1. L’opera di Calvino è sempre stata caratterizzata dallo sguardo sugli ambienti e sui paesaggi, osservati non solo dal punto di vista dei personaggi umani ma anche attraverso gli occhi delle altre creature. Queste sono spesso al centro della narrazione: possono rappresentarne il motivo centrale (come nella Formica argentina); oppure assumere la funzione di punctum nella storia (come il camoscio che osserva gli uomini e la natura nel finale di Mai nessuno degli uomini lo seppe, 1950), se non proprio di protagonisti o deuteragonisti (dall’ibrido proteiforme Qwfwq delle Cosmicomiche ai vari personaggi del ‘bestiario’ di Palomar, come il geco o il gorilla albino). È proprio in Palomar che viene illustrata la ragione fondamentale dell’interesse calviniano nei confronti del mondo animale: «per il signor Palomar […] la discrepanza tra il comportamento umano e il resto dell’universo è sempre stata fonte d’angoscia. Il fischio uguale dell’uomo e del merlo ecco gli appare come un ponte gettato sull’abisso» (Calvino 1994, p. 895). Non è un caso perciò che Calvino sia, con molta probabilità, lo scrittore italiano più studiato e interpretato alla luce dell’ecologia letteraria; il rapporto tra l’umano e la storia in relazione all’ambiente e alla natura è infatti un elemento strutturale costante e centrale nell’invenzione e nella riflessione calviniane (mi limito a citare, per l’attinenza con il tema di Teodora, Iovino 2023; per un inquadramento generale, mi permetto di rimandare a Scaffai 2017 e 2023).
In particolare, gli studi recenti tendono a mettere in evidenza i possibili punti d’incontro fra l’immaginario calviniano e quello riconducibile all’Antropocene, inteso come categoria culturale oltre che come termine scientifico. La parola definisce, in ambito geologico, l’epoca presente in cui l’ambiente terrestre risente dei profondi cambiamenti provocati dagli effetti dell’azione umana. A questa condizione corrisponde, sul piano della rappresentazione artistica e della elaborazione teorica (in ambito storico-sociale, filosofico, antropologico), una serie di temi e categorie: la coscienza del degrado dell’ambiente (riscaldamento globale, estinzione di massa, inquinamento, rifiuti) e l’ansia per la sua distruzione; il recupero di elementi archetipici, richiamati dal motivo antropologico dell’apocalissi; di conseguenza, la fusione tra il realismo e le forme legate all’espressione di un sapere dalle radici premoderne come l’epos, il mito, la ritualità. L’adozione di queste forme attira i modi del fantastico e dello ‘strano’ (weird, o new weird), cui si legano a loro volta due tendenze. La prima è la collocazione delle vicende in rapporto al cosiddetto ‘tempo profondo’ (si veda in particolare Macfarlane 2020, anche per l’esplicito riferimento a Le città invisibili) che include ma supera la storia umana proiettandola nella cronologia lunghissima di una memoria planetaria: potremmo anche chiamarla, con un titolo calviniano, La memoria del mondo. La seconda tendenza è la concezione dell’umano in termini di specie, in accordo con la crisi della prospettiva antropocentrica, che le conseguenze dell’impatto umano sull’ambiente rendono evidente; di qui anche l’importanza dell’animalità nella cultura contemporanea, ben coerente, come si è visto, con la tematica calviniana.
2. In effetti, molti di questi aspetti sono compatibili con temi e prospettive espresse da Calvino. Nei suoi articoli e saggi emerge infatti la diretta preoccupazione per l’impatto di fattori di dissesto ambientale come gli esperimenti atomici (considerati proprio dal punto di vista animale: si veda Le capre ci guardano, pubblicato nell’«Unità» il 17 novembre 1946) o per eventi catastrofici come le esalazioni tossiche di Seveso (Quando finirà questa estate di disastri?, «Corriere della Sera», 25 agosto 1976). Ma è specialmente nell’opera narrativa che si manifesta quel relativismo di ascendenza leopardiana (specialmente del Leopardi delle Operette) da cui dipende il pensiero ecologico di Calvino. Un’idea che traspare con chiarezza da una risposta data dallo scrittore nel corso di un’intervista del 1977. «Che c’entri tu – gli viene chiesto – che sei uno scrittore e un letterato, con l’ecologia?»; al che Calvino replica: «Ogni romanzo, ogni rappresentazione poetica è la costruzione di un mondo, cioè di un rapporto dei personaggi col paesaggio, con la civiltà, con la natura» (Calvino 2012, pp. 237-238).
