3.1. Tamara, o della città in forma di Bilderatlas

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  1. La città gomitolo

 

Per una città che inaugura la sezione dedicata ai ‘segni’, e in cui le parole stanno al posto di immagini che stanno a loro volta al posto di qualcos’altro, si potrebbe cominciare a partire da una visual representation realizzata da una delle più importanti information designer contemporanee prima ancora di diventarlo. L’interpretazione visiva di Federica Fragapane [fig. 1] non si avvale, come accade nelle data visualizations per le quali è poi diventata un punto di riferimento mondiale, di alcun sistema infografico. Tamara è un globo composto da numerosi nastri che recano iscritti gli oggetti e i messaggi ad essi sottesi in mostra sulle insegne o per le strade della città. La forma sferica della matassa rimanda immediatamente a un senso di interezza, di unità: la città è un organismo pulsante, dotato di una propria estensione (prima e dopo la città di Tamara c’è il vuoto: mentre ci si avvicina «l’uomo cammina per giornate tra gli alberi e le pietre [che] sono soltanto ciò che sono»; quando ci si allontana «fuori s’estende la terra vuota fino all’orizzonte», CI, p. 367), e dunque apparentato all’idea di microcosmo, di pianeta a sé stante.

Eppure, al lettore e alla lettrice – e probabilmente anche all’artista – non può non sopraggiungere alla memoria il ricordo proprio del gomitolo che apre, attraverso una citazione gaddiana, la lezione calviniana dedicata alla Molteplicità. Il «mondo come un garbuglio, o groviglio, o gomitolo» (Calvino 1995, p. 717), atto a dar conto dell’inestricabile complessità del reale, è un’immagine che non saremmo immediatamente propense ad associare allo stile di Italo Calvino, celebrato per la sua lingua acuta, tagliente e precisa, che del nitore, lessicale e sintattico, ha fatto la propria cifra (Belpoliti 2006). Ma forse, come lo stesso scrittore ci dimostra, lo «gnommero» altro non è che l’altro volto della precisione classificatoria, con cui partecipa di quella tensione, irriducibile e irrinunciabile, a rappresentare la realtà come un «“sistema di sistemi”, in cui ogni sistema singolo condiziona gli altri e ne è condizionato» (Calvino 1995, p. 717). D’altronde, è lo stesso Calvino in un’altra delle Lezioni americane, quella dedicata alla Esattezza (ivi, pp. 677-696), a lasciarci intuire che tra le due forme del «cristallo» (immagine di regolarità delle strutture interne) e della «fiamma» (immagine di regolarità delle strutture esterne) ci possano essere più tangenze di quelle che si possano inizialmente intuire. Dunque, non ci stupisce che la precisione della lingua calviniana, così come la propensione analitica della visual representation, possano abbracciare anche il caos apparente del labirinto dei segni.

 

  1. La città semiotica

Potremmo definire Tamara la città semiotica (non a caso inaugura la sezione intitolata alle ‘città e i segni’), luogo di una detection del significato che tuttavia sembra non potersi mai compiere definitivamente. L’arrivo alla città, dove il paesaggio è costellato solo da alberi e pietre, è preceduto da una serie di indizi, che sono anche degli indici, secondo la distinzione di Peirce:

 

Raramente l’occhio si ferma su una cosa, ed è quando l’ha riconosciuta per il segno d’un'altra cosa: un’impronta sulla sabbia indica il passaggio di una tigre, un pantano annuncia una vena d’acqua, il fiore dell’ibisco la fine dell’inverno. (CI, p. 367)

La caratteristica dell’indice è quella di possedere un rapporto di contiguità fisica con l’oggetto cui si riferisce, contiguità che, oltre a essere determinata da un rapporto di causa-effetto, produce una speculazione ipotetica sull’evento che ha prodotto l’indice stesso. In altre parole, l’indice scatena il bisogno del racconto, accompagnato da una forte componente gnoseologica, da un’esigenza di comprensione del mondo che passa, dalle tracce concrete (impronta, pantano, fiore) alle immagini mentali della fantasia (tigre, acqua, inverno).

Questo primo riconoscimento dell’origine della narrazione, in una continua oscillazione tra presenza, assenza e presentificazione fantasmatica, prosegue con l’ingresso nella città, foriera di immagini ma anche, e forse soprattutto, delle parole che quelle immagini sottendono. Il primo elemento che colpisce l’occhio di chi guarda sono le «vie fitte di insegne che sporgono dai muri» (ibidem): l’indicazione spaziale e architettonica è quella di un labirinto, e l’intrico delle vie di accesso ci rimanda alla struttura delle calli veneziane – il grande archetipo che sottende l’intero progetto delle Città invisibili – o delle casbah arabe, o ancora della Parigi dei passages. A essere nominate sono le insegne degli esercizi commerciali e dei servizi alla persona: «cavadenti», «taverna», «corpo di guardia», «erbivendola» vengono identificati a partire dalle immagini di «tenaglie», «boccali», «alabarde», «stadere». Le immagini stanno al posto di qualcosa d’altro, in questo caso con un rapporto di somiglianza rispetto agli utensili che i soggetti che animano i luoghi all’interno sono soliti usare. Le ‘icone’, in termini semiotici, che scrivono la città nelle sue vestigia esteriori, a loro volta ci ‘indicano’ quello che accade nei suoi interni.

