2.2. Modelli di un’altra Fedora. Tentativi e possibilità visive per una e molte città, «tutte solo presunte»

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Quarta tra ‘le città e il desiderio’, Fedora non è che una «metropoli di pietra grigia» con al centro un palazzo di metallo (CI, p. 382): nessun altro dettaglio viene offerto direttamente, al Kan e al lettore, nel racconto di Polo. Pure, di essa si inferisce un’immagine in controluce, una descrizione in negativo. Il palazzo contiene, infatti, in innumerevoli sfere di vetro, i modelli in miniatura di un’altra Fedora, progettati invano da qualcuno, in ogni epoca, nel tentativo di renderla la città ideale. L’edificio ha così finito per trasformarsi in un museo di possibilità remote della città immaginata; ipotesi cadute, poiché, mentre venivano concepite, «già Fedora non era più la stessa di prima, e quello che fino a ieri era stato un suo possibile futuro ormai era solo un giocattolo in una sfera di vetro» (ibidem).

Fedora è forse l’esempio più icastico dello sforzo calviniano, affidato in particolare a ‘le città e il desiderio’, di affrancare la scrittura dalle proprie limitate combinatorie, indirizzandola quanto possibile verso «lo spazio di molteplicità dei sogni e dei segni rappresentativi» (Ciccuto 2002, p. 80). Il suo carattere proteiforme, dai contorni malfermi, non si limita a materializzare il desiderio, che pure in questo gruppo – e in specie in Fedora – in sé «è l’illimitato divenire e, in quanto tale, non può essere fissato in una forma» (Zancan 1996, p. 903): paradossalmente informata dalla nostalgia delle sue stesse alternative, la città permette all’autore di suggerire a un tempo l’utilità e la storicità delle utopie. Proprio in questa contraddizione risiede il valore civile, proiettivo, ma allo stesso tempo inevitabilmente velleitario del progetto di ogni Fedora nuova e diversa, dato che «nel momento della sua nascita tale sogno è già superato e può servire alle generazioni future solo come reperto utopico, se non addirittura anti-utopico» (Kuon 2001, p. 32).

Con tutta evidenza, la sfida della trasposizione in immagini, della visualizzazione, si presenta come particolarmente intrigante, disponendo gli artisti in effetti di una non-descrizione della città, di un testo sfuggente, benché punteggiato da alcune folgoranti indicazioni visive. A spiccare, in particolare, è la polarizzazione fra l’algida e cinerea Fedora ‘reale’ e il contenuto (retrospettivamente) potenziale delle sfere, città alluse per sineddochi oniriche e visionarie: la peschiera delle meduse «che doveva raccogliere le acque del canale (se non fosse stato prosciugato)»; il baldacchino con vista sul «viale riservato agli elefanti (ora banditi dalla città)»; la «spirale del minareto a chiocciola (che non trovò più la base su cui sorgere)» (CI, p. 382). Il luogo in cui questa tensione è più evidentemente chiamata a reagire è senz’altro il palazzo, centro nevralgico della metropoli; uno spazio, peraltro, così calcolato e mentale, nella sua giustapposizione ritmica di sfere rilucenti costrette in una severa gabbia di metallo, da aver spinto a riconoscere nel passo una memoria della Scultura n. 21 di Fausto Melotti, tenendo conto che è Calvino stesso a indicare nella produzione melottiana una miccia determinante per l’ideazione delle Città invisibili, talora ai limiti dell’ekfrasis (Modena 2004, p. 242).