Tra i suoi libri, quello che forse meglio corrisponde alla definizione – costruzione di un mondo, di un rapporto «col paesaggio, con la civiltà, con la natura» – è proprio Le città invisibili. Una lettura in senso ecologico, nell’accezione calviniana del termine, permette di liberare quell’opera dal recinto interpretativo in cui talvolta si tende a rinchiuderla, iscrivendola dentro il perimetro dell’astrazione geometrica, della variabilità controllata in base a schemi, sequenze, strutture. Sotto al disegno stilizzato si riconoscono la coscienza di una crisi antropologica e cognitiva (cfr. Modena 2011), e i segni di quella tensione ‘ecologica’ tra natura, storia, società che già emergevano in altri modi nelle opere di dieci o vent’anni prima.
Per esempio, chi percorre le strade della città di Cecilia, confondendole con la campagna, somiglia a Marcovaldo, che cercava la natura nella metropoli. Ad accomunare le novelle degli anni Cinquanta-Sessanta alla descrizione della città invisibile è spesso appunto l’esperienza di uno spazio ibrido e straniante, che con Clément 2005 chiameremmo ‘terzo paesaggio’. Per Gilles Clément, il terzo paesaggio include gli spazi che non sono più natura, ma che non sono nemmeno luoghi funzionalmente abitati e antropizzati; sono piuttosto territori marginali, che l’uomo ha disertato: le aree industriali dismesse, i margini delle periferie tra città e campagna, gli interstizi naturali entro il paesaggio urbano come le aiuole e i terreni vaghi, o «le erbe dello spartitraffico», ultime vestigia del «Prato della Salvia Bassa» ormai raggiunto e quasi del tutto cancellato dall’espansione urbana di Cecilia. Sono gli animali – le capre – non gli uomini a riconoscere la natura sommersa dalla città.
3. Ma cosa accadrebbe se l’essere umano sterminasse ogni altra specie, se rimuovesse ogni animale dalla città che abita e su cui esercita il suo dominio? L’immagine di quest’apocalisse animale precede di poco la fine delle Città invisibili; la penultima tra queste è infatti Teodora, il «grande cimitero del regno animale», soccombente davanti alla furia ordinatrice degli esseri umani:
A una a una le specie inconciliabili con la città dovettero soccombere e si estinsero. A furia di sbranare scaglie e carapaci, di svellere elitre e penne, gli uomini diedero a Teodora l’esclusiva immagine di città umana che ancora la distingue. Ma prima, per lunghi anni, restò incerto se la vittoria finale non sarebbe stata dell’ultima specie rimasta a contendere agli uomini il possesso della città: i topi. […] Finalmente, con un’estrema ecatombe, l’ingegno micidiale e versatile degli uomini l’ebbe vinta sulle soverchianti attitudini vitali dei nemici. La città, grande cimitero del regno animale, si richiuse asettica sulle ultime carogne seppellite con le ultime loro pulci e gli ultimi microbi. L’uomo aveva finalmente ristabilito l’ordine del mondo da lui stesso sconvolto: nessun'altra specie vivente esisteva per rimetterlo in forse. Per ricordo di quella che era stata la fauna, la biblioteca di Teodora avrebbe custodito nei suoi scaffali i tomi di Buffon e di Linneo. Così almeno gli abitanti di Teodora credevano, lontani dal supporre che una fauna dimenticata si stava risvegliando dal letargo. Relegata per lunghe ere in nascondigli appartati, da quando era stata spodestata dal sistema delle specie ora estinte, l’altra fauna tornava alla luce dagli scantinati della biblioteca dove si conservano gli incunaboli, spiccava salti dai capitelli e dai pluviali, s’appollaiava al capezzale dei dormienti. Le sfingi, i grifi, le chimere, i draghi, gli ircocervi, le arpie, le idre, i liocorni, i basilischi riprendevano possesso della loro città. (CI, pp. 492-493)