Nel percorrere la città, si attraversano anche tutte le tipologie di segno, ad esempio quelle che si pongono a cavallo tra icona e simbolo, e che iniziano a introdurre, in combinazione all’immagine, anche la parola da un punto di vista visivo. Proprio perché il simbolo funziona non a partire da una relazione di somiglianza o di contiguità, bensì da una convenzione e da un atto arbitrario che tuttavia deve essere ampiamente condiviso, i successivi segni che incontra chi osserva riguardano quella che potremmo definire una sorta di segnaletica stradale:

 

altri segnali avvertono di ciò che in luogo è proibito – entrare nel vicolo con i carretti, orinare dietro l’edicola, pescare con la canna dal ponte – e di ciò che è lecito – abbeverare le zebre, giocare a bocce, bruciare i cadaveri dei parenti. (CI, p. 367)

I segnali stradali partecipano, contemporaneamente, della natura iconica e simbolica del segno: se da un lato l’azione concessa o vietata viene rappresentata attraverso un’immagine che assomiglia effettivamente al suo manifestarsi referenziale, la funzione fàtica (il divieto, l’invito) trova invece espressione in linee e colori convenzionali. La sintesi visiva può accompagnarsi anche a una componente scritta: una sorta di didascalia, che, in Tamara, è parte integrante del discorso della città.

Non è allora un caso che alcune delle rappresentazioni visive della città di Tamara abbiano utilizzato proprio la segnaletica stradale, spesso in senso fortemente astratto, per riferirsi all’essenza della città. La fotografia dedicata a Tamara di Carmelo Bongiorno dal titolo Segnale stradale (2002) [fig. 2], realizzata nell’ambito della mostra Le città in/visibili tenutasi presso la Triennale di Milano dal 5 novembre 2002 al 9 marzo 2003, pone al centro di un’inquadratura un po’ sghemba un cartello su cui campeggia una freccia. L’uso del bianco e nero, insieme alla sfocatura tanto del primo piano quanto del campo lungo che affiora in lontananza, priva il segnale dei suoi tratti referenziali: la freccia obliqua non indica né di girare né di proseguire dritti, perché di fatto quella specifica inclinazione non esiste nei segnali presenti nel codice della strada. La freccia sembra, piuttosto, mirare in alto, verso il cielo, quasi a trascendere i confini della città: la didascalia che l’accompagna nel catalogo della mostra, infatti, si conclude con le penultime righe del testo calviniano: «Fuori s’estende la terra vuota fino all’orizzonte, s’apre il cielo dove corrono le nuvole» (CI, p. 368). Ancora più sintomatica appare, ad esempio, l’immagine che accompagna il testo di Tamara all’interno del blog frammentiletterari.blogspot.it [fig. 3], a testimonianza di quanto le illustrazioni prodotte dagli utenti del web costituiscano un bacino di indagine ancora tutto da esplorare. L’immagine, di cui non è dato conoscere con esattezza l’autore/autrice (l’unica indicazione reca la seguente dicitura: «Postato 14th July 2015 da Unknown»), possiede tuttavia un titolo, Alfabeto urbano: costruita a mo’ di griglia, al suo interno ogni singolo riquadro contiene un dettaglio che caratterizza il paesaggio della città (strisce pedonali e sull’asfalto, paratie di marciapiedi, tralicci, tubi, ringhiere, corrimano ecc.). Il layout è molto simile a quello utilizzato, in molti siti web, come CAPTCHA (Completely Automated Public Turing test to tell Computers and Humans Apart): per verificare che l’interazione avvenga da parte di un essere umano e non di un robot, alcuni portali utilizzano griglie di immagini chiedendo all’utente di riconoscere un particolare tipo di oggetto all’interno della serie. Saper interpretare i segni – di cui la relazione parola-immagine nell’atto di attribuzione nominale costituisce forse l’esempio basilare – è ancora, almeno per ora, appannaggio apparente dell’umano.

 

  1. La città-atlante

 

Il racconto di Tamara prosegue con l’ingresso a pieno titolo nell’alveo del simbolo. È la volta, infatti, delle statue divine, riconoscibili ai fedeli per i particolari attributi – la cornucopia, la clessidra, la medusa – che simbolicamente e culturalmente le caratterizzano e che le rendono intelligibili, perché ne raccontano sinteticamente la storia, il carattere, il mito. La sostituzione simbolica, che è anche l’accesso alla relazione metaforica del linguaggio, viene resa apertamente manifesta nelle righe successive, in cui appare, dopo l’allusione tramite le insegne, la vera abitante di una città altrimenti fantasma: la merce.