Queste molteplici suggestioni sono state naturalmente tradotte dagli artisti, anche in tempi recentissimi, in esiti originali e assai diversi fra loro, a seconda di quali tra i vari aspetti testuali si è voluto privilegiare o ignorare. Se alcuni si sono concentrati specificamente sul caso di Fedora, per molti essa ha costituito una tappa all’interno di un impegno sistematico sulle Città invisibili, selezionate o nella loro totalità, il che ha tanto più imposto un approccio certosino di interrogazione del testo e di distillazione delle caratteristiche salienti delle singole città, oltre le consonanze e le connessioni sotterranee che attraversano i mondi, i rebus dell’opera calviniana. È il caso di Leighton Connor, Matt Kish e Joe Kuth, che hanno realizzato e postato sul blog Seeing Calvino, a partire dall’aprile 2014, una città alla volta per i cinquantacinque mercoledì seguenti, alternandosi e scandendo per un anno e poco più il tempo dei loro follower, trasformando così il testo letterario in «una sorta di calendario visivo» nel quale le descrizioni di Calvino «sono state rese ancor più frammentarie per restituire al lettore e osservatore la sinergia che deve crearsi tra il codice iconico e quello verbale» (Rizzarelli 2015, p. 47; cfr. http://seeingcalvino.tumblr.com, più tardi anche dedicato alle Cosmicomiche, consultato il 07.09.23). La Fedora di Leighton Connor [fig. 1] visualizza efficacemente il contrappunto materico e cromatico fra la «pietra grigia» della metropoli e le versioni della «città azzurra» che essa poteva essere e non è stata. Mentre infatti la prima, al centro, si risolve in un claustrofobico muro di mattoni, pur dagli incastri irregolari, le altre quattro, che con essa si intersecano parzialmente, promettono un’urbanistica fantastica, dal vitalismo organico e ‘cellulare’, espresso ora in skyline dalle geometrie estrose, ora in spirali, nicchi, tentacoli, forse con qualche ricordo del potente accenno letterario alle meduse.

Non sorprende che sia proprio la ricerca sulla sfera il minimo comun denominatore di quasi tutte le rappresentazioni di Fedora, il dato formale più dirompente e caratteristico, talora – come nel caso appena discusso – esteso per analogia anche alla città ‘reale’.

Pedro Cano, autore del più celebre ciclo ispirato al capolavoro calviniano, ha scelto invece di obliterare del tutto la vera Fedora; nel suo raffinatissimo acquerello [fig. 2], di essa si salva solo, significativamente, il grigiore di uno sfondo che contorna e quasi avvolge, come una coltre di smog, il globo di vetro – qui così promettente da sembrare il cristallo di un’indovina – il quale nei suoi riflessi cerulei restituisce il panorama di uno dei sogni irrealizzati. Si intuiscono i contorni di un Altrove d’incenso, «muri di calce per un agglomerato di scatole regolari che s’arroccano fra rare palme. E in ogni stanza una sfera con un’altra possibile Fedora; e tutte però – t’aspetti – d’araba invenzione» (Natali 2005, n.p.).

Il ciclo di Pedro Cano è il risultato di un’elaborazione lenta, durata molti anni e presentata infine in diverse occasioni espositive (fra le quali spicca la mostra di Palazzo Vecchio, Firenze, nell’autunno 2005). Si tratta di una ricerca iniziata letteralmente sulle pagine di Calvino, e per la precisione – come racconta lo stesso artista (Cano 2005, n.p.) – sulla copia delle Città invisibili donatagli nel 1989 da Esther «Chichita» Calvino, vedova dello scrittore (il quale egli aveva avuto modo di conoscere pochi mesi prima che morisse). Nei margini del libro, portato con sé nei propri viaggi, l’artista cominciava a tradurre visivamente le descrizioni letterarie: la sfera di Fedora è già abbozzata alle pagine 38 e 39, dove essa assume quasi l’aspetto di una calotta architettonica e dove, in un altro schizzo, si intuisce la volontà iniziale di restituire l’idea delle possibilità multiple, poi abbandonata nell’acquerello finale (per questo bozzetto cfr. almeno Lapeña Gallego 2014, p. 46).