Non c’è trionfo della regola e della razionalità senza un «ritorno del represso» (Orlando 1973 e 2017), che nel racconto assume le forme degli animali mitici, degli ibridi soprannaturali delle leggende e dell’epos; mostri di un passato assoluto e rimosso, riemersi per popolare lo spazio e il tempo di un’umanità che ha rotto l’equilibrio tra società, storia e natura. «Chi sono gli animali che compaiono nei nostri sogni – ha scritto James Hillman – e perché vengono a noi, proprio a noi che abbiamo trascorso gli ultimi due secoli a sterminarli regolarmente, a un ritmo sempre più rapido, senza pietà, specie per specie in ogni parte del mondo?» (Hillman 2016, p. 11). Quelle presenze emergono dalla profondità nella quale erano state relegate, di cui la biblioteca è figura emblematica. Lo mette bene in luce l’immagine di Teodora restituita da Pedro Cano [fig. 1] nella serie famosa che ha dedicato alle Città invisibili. I tomi ingialliti, scoloranti, sugli scaffali che sembrano sfumare come nebbia o sgranarsi come sabbia, rendono tangibile il rimosso culturale che i libri esprimono; nella biblioteca-reliquiario di Cano, il libro si materializza come «oggetto desueto» (Orlando 1993) e nel contempo quasi si smaterializza, lasciando che dall’antifunzionalità della carta consumata emergano creature senza tempo e quasi oniriche, manifestazioni di quella biologia arcaica che ha sempre alimentato i bestiari fantastici: un’iguana, un serpente, un insetto che appare gigantesco nella proporzione del quadro. I trattati dei naturalisti citati da Calvino (Linneo, Buffon) troveranno posto tra i volumi di quella biblioteca dimenticata. La rappresentazione di Pedro Cano non ce li fa immaginare solo come esempi di una scienza antiquata; collocando gli animali insieme ai libri, degli stessi colori e consistenza come se fossero fatti della medesima materia, ci fa pensare a quelle creature come specie letteralmente fuoriuscite dalle maglie tassonomiche in cui la ragione moderna aveva tentato di contenerle, isolarle, rimuoverle dalla viva interazione con gli esseri umani e la loro storia.
Fin dagli anni Cinquanta, come si è visto, Calvino giudicava invece necessaria la corrispondenza tra società e natura. Ora il ritorno degli animali fantastici prefigura il caos che il troppo ordine aveva cercato di scongiurare, anticipa il magma dell’indistinzione di cui gli ibridi sono manifestazioni fiabesche, sì, ma inquietanti. È possibile istituire un parallelo con l’immaginario fantastico di Calvino, con il bestiario favoloso degli amati poemi cavallereschi e delle stesse novelle cosmicomiche; o perfino con la ‘fantabiologia’, neologismo che Calvino stesso aveva coniato per definire, negli anni Sessanta, le Storie naturali di Primo Levi, in cui strane creature evocatrici del mito, come i centauri, sono figure paradossali o dolenti del rapporto alterato, corrotto, tra la scienza e la società, e tra questa e la natura. È noto, peraltro, come proprio le storie di Levi abbiano contribuito all’immaginario cosmicomico che negli stessi anni Calvino stava elaborando. Per Teodora potrebbe valere la medesima frase che Primo Levi, parlando dei propri racconti, riprende da una famosa incisione di Goya: «Il sonno della ragione genera mostri». Il sonno, o meglio l’eccesso, il parossismo della ragione trasformata in meccanismo di controllo e distruzione, in cui sfocia, per Horkheimer e Adorno, la «dialettica dell’illuminismo». L’epifania del rimosso che Teodora mette in scena può essere perciò interpretata anche come allusione ai modi narrativi assunti e superati dallo scrittore, tracce latenti di un’orbita narrativa già attraversata, che tentano di forzare le maglie in cui la struttura delle Città invisibili ha ordinato le immagini delle città fantastiche.