Anche le mercanzie che i venditori mettono in mostra sui banchi valgono non per se stesse ma come segni d’altre cose: la benda ricamata per la fronte vuol dire eleganza, la portantina dorata potere, i volumi di Averroè sapienza, il monile per la caviglia voluttà. (CI, pp, 367-68)

L’oggetto non vale per la sua funzione d’uso, non per il valore della forza lavoro che è stata impiegata: la merce, scissa dal suo dato produttivo, si trasforma in feticcio capace di evocare fantasmi di status sociale e di moralità, di inserimento sociale o di emarginazione, di potere del desiderio capace di reificare anche la soggettività. Si compie quella che Giorgio Agamben ha definito «l’epifania dell’inafferrabile» (Agamben 2011, p. 46) o «l’appropriazione dell’irrealtà» (ivi, p. 59), che passa anche attraverso la parola e il suo rapporto ambiguo, non meramente referenziale, con l’oggetto. Lo spostamento di significati che il simbolo attiva nella traslazione metaforica non avviene solamente sul piano logico: attraverso l’attivazione di immagini si innescano campi di forza sociale, sottili eppure potentissimi.

Attraverso la figura dell’elencazione, particolarmente cara al Calvino delle Città invisibili, la nominalizzazione degli oggetti e dei loro plurimi significati è allora strumento di comprensione delle forze di potere del mondo, nella decodifica di quegli elementi di moda che, come ben ha sottolineato Barthes (2006), costituiscono le nuove mitologie: accumulare oggetti, accumulare immagini significa allora cercare di avvicinarsi, per quanto in maniera imperfetta, alla cognizione «del discorso della città», da cui il parallelismo fra Tamara e le pagine scritte di un libro.

La città, allora, si trasforma in un atlante a cielo aperto, una grandiosa Wunderkammer all’interno della quale ricercare le segrete corrispondenze della realtà. Ecco che l’acquerello di Pedro Cano dedicato a Tamara [fig. 4] riprende nuovamente la struttura della griglia, ma dispiegandola nell’orizzontalità della lettura di un impossibile album: nei riquadri trovano spazio non più le segnaletiche, bensì gli oggetti stravaganti (cesoie, clessidre, alambicchi, chiavi, vasi ecc.) che mappano il montaggio sempre multiforme della città. L’accostamento delle singole figure lascia intendere sovraimpressioni e filigrane, l’affioramento di disegni soggiacenti o che si annebbiano in lontananza, a suggerire che dietro questo alfabeto ci sono pattern ricorrenti, formule dal sapore alchemico che potrebbero contenere il segreto dell’essenza della città. È una figurazione che ricorda da vicino la costruzione delle bacheche warburghiane del Bilderatlas: la ricerca tassonomica dell’esistente, delle strutture di organizzazione interna (i cristalli) e delle forme esterne (le fiamme) dentro le quali si agita la stessa possibilità della conoscenza.

 

  1. La città enigma, o di Tamara e Nadja

Ma come il mondo, anche la città di Tamara sfugge da qualunque tentativo stabile di incasellamento. Un indizio era già presente nelle prime righe di descrizione, quando gli stessi indici-icone mostravano possibilità di fallimento nel riconoscimento certo del referente: «statue e scudi rappresentano leoni delfini torri stelle: segno che qualcosa – chissà cosa – ha per segno un leone o delfino o torre o stella» (CI, p. 367). «Chissà cosa», ci dice il Marco Polo narratore, è lo scacco della ragione e la vittoria dell’enigma, che alla fine trionfa proprio sul discorso della città: «come veramente sia la città sotto questo fitto involucro di segni, cosa contenga o nasconda, l’uomo esce da Tamara senza averlo saputo» (ibidem). Il perturbante che permea le strade, le insegne, i simboli è dettato anche dal fatto che, a ben vedere, la città è deserta di figure umane: «l’uomo» compare solo all’ingresso e all’uscita di Tamara, e non al suo centro; vengono appena accennati i mercanti, funzionali solo alla disposizione della merce; le guardie e l’erbivendola sono invisibili, sostituiti già dalle loro insegne. Tamara assomiglia un po’ alla scena di un delitto inesistente, dove anche chi osserva viene disincarnato in forme impersonali («si vedono») o in dispositivi scopici («l’occhio», «lo sguardo») – e infatti nell’acquerello di Pedro Cano aleggia un occhio, che sembra incollato, come se fosse un appunto, al di sopra delle altre figure, pura scopia senza corpo. E completamente deserta è anche la Tamara dipinta da Colleen Corradi Brannigan [fig. 5]: sospesa tra i nembi nei quali chi ha visitato la città andrà poi a ricercare altrettante forme, gli edifici si nascondono dietro teli bianchi, manifesti vuoti come vuoti sono i palazzi, le finestre, le strade.

