città» rendendola irriconoscibile, mentre «i vivi, per non essere da meno» revisionano drasticamente la città superiore. Nel finale, il narratore è attraversato dal dubbio che sia stata proprio la metropoli dei morti ad aver fondato «l’Eusapia di sopra a somiglianza della loro città», rendendo la capitale diurna un modellino infernale, un panopticon luminoso dell’aldilà. Il risultato, comunque, è un’inquietante reversibilità tra i due mondi, al punto che, secondo alcuni, nelle «città gemelle» non ci sarebbe più modo di «sapere quali sono i vivi e quali i morti» (CI, p. 453).

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



 

 

La città di Moriana è collocata all’inizio del capitolo VII delle Città invisibili ed è identificata come la n. 5 della serie ‘Le città e gli occhi’. È la città bifronte senza spessore che «consiste solo in un dritto e in un rovescio, come un foglio di carta, con una figura di qua e una di là, che non possono staccarsi né guardarsi» (CI, p. 449). Di conseguenza: da un lato, la città limpida e acquatica «con le porte d’alabastro trasparenti alla luce del sole, le colonne di corallo che sostengono i frontoni incrostati di serpentina, le ville tutte di vetro come acquari dove nuotano le ombre delle danzatrici dalle squame argentate sotto i lampadari a forma di medusa»; dall’altro lato, la città di detriti e spazzatura, «una distesa di lamiera arrugginita, tela di sacco, assi irte di chiodi, tubi neri di fuliggine, mucchi di barattoli, muri ciechi con scritte stinte, telai di sedie spagliate, corde buone solo per impiccarsi a un trave marcio» (ibidem). Il viaggiatore farà inevitabilmente esperienza dei due volti di Moriana, perché essi sono inseparabili come le due facce delle carte dei tarocchi: il dritto geometrico e cristallino implica anche il rovescio caotico e desolato. In questo capitolo, Marco Polo e Kublai Kan discutono in particolare della forza dell’immaginazione e si chiedono se quello che vedono sia reale oppure sia una proiezione della loro mente (ammette Polo: «Forse questo giardino esiste solo nell’ombra delle nostre palpebre abbassate», CI, p. 447). Così, Kublai mette in dubbio non solo che Polo abbia davvero visitato le città che descrive, ma addirittura l’esistenza stessa dei due uomini che dialogano affermando che potrebbe trattarsi solo di «due straccioni soprannominati Kublai Kan e Marco Polo» (ibidem).

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



 

Il nocciolo del mondo è vuoto, il principio di ciò che si muove nell’universo è lo spazio del niente, attorno all’assenza si costruisce ciò che c’è. (Calvino 1992, p. 589)

 

 

Per i lettori di Calvino non è insolito confrontarsi con dei testi che sono il risultato di una sfida. Infatti, se l’autore ligure ha spesso ammesso che la genesi delle sue opere è puramente visiva, ossia dipende da un’immagine da cui prende forma la scrittura (‘Postfazione ai Nostri antenati [Nota 1960]’, Calvino 1991, p. 1210), avrebbe dovuto confessare che sullo stesso piano stanno anche delle contraintes autoimposte. La creatività calviniana, sin dagli anni Quaranta, sembra doversi confrontare con ingaggi impossibili per riuscire a esprimere pienamente. La prospettiva o la voce scelti per un romanzo o un racconto divengono l’unica via per esprimersi sin dal suo esordio con il Sentiero dei nidi di ragno (‘Prefazione 1964’, Calvino 1991, p. 1191).

All’interno di una pratica creativa che diviene col tempo ben rodata, la sfida con sé stesso si realizza spesso intorno all’immagine di città e diviene poi nello scorrere dei decenni una sorta di abitudine (Serra 2006, pp. 320-23), che sfocerà nel capolavoro che Calvino scrive tra il 1970 e il novembre del 1972 (Calvino 1992, pp. 1359): il suo «poema d’amore alle città» (Calvino 1993, p. IX).

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



 

Prima della serie ‘le città e gli occhi’, Valdrada tematizza uno degli aspetti più pervasivi dell’opera di Calvino, il procedere per binarismi oppositivi per meglio riflettere sulle modalità e sulla fallacia delle nostre percezioni del reale. È solo una delle molte città speculari presenti nelle pagine delle Città invisibili (e i lavori successivi: basti pensare alla Foresta Radice-Labirinto, elaborata cinque anni più tardi, che evoca al contempo l’incatturabile Bauci e Sofronia, smontabile per metà). Ma se Eusapia è strutturata in forma apertamente binaria – con la necropoli che fa da ideale contraltare alla città dei vivi –, l’architettura e l’ethos di Valdrada non rispondono ai principi della simmetria, piuttosto a quelli della specularità: in questo più simile a Betsabea, città al contempo angelica e fecale. Come nei riflessi speculari delle stampe di Escher, tra le principali fonti visive dello scrittore, Valdrada è costituita dalla somma tra la città sopra il lago e quella «sulle rive d’un lago con case tutte verande una sopra all’altra e vie alte che affacciano sull’acqua i parapetti a balaustra» (CI, p. 399).