4. Frutto anche di una riflessione sul pensiero utopico, frequentato da Calvino sia come autore sia come editore, la serie d’invenzioni da cui il libro è formato produce proprio l’effetto di un’utopia fallita e rovesciata nel suo opposto, la distopia. È così che figure e condizioni intrinsecamente calviniane possono anticipare temi e codici diffusi nell’immaginario dell’Antropocene, unendo per esempio il motivo dell’invasione di specie ‘aliene’ (sperimentato da Calvino già nella Formica argentina) con il risvolto fantastico (cfr. Meschiari 2020), con la rappresentazione di un tempo assoluto in cui il passato archetipico e il futuro catastrofico convergono e si rispecchiano l’uno nell’altro. Accade spesso, infatti, nelle narrazioni distopiche, postapocalittiche, nelle rappresentazioni di un mondo in cui una catastrofe o un contagio hanno annientato la specie umana, che la Natura riprenda il sopravvento: può essere un’apocalisse selvaggia, come nella Peste scarlatta di Jack London o addirittura ‘edenica’ e in un certo senso ‘vuota’ (come in Dissipatio H.G.) di Morselli. È un immaginario che è stato spesso evocato nelle cronache del nostro tempo, che ci mettono sotto gli occhi scenari simili: per esempio, il ritorno della natura intorno a Chernobyl; o più domesticamente l’apparizione di animali selvatici per le strade delle nostre città deserte a causa della pandemia. È stata data a volte una lettura euforico-ingenua di quelle immagini naturali, che ci colpiscono per l’effetto straniante che suscitano. È anche per questa via che gli animali meravigliosi di Teodora raggiungono l’immaginario contemporaneo, come sintetizza l’elaborazione grafica di Studio9mq [fig. 2]. Al centro della striscia in bianco e nero si profila in lontananza uno skyline contemporaneo; i grattacieli fanno pensare a una città calviniana come New York, evocata anche dal motivo della minaccia distruttiva che incombe dall’alto: la Teodora di questa illustrazione è insomma una metropoli su cui sembrano gravare oggi, ai nostri occhi, l’ansia e l’immaginario post-11 settembre. Il pericolo nel cielo, tuttavia, non è rappresentato da un emblema della modernità come il jet, bensì dalla creatura del mito, il drago, che popola l’immaginario fantasy e torna in forma di mostro post-atomico nella tradizione del manga a cui il disegno si ispira. Altre figure mitologiche (una sorta di idra, un unicorno) e umane (un personaggio maschile sul margine destro, due occhi femminili che si sovrappongono allo sfondo del cielo) completano il quadro. Ma il tratto più marcato sono le linee e le macchie nere da cui emergono le forme animali e i contorni dello spazio, quasi a evocare il filo d’inchiostro che nel finale del Barone rampante lega il paesaggio alla scrittura.
Il tema fantastico, declinato nei modi distopici dell’immaginario contemporaneo, è quello che risalta con più evidenza anche nelle illustrazioni create dall’intelligenza artificiale, prodotte come esperimento proprio per corredare questo articolo su Teodora [fig. 3]. L’opera dell’autore di Cibernetica e fantasmi, del resto, si presta a questo tipo di esercizio e confronto (cfr. Prencipe, Sideri 2023). Dal testo calviniano, fornito al software, il sistema ha ricavato in genere (sono state fatte numerose prove di elaborazione) quadri fortemente suggestionati dagli scenari fantasy. In altri casi, prevale il motivo della profondità [fig. 4-5], che è tra i paradigmi dell’immaginario culturale dell’Antropocene (cfr. Menely, Taylor 2017): i sotterranei della biblioteca descritti da Calvino diventano un’inquietante cavità popolata da animali weird e figure mostruose, tra Borges e Lovecraft. Alla polarizzazione dello spazio tra superficie e sottosuolo corrispondono, in modo inevitabilmente più rigido di quanto non avvenga nel testo di Calvino, quella fra civiltà e ordine versus natura e caos.