Lo straniamento della Tamara priva di abitanti e visitatori che agiscano sulla scena assomiglia a quello trasmesso dalle parole e dalle fotografie della Parigi di Nadja di André Breton, altra città enigmatica, fantasmatica, che solo l’occhio epifanico della sua protagonista è in grado di svelare nei suoi tratti di surrealtà. La metropoli del romanzo bretoniano è forse un altro possibile antecedente di Tamara, o perlomeno una città a lei omologa: i cartelloni, le pubblicità, le scritte fuori dai negozi, che costituiscono anche buona parte dei soggetti fotografati soprattutto da Boiffard, compaiono nella narrazione non come semplici ‘realemi’, marche di spazio tese a produrre un barthesiano effetto di reale. Si tratta, piuttosto, di segnali che solo una sensibilità fuori dal comune sarà in grado di captare. Una locandina pienamente ‘indicale’, perché indica letteralmente, funziona come la freccia fotografata da Carmelo Bongiorno: in direzione di un cielo non meglio identificato, Nadja vede nella mano di fuoco il simbolo stesso dell’identità del narratore:

Elle est à nouveau très distraite et me dit suivre sur le ciel un éclair que trace lentement une main. « Toujours cette main. » Elle me la montre réellement sur une affiche, un peu au-delà de la librairie Dorbon. Il y a bien là, très au-dessus de nous, une main rouge à l'index pointé, vantant je ne sais quoi. Il faut absolument qu’elle touche cette main, qu’elle cherche à atteindre en sautant et contre laquelle elle parvient à plaquer la sienne. « La main de feu, c’est à ton sujet, tu sais, c’est toi. » (Breton 1964, p. 99)

 

L’omonimia fra il nome di un negozio e quello di una donna non meglio precisata, pronunciata da una passante che ferma Nadja, lascia presagire una trama segreta, la presenza di una maga presentificata nella stessa scrittura a cielo aperto della città:

 

Une vieille dame est apparue sur le pas d'une porte fermée et elle a cru que cette personne allait lui demander de l'argent. Mais elle était seulement en quête d'un crayon. Nadja lui ayant prêté le sien, elle a fait mine de griffonner quelques mots sur une carte de visite avant de la glisser sous la porte. Par la même occasion elle a remis à Nadja une carte semblable, tout en lui expliquant qu'elle était venue pour voir « Madame Camée » et que celle-ci n'était malheureusement pas là. Ceci se passait devant le magasin au fronton duquel on peut lire les mots : CAMÉES DURS. Cette femme, selon Nadja, ne pouvait être qu'une sorcière. (Breton 1964, p. 102)
 

L’insegna luminosa dello Sphinx-Hôtel, presso cui la protagonista ha soggiornato, si fa allora mise-en-abyme di Nadja-personaggio ma anche di Nadja-opera letteraria:

 

Nous passons boulevard Magenta devant le « Sphinx-Hôtel ». Elle me montre l'enseigne lumineuse portant ces mots qui l'ont décidée à descendre là, le soir de son arrivée à Paris. (Breton 1964, p. 105)

 

E infine, è la stessa Nadja a trasformarsi, agli occhi del narratore, in una lampadina pubblicitaria, vertiginosa collisione di umano, tecnologico e animale:

Elle s'est plu à se figurer sous l'apparence d'un papillon dont le corps serait formé par une lampe « Mazda » (Nadja) vers lequel se dresserait un serpent charmé (et depuis je n'ai pu voir sans trouble cligner l'affiche lumineuse de « Mazda » sur les grands boulevards, qui occupe presque toute la façade de l'ancien théâtre du « Vaudeville », où précisément deux béliers mobiles s'affrontent, dans une lumière d'arc-en-ciel). (Breton 1964, pp. 132-134)
 

Tamara e Nadja sono due città/donne enigma, inconoscibili e per questo portatrici di racconto, perfetti emblemi di quella «enciclopedia aperta» tutta novecentesca, perché «oggi non è più pensabile una totalità che non sia potenziale, congetturale, plurima» (Calvino 1995, p. 726).

 

Bibliografia

I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio [1985], in Id., Saggi. 1945-1985, 2 voll., a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, I, pp. 630-753.

 

G. Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Torino, Einaudi, 2011.

R. Barthes, Il senso della moda. Forme e significati dell’abbigliamento, Torino, Einaudi, 2006.

M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, Torino, Einaudi, 2006.

A. Breton, Nadja [1964], Paris, Gallimard, 1998.