Come è stato notato (Kreisberg 2012), l’artista oscilla, nelle sue transcodificazioni, fra un approccio ‘illustrativo’ più referenziale e l’ideazione di immagini che recano invece rapporti semantici più complessi e dialettici rispetto al testo di partenza. La sua Fedora appartiene senz’altro al primo gruppo. Osservare che il grado di elaborazione autonoma e di ‘allontanamento’ dalla fonte sia qui più ridotto rispetto ad altri – brillanti – esempi del ciclo non significa però tacciare di banalità la sua rappresentazione, la quale dimostra al contrario di aver colto alcuni aspetti fondamentali dell’opera di Calvino. Che la Fedora di Cano sia così evidentemente «d’araba invenzione», ad esempio, è aspetto di duplice interesse: certo essa accoglie ed estende il puntuale riferimento al minareto, che infatti si staglia, affilato, fra le case; ma anche, più latamente, dà corpo al fantasma di un Oriente allucinato e frammentario quale a fatica emerge dalle parole di Marco Polo nelle Città invisibili, uno dei due fuochi ciechi – l’altro, ovviamente, Venezia – attorno a cui orbita il suo raccontare (e servono entrambi, nella costruzione del testo, come interlocutori impliciti di ogni città, definita a partire dalla ripetizione e dalla differenza rispetto a sé stessa e ad essi: «Nello spazio vuoto ma emotivamente sovraccarico tra le due immagini, Venezia e l’Oriente, nascono le impossibili città di Calvino», Della Coletta 1997, p. 422).

 

Se la visione di Pedro Cano, nota ancora Natali, «par quasi in attesa di un’impossibile nevicata artificiale» – e molte delle trasposizioni artistiche di Fedora ammiccano in effetti all’immaginario della palla con la neve, da sempre, anche senza scomodare Orson Welles, topico dispositivo nostalgico – a raccogliere più esplicitamente l’indicazione di una città che «ha adesso nel palazzo delle sfere il suo museo» (CI, p. 382) è invece Sara Vettori, autrice insieme a Gabriele Genini del progetto artistico Le visibili città invisibili. Un omaggio a Italo Calvino. Nella sua linoleografia [fig. 3], le sfere non occupano ciascuna una stanza – come nel testo – e sono piuttosto allineate su dei piedistalli. Se ne vedono tre, ma in un’infilata digradante verso sinistra che si intuisce senza fatica proseguire, e potenzialmente all’infinito. A confermare che si tratta di un’esposizione permanente concorre, determinante, il dettaglio delle etichette: «Fedora 1344», «Fedora 1771» …e ovviamente così via, per una metropoli che si sostanzia ormai nell’interminabile e caotica stringa alfanumerica delle sue occasioni mancate, senza neanche il conforto di un ordinamento progressivo.

Dunque, rinunciando ai suggerimenti iconografici del testo, Vettori indica corsivamente le città nelle sfere come versioni forse più risolte di quel che si può scorgere fuori dalla finestra, la cui grata nera incombe a indice del museo/palazzo di metallo. Da qui si apre la vista sulla ‘vera’ Fedora: un incubo espressionista, un paesaggio urbano di segni duri e netti, bifore gotiche e linee affilate; naturalmente, un paesaggio vuoto e disabitato, se i due artisti intendono con profondità la solitudine calviniana della città desiderata e incompiuta, «di mondi che ancora non esistono e per questo ci appaiono deserti, freddi, lunari», e che spesso, dunque, in Genini e Vettori «non recano traccia di presenze umane (se non di riflesso o per allusioni)» (Savio 2015, p. 14).

