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A differenza di altre città invisibili più impalpabili o rarefatte, Zenobia è facilmente immaginabile. Seconda delle cinque città sottili, è descritta innanzitutto per le sue caratteristiche strutturali:

Chi legge, si figura subito alti pali a sorreggere casette, l’intrico dei terrazzini a diverse altezze che si mescolano a scale e belvederi, meccanismi di argani e pulegge. Non si sa perché Zenobia sia stata costruita così, ma sicuramente le palafitte, all’apparenza fragili e inutili su terra, proteggono da predatori e inondazioni. Riflettendo sull’origine della città, Calvino nomina i due centri nevralgici di questo luogo: la memoria e il desiderio:

Se nella città di Isidora «i desideri sono già ricordi», qui avviene forse l’opposto: è il ricordo a lasciar spazio al desiderio. Sebbene Zenobia non sia inserita fra Le città e la memoria e né Le città e il desiderio, in lei la relazione tra memoria e desiderio è così potente da creare una felicità non esibita:

E così fanno le trasposizioni visive di questa città, combinando, in modi diversi, elementi di uno stesso modello: altissimi pali, case di bambù, ballatoi, balconi, scale a pioli, marciapiedi pensili, tettoie a cono, girandole, serbatoi d’acqua, carrucole, gru.

La maggior parte di queste raffigurazioni privilegia l’idea delle palafitte: l’architetta e illustratrice peruviana Karina Puente, che dal 2015 ha intrapreso il progetto [In]visible cities, lo fa in maniera piuttosto geometrica e regolare, con pali equidistanti, la scelta di una pulita tricromia (nero, bianco e ocra) e una simmetria del caos tipicamente calviniana [fig. 1].

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La città gomitolo

 

Per una città che inaugura la sezione dedicata ai ‘segni’, e in cui le parole stanno al posto di immagini che stanno a loro volta al posto di qualcos’altro, si potrebbe cominciare a partire da una visual representation realizzata da una delle più importanti information designer contemporanee prima ancora di diventarlo. L’interpretazione visiva di Federica Fragapane [fig. 1] non si avvale, come accade nelle data visualizations per le quali è poi diventata un punto di riferimento mondiale, di alcun sistema infografico. Tamara è un globo composto da numerosi nastri che recano iscritti gli oggetti e i messaggi ad essi sottesi in mostra sulle insegne o per le strade della città. La forma sferica della matassa rimanda immediatamente a un senso di interezza, di unità: la città è un organismo pulsante, dotato di una propria estensione (prima e dopo la città di Tamara c’è il vuoto: mentre ci si avvicina «l’uomo cammina per giornate tra gli alberi e le pietre [che] sono soltanto ciò che sono»; quando ci si allontana «fuori s’estende la terra vuota fino all’orizzonte», CI, p. 367), e dunque apparentato all’idea di microcosmo, di pianeta a sé stante.

Eppure, al lettore e alla lettrice – e probabilmente anche all’artista – non può non sopraggiungere alla memoria il ricordo proprio del gomitolo che apre, attraverso una citazione gaddiana, la lezione calviniana dedicata alla Molteplicità. Il «mondo come un garbuglio, o groviglio, o gomitolo» (Calvino 1995, p. 717), atto a dar conto dell’inestricabile complessità del reale, è un’immagine che non saremmo immediatamente propense ad associare allo stile di Italo Calvino, celebrato per la sua lingua acuta, tagliente e precisa, che del nitore, lessicale e sintattico, ha fatto la propria cifra (Belpoliti 2006). Ma forse, come lo stesso scrittore ci dimostra, lo «gnommero» altro non è che l’altro volto della precisione classificatoria, con cui partecipa di quella tensione, irriducibile e irrinunciabile, a rappresentare la realtà come un «“sistema di sistemi”, in cui ogni sistema singolo condiziona gli altri e ne è condizionato» (Calvino 1995, p. 717). D’altronde, è lo stesso Calvino in un’altra delle Lezioni americane, quella dedicata alla Esattezza (ivi, pp. 677-696), a lasciarci intuire che tra le due forme del «cristallo» (immagine di regolarità delle strutture interne) e della «fiamma» (immagine di regolarità delle strutture esterne) ci possano essere più tangenze di quelle che si possano inizialmente intuire. Dunque, non ci stupisce che la precisione della lingua calviniana, così come la propensione analitica della visual representation, possano abbracciare anche il caos apparente del labirinto dei segni.

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Quarta tra ‘le città e il desiderio’, Fedora non è che una «metropoli di pietra grigia» con al centro un palazzo di metallo (CI, p. 382): nessun altro dettaglio viene offerto direttamente, al Kan e al lettore, nel racconto di Polo. Pure, di essa si inferisce un’immagine in controluce, una descrizione in negativo. Il palazzo contiene, infatti, in innumerevoli sfere di vetro, i modelli in miniatura di un’altra Fedora, progettati invano da qualcuno, in ogni epoca, nel tentativo di renderla la città ideale. L’edificio ha così finito per trasformarsi in un museo di possibilità remote della città immaginata; ipotesi cadute, poiché, mentre venivano concepite, «già Fedora non era più la stessa di prima, e quello che fino a ieri era stato un suo possibile futuro ormai era solo un giocattolo in una sfera di vetro» (ibidem).