In molti, oltre a tentare di identificare i riferimenti teorici che hanno orientato l’immaginario di questa città doppia, si sono chiesti a quale specifica città Calvino si fosse ispirato, senza però ottenere risposte pienamente soddisfacenti. Certo è che, come per molti aspetti della sua opera, anche le scelte onomastiche sono state accuratamente vagliate tra una serie di alternative presenti negli abbozzi preparatori (Terrusi 2012). In questo caso il nome richiama una delle tante località di villeggiatura dei laghi lombardi (Valdrada è, inoltre, una principessa longobarda citata da Paolo Diacono), ma la duplicità stessa dell’architettura strizza l’occhio a Venezia – evocata a più riprese da Marco Polo – e alla natura della città più amata da Calvino, New York, continuamente riflessa nelle superfici specchianti dei grattacieli. Per paradosso, pur appartenendo alla serie più apertamente legata alla visualità, Valdrada appare tra le città meno chiaramente rappresentate all’interno di questo «inimitabile libro di figure senza illustrazioni» (Ravazzoli 1991, p. 147). Del resto, la struttura stessa dell’evocazione pare essere basata sul dispositivo retorico della correctio: se all’inizio viene accentuata l’idea della ripetizione dei gesti riflessi, la seconda buona metà dello scritto tende a sottolineare la radicale differenza che separa in modo irrimediabile le due metà, che pur «vivendo l’una per l’altra non si amano» (CI, p. 400).

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



 

 

Nel suo «poema d’amore per le città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città» (Calvino 1993, p. IX), Italo Calvino guarda agli spazi urbani nei loro elementi fondanti, che scorpora e isola dal tutto facendone – volta per volta – delle metonimie per riflettere sulla vita sociale di uomini e donne. In questo contesto, la categoria della ‘città e gli scambi’ si pone come una considerazione ‘discontinua’ (sulla discontinuità come caratteristica principale dell’opera cfr. Belpoliti 2005, pp. 57-58) sull’interazione umana nelle e con le città, un elemento che evidentemente – secondo Calvino – veniva progressivamente a mancare negli spazi sempre più invivibili dei tardi anni Sessanta. È lo stesso autore a dichiarare che «le città sono luoghi di scambio, come spiegano tutti i libri di storia dell’economia, ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi» (CI, p. 1362). In questa sezione, dunque, si esplicita una declinazione particolare della natura politica delle Città invisibili: la rivendicazione di una dimensione sociale che non può essere solo economica, ma che deve avere al suo centro l’elemento umano e – se si può dire così – sentimentale.

Nelle ‘città e gli scambi’, allora, Calvino rimette al centro le parole grazie alle storie che si raccontano a Eufemia, il desiderio erotico e la «vibrazione lussuriosa» (CI, p. 398) che serpeggia tra gli abitanti di Cloe, la volontà di trasformazione delle dinamiche umane dell’eternamente mutevole Eutropia, i legami incorporati dai fili a Ersilia, le vite clandestine che si nascondono nelle vie secondarie di Smeraldina. Non si può non ricordare, a questo proposito, che, tra gli «usi politici giusti» della letteratura, Calvino aveva inserito l’«imporre modelli di linguaggio, di visione, d’immaginazione, di lavoro mentale necessari a ogni progetto d’azione politica» (si tratta del testo di una conferenza tenuta in un’università americana, poi raccolto in Una pietra sopra: Usi politici giusti e sbagliati della letteratura, in Calvino 1995, pp. 351-360): le ‘città e gli scambi’ sono proposte politiche su come immaginare varie dimensioni della socialità.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



 


 

Più espressamente che per altre Città invisibili, a Ottavia, la «città-ragnatela», Marco Polo premette la condizione del patto di fiducia, una netta sospensione dell’incredulità: «se volete credermi, bene» (CI, p. 421). Calvino la colloca tra Lalage ed Ersilia: da una parte, la città sognata dal Kan a cui la luna ha concesso il privilegio di «crescere in leggerezza» (ivi, p. 420); dall’altra, la città in cui gli abitanti tessono «ragnatele di rapporti intricati» (ivi, p. 422) con fili tesi tra gli spigoli delle case. Appesa nel baratro tra due montagne scoscese, la città sottile Ottavia è sospesa sul vuoto, a centinaia e centinaia di metri d’altezza, «legata alle due creste con funi e catene e passerelle» (ivi, p. 421). Il fondo s’intravvede appena, spiraglio lontano tra le nuvole. Gli abitanti camminano con cautela tra trasparenze, traversine di legno e maglie di canapa, incessantemente consapevoli del burrone sottostante.

Il piano su cui si forma il tessuto urbano di un insediamento è sempre il livello del passaggio: da lì, elevandosi in verticale, si forma la città. A Ottavia, lo sviluppo è antitetico, e il nucleo abitativo è appeso sotto:


 

È il luogo della sospensione, della fragilità, della relazione fra il tutto, e soprattutto della precarietà esplicita: «sospesa sull’abisso, la vita degli abitanti d’Ottavia è meno incerta che in altre città. Sanno che più di tanto la rete non regge» (ibidem).

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

1 2