Colleen Corradi Brannigan, artista formatasi fra Londra, Tokyo e New York, si è occupata dell’universo delle Città invisibili e nello specifico, a più riprese, di Fedora, elaborando soluzioni intriganti, anche in questo caso tutte attivate dalla forma della sfera. Nelle sue immagini, essa è moltiplicata in una fila di pianeti urbani affollati da edifici, architetture slanciate ed elastiche, tetti e campate in caotico intrico (https://www.cittainvisibili.com/page/product/56/details/fedora) o invece debordante di loggiati in atto di liquefarsi, miraggio cristallino ed effimero su uno sfondo plumbeo (https://www.cittainvisibili.com/page/product/26/details/fedora; sito consultato il 13.09.23). Vale forse la pena di spendere qualche parola anche su quella che è in effetti la meno ‘impegnativa’ delle sue illustrazioni di Fedora [fig. 4]: un disegno a matita su carta che non dà prova di contatti stretti con il passo calviniano e presenta invece un debito esplicito e ingombrante nei confronti delle celeberrime incisioni di Maurits Cornelis Escher, l’artista-matematico delle architetture dedaliche e piranesiane, ma anche dei globi riflettenti. Si tratta dunque, in sé, di una rappresentazione che non tenta balzi avanti per originalità; quello fra Escher è Calvino è peraltro un parallelo noto e antico, sin dai tempi della scelta della xilografia Un altro mondo (1947) come leggendaria sovraccoperta della prima edizione delle Cosmicomiche (Einaudi 1965). Tuttavia, per il caso di Fedora, quella dell’incisore olandese è forse una citazione meno facile di quanto possa sembrare; evidenziarla in questa sede può in ogni caso aiutare a chiarire alcune delle ‘tentazioni’ visive offerte al lettore dal passo letterario e dalla sua ricezione successiva.

Proprio con Escher, infatti, tramite la capitale monografia del 1979 di Douglas Hofstadter Gödel, Escher, Bach (ormai un classico inaggirabile degli studi interdisciplinari), Calvino chiudeva la Lezione americana sulla Visibilità, di certo quella che più interseca e intercetta i temi e le ricerche delle Città invisibili (Calvino 1995, p. 714):

 

Ma non potrebbe verificarsi ciò che avviene nei quadri di Escher che Douglas R. Hofstadter cita per illustrare il paradosso di Gödel? In una galleria di quadri, un uomo guarda il paesaggio d’una città e questo paesaggio s’apre a includere anche la galleria che lo contiene e l’uomo che lo sta guardando. […] Comunque, tutte le “realtà” e le “fantasie” possono prendere forma solo attraverso la scrittura, nella quale esteriorità e interiorità, mondo e io, esperienza e fantasia appaiono composte della stessa materia verbale; le visioni polimorfe degli occhi e dell’anima si trovano contenute in righe uniformi di caratteri minuscoli o maiuscoli, di punti, di virgole, di parentesi; pagine di segni allineati fitti fitti come granelli di sabbia rappresentano lo spettacolo variopinto del mondo in una superficie sempre uguale e sempre diversa, come le dune spinte dal vento del deserto.

 

È solo la più evidente di varie spie di una non superficiale curiosità escheriana soprattutto del Calvino maturo, attratto dall’approccio logico-scientifico dell’incisore e dalla sua mise en abyme metadiscorsiva delle trappole e delle aperture possibili delle immagini, «il risultato di un ingegnoso collegamento di differenti realtà spaziali che non sono arbitrarie ma frutto di un’elaborazione che cambia in possibilità logica di un sistema visivo ben scelto quello che appare assurdo nella nostra normale esperienza» (Ferraro 1998, p. 137, cui si rimanda in generale per le consonanze tra l’opera di Escher e Calvino, Città invisibili comprese). La stessa triangolazione Calvino-Fedora-Escher proposta da Corradi Brannigan, a ben vedere, è in fondo quasi legittimata dallo scrittore stesso, che nel dicembre del 1984, pochi mesi prima di morire, posava per uno dei suoi ritratti fotografici più celebri: sui tetti di Roma, Calvino mostrava all’obiettivo di Gianni Giansanti una palla di vetro tenuta nella mano destra, che nello scatto riflette, capovolti, il paesaggio e lui stesso: un ammicco scoperto ed esplicito alla celeberrima litografia di Escher del 1935 Mano con sfera riflettente (Autoritratto allo specchio). Chi si trova oggi a commentare questa foto romana, a chiusura del cerchio, non resiste all’opportunità di richiamare proprio le visioni ialine delle infinite Fedora: «Mille forme e ognuno può scegliere la città che corrisponde ai propri desideri. Anche Calvino, così come Fedora, ha uno e mille volti. Maestro del ribaltamento, così lo ritrae Giansanti mentre guarda in macchina e nello stesso tempo ci mostra il rovescio di se stesso» (Alessia Tagliaventi in Fofi 2013, p. 86). La palla di vetro, insomma, si pone ormai quasi naturalmente, per il lettore delle Città invisibili, a paradigma della contraddizione feconda, dell’ambiguità, degli infiniti punti di sguardo, delle varianti combinatorie, in una traccia certo intimamente calviniana, ma anche – lecitamente – escheriana.

