In una intervista del 1984 Italo Calvino, interrogato sulle ragioni del proprio successo, individua due elementi che mi sembrano particolarmente significativi: il fatto che in Francia la sua fortuna «nasce più dai lettori anonimi che dalla critica» (Calvino 1996, p. 237); e l’importanza de Le città invisibili: «Ancora oggi negli Stati Uniti io sono soprattutto l’autore di Invisible Cities, un libro che pare sia molto amato dai poeti, dagli architetti e in genere dai giovani universitari» (ibidem). Calvino inizia a essere tradotto molto presto, sin dagli anni Cinquanta, e la sua diffusione internazionale diventa esponenziale. Il Fondo Calvino Tradotto (cfr. Gambaro 2002), conservato all’Istituto di Cultura Italiano di Parigi, conta circa cinquecento traduzioni e una trentina delle Città invisibili (che a oggi sono tradotte in 43 lingue e pubblicate in 49 paesi; cfr. Palermitano 2020; Baldi e Schwartz 2023). Non a caso, a partire dagli anni Novanta, ha scritto Francesca Serra, proprio questo libro è stato fatto «oggetto di largo consumo aforistico, da formula epigrafica buona per molti usi, talvolta anche troppo facili o impropri; a partire dal grande successo americano che Le città invisibili ebbero quando furono tradotte nel 1974» (Serra 2006, p. 329). Ma non è solamente l’uso ‘verbale’ a caratterizzare la ricezione di questo libro, negli ultimi due decenni, infatti, si sono moltiplicate in particolare le transcodificazioni: semplici lettori o lettrici e artisti di professione si sono cimentati con il tentativo di dare una forma visibile di quanto, per la sua stessa definizione, si sottrae allo sguardo. E non è un caso che proprio le Città si siano prestate a questo tipo di operazione: da tempo, infatti, la critica ne ha sottolineato il carattere ‘aperto’, che richiede a chi legge (incarnato nella figura di Kublai Kan nel testo; cfr. Piazza 2009, p. 181) di confrontarsi con «una matrice aperta di meta-ambientazioni, spazio-temporali, ma soprattutto psicologiche, che il lettore è indotto/sedotto a riempire a seconda del proprio paesaggio interiore, cioè degli stati d’animo, dei vissuti, dei desideri, dei ricordi e delle angosce, dei progetti e dei rimossi che lo abitano» (Lanzetti 2017, p. 16). Sono città-rebus (o città-allegorie) che nascondono una «“figura” da leggere» (Belpoliti 2006; di «allegoria» ha invece parlato Mengaldo 1980, p. 410). Sono testi-città, come ha sottolineato Gianni Canova nella presentazione alla mostra Città In/visibili (Milano, Triennale, 5 novembre 2002 - 9 marzo 2003), che hanno la capacità di creare forme e morfologie, e in questo modo Calvino si è fatto anche «precursore e cartografo delle trasformazioni urbanistiche in atto nella seconda metà del secolo scorso, anticipando con la sua visionarietà alcuni dei tratti peculiari e salienti delle città e delle metropoli contemporanee» (Barenghi, Canova, Falcetto 2002; la fortuna delle Città invisibili nei discorsi di urbanistica e architettura è confermata da un volume dello stesso anno della mostra dedicato proprio a Invisible Cities and the Urban Imagination, curato da Linder 2002).