5. Nelle immagini delle nostre città in tempo di pandemia, e nei commenti e interpretazioni che ne sono stati dati sembra esserci alla base anche un’idea di riscatto del naturale sull’umano, dunque implicitamente di ‘colpa’ dell’uomo da espiare attraverso un ritorno allo stato di natura (cfr. Givone 2012). Un’analoga relazione tra colpa e condanna emerge anche in Teodora: la hybris dei suoi abitanti è sopraffatta dal ritorno di antichi mostri, materializzazioni di quel timore arcaico nei confronti della natura selvaggia che i cittadini hanno invano cercato di esorcizzare estirpandola. Teodora è dunque, sì, una città distopica ma è insieme uno spazio mentale, come suggerisce la manifestazione di «presenze animali» oniriche, meravigliose. Oggi, scrive ancora Hillman 2016, p. 77, l’«animale del sogno compensa una condizione umana troppo razionalizzata e snaturalizzata».
Nonostante il rilievo simbolico, Teodora è infine anche figura di altre città reali e visibili, di altri ambienti sociali e naturali invivibili o irriconoscibili, che Calvino ha reso materia di racconto e riflessione nell’arco dell’intera sua vita di scrittore, anche oltre la pubblicazione di quello che resterà uno dei suoi libri più famosi e influenti anche in ambito non letterario: nell’architettura e nell’urbanistica, dallo studio del paesaggio alle scienze ambientali. Dieci anni dopo l’uscita delle Città invisibili, per esempio, intervistato da Alberto Sinigaglia che gli chiede quale ruolo potrà avere la natura nella città contemporanea, Calvino risponde:
C’è un elemento naturale in grande espansione, sul quale possiamo certamente far conto, e sono i topi; i topi aumentano sempre, perché tutte le campagne di derattizzazione non fanno che selezionare razze di topi più resistenti ai nuovi veleni, più intelligenti, e che si propagano con una velocità tale che nessuna forma di lotta sarà possibile. Quindi dovremo certamente mettere nel conto che le città saranno popolate da queste masse enormi di topi che usciranno alla luce del giorno dalle cantine, dai sotterranei, dai tombini, e si mescoleranno alla vita cittadina, ne saranno l’elemento naturale più caratteristico. (Calvino 1995, p. 2866)
Si direbbe che l’immagine di Teodora, rielaborazione straniante dei caratteri di una città invivibile del secondo Novecento, abbia finito per ‘impressionare’ lo sguardo dello stesso Calvino, che proietta ora la distopia nella realtà urbana che osserva e in cui si cala. L’invasione dei topi sarà un trionfo della natura? È lecito dubitarne, a giudicare dall’immagine che lo scrittore qui dipinge. D’altra parte, quale alternativa ci sarà, se non la lotta, lo sterminio, una nuova e più sconcertante invasione? Vale la pena ricordare quanto aveva detto Calvino nell’intervista del 1977, a proposito del «rapporto dei personaggi col paesaggio, con la civiltà, con la natura»: quando uno di quegli elementi viene meno – i personaggi umani, la storia e la civiltà, il paesaggio e la natura – gli altri proliferano, diventano una specie invasiva che satura lo spazio dell’immaginario e soffoca l’ecosistema del racconto.
Le città invisibili sono anche in questo senso un libro apocalittico, perché segnano il limite di un’invenzione che ha finito per mutare l’euforia seriale e combinatoria del racconto calviniano nella disforia dell’«inferno dei viventi», di cui fanno parte anche gli animali di Teodora.
Bibliografia
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