La sfera, dunque, si propone allo sguardo e alla penna come occasione per liberarsi dalla tirannia degli andamenti lineari e progressivi, dei percorsi a due dimensioni, tanto del tempo – innanzitutto il tempo storico e senza speranza della ‘vera’ Fedora – quanto della letteratura e delle immagini. Né Calvino né Escher hanno potuto conoscerlo, ma non si può non richiamare in questo senso un passo oggi considerato aurorale per la teoria dell’ipertesto: nel 1929 il genio poliedrico di Sergei Eisenstein, abbozzando la prefazione per una sua raccolta di scritti (ma il brano fu pubblicato postumo, molto tardi, in Ejzenštejn 1986, p. 49), immaginava una struttura visionaria per poter percepire i propri saggi:

tutti insieme simultaneamente, giacché in fin dei conti essi non rappresentano che una serie di settori di differenti campi che ruotano attorno ad un unico punto di vista […]. Una simile simultaneità e interpenetrazione dei saggi potrebbe esser soddisfatta da un libro che avesse la forma di una…sfera!
Dove i settori coesistono simultaneamente in forma di sfera, e dove, per quanto lontani possano essere, è sempre possibile un passaggio diretto dall’uno all’altro attraverso il centro della sfera.
Ma ahimè…
I libri non si scrivono sfericamente…

E se, da una parte, Italo Calvino è certo uno degli autori ad aver sperimentato con maggior successo le possibilità ipertestuali del libro e della scrittura, la testualità interpenetrata – ad aver provato, per dirla con Eisenstein, a scrivere ‘sfericamente’ – si potrebbe notare quanto la città di Fedora sfidi a sua volta gli artisti a un analogo scavalcamento: quasi domandando, visto ciò che si è detto finora, di essere illustrata sfericamente. Questa urgenza è avvertita con estrema precisione da Camilla Pilotto, giovane illustratrice e designer, che nel 2020 ha discusso al Politecnico di Milano una tesi ambiziosa in Design della Comunicazione intitolata Città (In)visibili, dedicata al capolavoro del 1972. Nove tra i mondi del testo di Calvino sono diventati l’oggetto di un esperimento ripetibile ed estensibile, applicabile anche ad altre opere letterarie e basato sul modello del picturebook, un dispositivo visivo-letterario caratterizzato da «una stretta alternanza di codici comunicativi che cooperano alla caratterizzazione di elementi paratestuali e pagine interne» (C. Pilotto in Sbarbati 2021). L’obiettivo è quello di favorire un approccio dinamico e intermediale all’atto della lettura, soprattutto per l’infanzia e la prima adolescenza (in questo caso, gli 11-14 anni), valorizzando il libro anche nella sua dimensione oggettuale. Le Città invisibili si presentano come un case study particolarmente adeguato, trattandosi di un’opera che insieme invita e sfugge alla visualità; un testo folgorante, ma dotato di una struttura narrativa – è stato spesso notato – di tutt’altro che facile ‘leggibilità’ (specie per un pubblico di giovanissimi). Nel cercare di dare corpo fisico alle visioni di Calvino, Pilotto si è trovata a maneggiare anche Fedora [fig. 5], scoprendo una città che le pareva rifiutare categoricamente la costrizione delle due dimensioni. Rompendo il criterio iniziale, autoimpostosi, di realizzare le città in sedicesimi tutte in quattro fogli uniti a punto metallico, l’artista ha creato allora un sistema di pagine circolari in acetato trasparente che restituisce la forma della sfera: una struttura sfogliabile, grigia come la pietra (è, volutamente, l’unica non su carta bianca, a evidenziare l’indicazione del testo), di evidenza fisica, ma che trattiene a sé oggetti – osserva Pilotto – invece delicatissimi. Oltre il muro, ecco la medusa, l’elefante, il minareto, le possibilità altre di questo luogo invisibile e così complesso da restituire ai lettori del picturebook; e tra le pagine spicchi trasparenti a segnare uno spazio di continuazione possibile, ancora aperto (comunicazione dell’artista a chi scrive, settembre 2023).