Fedora è forse l’esempio più icastico dello sforzo calviniano, affidato in particolare a ‘le città e il desiderio’, di affrancare la scrittura dalle proprie limitate combinatorie, indirizzandola quanto possibile verso «lo spazio di molteplicità dei sogni e dei segni rappresentativi» (Ciccuto 2002, p. 80). Il suo carattere proteiforme, dai contorni malfermi, non si limita a materializzare il desiderio, che pure in questo gruppo – e in specie in Fedora – in sé «è l’illimitato divenire e, in quanto tale, non può essere fissato in una forma» (Zancan 1996, p. 903): paradossalmente informata dalla nostalgia delle sue stesse alternative, la città permette all’autore di suggerire a un tempo l’utilità e la storicità delle utopie. Proprio in questa contraddizione risiede il valore civile, proiettivo, ma allo stesso tempo inevitabilmente velleitario del progetto di ogni Fedora nuova e diversa, dato che «nel momento della sua nascita tale sogno è già superato e può servire alle generazioni future solo come reperto utopico, se non addirittura anti-utopico» (Kuon 2001, p. 32).

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In una intervista del 1984 Italo Calvino, interrogato sulle ragioni del proprio successo, individua due elementi che mi sembrano particolarmente significativi: il fatto che in Francia la sua fortuna «nasce più dai lettori anonimi che dalla critica» (Calvino 1996, p. 237); e l’importanza de Le città invisibili: «Ancora oggi negli Stati Uniti io sono soprattutto l’autore di Invisible Cities, un libro che pare sia molto amato dai poeti, dagli architetti e in genere dai giovani universitari» (ibidem). Calvino inizia a essere tradotto molto presto, sin dagli anni Cinquanta, e la sua diffusione internazionale diventa esponenziale. Il Fondo Calvino Tradotto (cfr. Gambaro 2002), conservato all’Istituto di Cultura Italiano di Parigi, conta circa cinquecento traduzioni e una trentina delle Città invisibili (che a oggi sono tradotte in 43 lingue e pubblicate in 49 paesi; cfr. Palermitano 2020; Baldi e Schwartz 2023). Non a caso, a partire dagli anni Novanta, ha scritto Francesca Serra, proprio questo libro è stato fatto «oggetto di largo consumo aforistico, da formula epigrafica buona per molti usi, talvolta anche troppo facili o impropri; a partire dal grande successo americano che Le città invisibili ebbero quando furono tradotte nel 1974» (Serra 2006, p. 329). Ma non è solamente l’uso ‘verbale’ a caratterizzare la ricezione di questo libro, negli ultimi due decenni, infatti, si sono moltiplicate in particolare le transcodificazioni: semplici lettori o lettrici e artisti di professione si sono cimentati con il tentativo di dare una forma visibile di quanto, per la sua stessa definizione, si sottrae allo sguardo. E non è un caso che proprio le Città si siano prestate a questo tipo di operazione: da tempo, infatti, la critica ne ha sottolineato il carattere ‘aperto’, che richiede a chi legge (incarnato nella figura di Kublai Kan nel testo; cfr. Piazza 2009, p. 181) di confrontarsi con «una matrice aperta di meta-ambientazioni, spazio-temporali, ma soprattutto psicologiche, che il lettore è indotto/sedotto a riempire a seconda del proprio paesaggio interiore, cioè degli stati d’animo, dei vissuti, dei desideri, dei ricordi e delle angosce, dei progetti e dei rimossi che lo abitano» (Lanzetti 2017, p. 16). Sono città-rebus (o città-allegorie) che nascondono una «“figura” da leggere» (Belpoliti 2006; di «allegoria» ha invece parlato Mengaldo 1980, p. 410). Sono testi-città, come ha sottolineato Gianni Canova nella presentazione alla mostra Città In/visibili (Milano, Triennale, 5 novembre 2002 - 9 marzo 2003), che hanno la capacità di creare forme e morfologie, e in questo modo Calvino si è fatto anche «precursore e cartografo delle trasformazioni urbanistiche in atto nella seconda metà del secolo scorso, anticipando con la sua visionarietà alcuni dei tratti peculiari e salienti delle città e delle metropoli contemporanee» (Barenghi, Canova, Falcetto 2002; la fortuna delle Città invisibili nei discorsi di urbanistica e architettura è confermata da un volume dello stesso anno della mostra dedicato proprio a Invisible Cities and the Urban Imagination, curato da Linder 2002).

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