Il problema di come liberare l’immagine di Fedora dalle due dimensioni, svelandone invece l’impellenza di connessioni e aperture verso spazi nuovi, è stato risolto brillantemente anche da Matteo Menotto (1983), architetto, designer e illustratore a sua volta guidato da un approccio fortemente progettuale. Le sue Città invisibili – esposte a Pordenone poco più di dieci anni fa (Biblioteca Civica, Sala Esposizioni, 14 gennaio - 28 febbraio 2013) – sono realizzate con un’attenta messa in tensione di attenzioni grafiche e opportunità espressive del digitale. Per ciascuna città le immagini informatiche, scelte in base alle loro possibilità evocative e alle suggestioni dell’impaginato, sono affiancate, sovrapposte e montate fra loro in una silhouette nera tramite un programma vettoriale; a questo profilo vengono poi aggiunte le parole della descrizione di Calvino, cercando di valorizzarne la natura grafica ed evidenziandole come veicolo di impatto visivo e simbolico (sull’efficace ‘ridondanza’ di queste opere cfr. anche Rigolo 2013); solo sulla stampa serigrafata Menotto interviene infine con i colori ad acquerello, un gesto libero e manuale che contrasta fortemente con la ‘digitalità’ dell’immagine di partenza.

La Fedora di questa serie [fig. 6] è una delle transcodificazioni più rispettose e a un tempo più originali del testo di Calvino. La città delle sfere è parsa del resto all’artista da subito particolarmente affine al proprio linguaggio, in virtù del forte contrasto fra la metropoli solida e monocroma e i sogni mancati – ma visibili – delle sue alternative, accostabile alla convivenza, nelle città da lui realizzate, della silohuette digitale, calcolata ed elegante, e del passaggio di un acquerello dai valori onirici e quasi ‘lisergici’ (comunicazione dell’artista a chi scrive, settembre 2023). Anche gli ‘agganci’ testuali sono raccolti con una certa sistematicità. Il palazzo/museo, per cominciare, è alluso dai profili delle colonne e dalla balaustra di un loggiato tutt’altro che anonimo: la foto di Palazzo Ducale, come anche la gondola che, in verticale, si profila seminascosta sulla sinistra, ricordano il debito calviniano nei confronti di una Venezia visionaria e mescidata, la sola città di cui Polo non parla mai (ma «Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia», CI, p. 432). Le ombre nere tratteggiano però anche un’altra Fedora, pur capovolta: se ne vede il minareto, con il suo ardimento architettonico, e le meduse fluttuanti come nuvole di gelatina. Tuttavia, se le visioni delle città in potenza si sono liberate dalle loro gabbie di vetro, per abitare il rovescio, il negativo del palazzo, le sfere non rinunciano affatto a spalancarsi su altri mondi. Un decennio fa, i codici QR – oggi ormai onnipresenti – erano ancora una novità poco conosciuta ai più, icona dalla simbologia potente e neonata promessa di ipertesto a portata di tasca (questi rimandavano i visitatori della mostra ad animazioni grafiche di brani di musica classica). Niente è più legittimo, dentro le sfere della città ideata da Calvino, di un segno che letteralmente rinvia ad altri segni (e un segno perfettamente coerente, allo stesso tempo, con la ricerca sull’elaborazione digitale di Menotto, per la quale cfr. anche D’Angelo 2010).

Le interconnessioni e il reticolato di variabili offerti dall’elettronica sono ormai una chiave di lettura seducente per Fedora, che una giovane scenografa tedesca come Maya Weber, occupatasi nello specifico di questo caso fra i molti delle Città invisibili, ha tradotto infatti in una poetica, enorme matassa di cavi luminosi all’interno di una stanza buia e fredda. La città, stavolta, si presenta come il relitto di una civiltà distrutta, che è però miracolosamente riuscita a trasferire la conoscenza – e, direbbe Calvino, la fantasia – collettiva in database di memoria digitale, modernissima fibra ottica a prendere il posto degli ormai troppo novecenteschi globi di cristallo (cfr. https://www.maya-weber.com/fedora):

I imagine Fedora to be the ultimate future of any city that has smothered its natural landscape by spreading out a dense urban blanket of buildings, street scapes and parking lots. Despite the destruction, Calvino’s Fedorian society has attempted to preserve the natural world by somehow transferring the collective memory of these lost lifeforces into data housed in luminous fiberoptic cables.

 

Non si può non citare, infine, l’opera di un nome d’eccezione del design italiano, Gaetano Pesce, cui la traduzione di Fedora in progetto è stata affidata nel contesto della Triennale di Milano in occasione dell’esposizione, dedicata al capolavoro di Calvino, ‘Und1c1 città in mostra’ (Milano, Triennale, 5 novembre 2002 - 9 marzo 2003). La richiesta di ideazione di una città utopica offrì in quell’occasione a Pesce l’opportunità di una personalissima indagine sul concetto di città-Stato – così egli definisce la Fedora di Calvino – e di riflessioni sull’Italia del presente, che non vi è il tempo di ripercorrere in questa sede (cfr. però almeno anche l’intervista su Domus, Obrist 2005, pp. 11). Nei suoi appunti e progetti, emerge la libertà di un’adesione non referenziale al testo delle Città invisibili (G. Pesce in Canova 2003, p. 213):

 
Apparentemente questo chiosco di gomma non rivela Fedora. La sua elasticità però conduce ad innumerevoli emozioni, molte delle quali, la impossibile visita della città di Calvino potrebbe evocare. | Idem per questo spazio realizzato con poliuretano rigido spruzzato irregolare su di un cassero di legno.

 

 

Della Fedora di Calvino, insomma, il noto scultore e designer non salva pressoché alcuna indicazione visiva, eccetto la sua plasmabilità, il carattere aspettativo ed emozionale della sua forma; ma soprattutto, in buona sostanza, eccetto la libertà di immaginarla completamente diversa da come la si è ricevuta. Si ricordi, allora, il monito di Polo (CI, p. 382):

 

Nella mappa del tuo impero, o grande Kan, devono trovar posto sia la grande Fedora di pietra sia le piccole Fedore nelle sfere di vetro. Non perché tutte ugualmente reali, ma perché tutte solo presunte. L’una racchiude ciò che è accettato come necessario mentre non lo è ancora; le altre ciò che è immaginato come possibile e un minuto dopo non lo è più.

 

In fondo, come tutti gli altri tentativi menzionati fin qui, anche quella di Gaetano Pesce non è che l’ipotesi di un’altra Fedora incoerente, impraticabile, «solo presunta»; perciò, assolutamente necessaria.

Bibliografia

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S.M. Ejzenštejn, Il montaggio, a cura di P. Montani, Venezia, Marsilio, 1986.

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M. Zancan, ‘Le città invisibili di Italo Calvino’, in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura Italiana. Le Opere, vol. IV.II, Torino, Einaudi, 1996, pp. 875-929.

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B. Ferraro, ‘Dallo scudo di Agilulfo al tappeto di Eudossia: geometrie narrative in alcune opere di Italo Calvino’, in G. Bertone (a cura di), Italo Calvino: a writer for the next millennium, Atti del Convegno internazionale di studi di Sanremo, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1998, pp. 133-149.

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