1.1.Zaira, dalla città mentale alla città reale

di

     
Categorie



 

 
Le superfici richiedono di essere osservate con attenzione: occorre seguirne la venatura o la fattura, esaminarle, magari tastarle, verificarne la resistenza o scivolarci sopra. Descriverle è un’arte, in ogni caso un duro lavoro. […] La superficie è la prima che incontriamo. Non possiamo eluderla (Schlögel 2009, pp. 111-112).

Così scrive lo storico tedesco Karl Schlögel in un paragrafo del suo libro Leggere il tempo nello spazio (Il selciato del marciapiede. Superfici, geroglifici). L’estratto citato propone un particolare esercizio di lettura topografica rivolto a quello spazio anonimo e di transito che sono i marciapiedi cittadini, considerati come indicatori affidabili dello stato delle stesse, ma applicabile a tutti gli elementi che compongono il paesaggio urbano in quanto «geroglifici della cultura umana» (ivi, p. 113). Il discorso di Schlögel ricorda sotto più aspetti una idea di città che Calvino esprime diffusamente nei suoi testi, sia in alcune delle Città invisibili (soprattutto nelle due rubriche dedicate ai segni e alla memoria), sia nella bellissima raccolta Collezione di sabbia (1984), le cui pagine – come sostiene Pier Vincenzo Mengaldo nella postfazione – «sono insieme prosecuzione e commento ottimale della summa narrativa sull’argomento» (Mengaldo 1984, p. 282), Le città invisibili, appunto.

Diomira, Isidora, Zaira, Zora e Maurilia sono le cinque città della memoria, ognuna di esse identifica un aspetto della relazione tra le due componenti: Zaira rappresenta la città come luogo di interpretazione, palinsesto mnemonico, spazio scritto in un alfabeto di gesti, avvenimenti, ricordi di ‘vite minuscole’ e di uomini illustri, impressi nelle cose.

Calvino, in un saggio intitolato La città scritta: epigrafi e graffiti (1980), riflettendo a partire da uno studio di Armando Petrucci (La scrittura fra ideologia e rappresentazione) ma distanziandosi dalle posizioni del paleografo, giudica negativamente la pratica di scrivere sui muri:

 

La parola sui muri è una parola imposta dalla volontà di qualcuno, si situi egli in alto o in basso, imposta allo sguardo di tutti gli altri che non possono fare a meno di vederla o recepirla. La città è sempre trasmissione di messaggi, è sempre discorso, ma altro è se questo discorso devi interpretarlo tu, tradurlo in pensieri e in parole, altro se queste parole ti sono imposte senza via di scampo. […] La città ideale è quella su cui aleggia un pulviscolo di scrittura che non si sedimenta né si calcifica (Calvino 1995, pp. 510-511).

Al di là delle questioni specifiche che quell’articolo sollevava, ciò che è interessante ai nostri fini è lo sguardo di Calvino sulla città, uno sguardo semiotico, alla ricerca del ‘discorso delle cose’, non però quello esplicito, bensì quello invisibile anche se epidermico, non quello che si impone, assertivo e circoscritto, bensì quello che invita alla decifrazione, dilatando lo spazio e i suoi significati. Immaginare Zaira, imbevuta di ricordi «come una spugna», diventa anche un’occasione per rinterrogarsi sulle possibilità e i nodi problematici del descrivere, altra ossessione calviniana:

 

una descrizione di Zaira quale è oggi dovrebbe contenere tutto il passato di Zaira. Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee di una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole (CI, p. 365).

È la dialettica tra superficie e profondità a guidarne la composizione e l’interpretazione, conducendo attraverso le tracce del visibile al non-più-visibile. Zaira è l’inverso di Zora, il suo contrappunto: quest’ultima è la città della memoria immateriale, essa mostra il modo in cui l’esterno, le cose, si imprimono nel pensiero, enciclopedicamente, permettendone la conoscenza; a Zora tutto è classificato, fatti e oggetti sono ordinati secondo un «nesso di affinità o di contrasto» che ne fa somigliare la struttura a quella degli antichi schemata per la memorizzazione. Ciò che compone Zaira, invece, esiste e si trasforma: le cose vi sono accumulate e sovrapposte. Zaira è la memoria disordinata del tempo vissuto e perciò inclassificabile.

Come descrivere, allora, la profondità delle superfici di Zaira? Come aggirare l’ostacolo del linguaggio di dire il tempo (passato) contenuto nello spazio (presente)? In che modo, dunque, riferire delle «relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato»? Quando Calvino crea, descrivendola, Zaira lascia che i suoi «occhi interiori» corrano «avanti e indietro tra le cose sparpagliate nella memoria» (Belpoliti 2023, p. 470), sparpagliate eppure tutte legate tra loro da nessi invisibili:

 

la distanza dal suolo d’un lampione e i piedi penzolanti d’un usurpatore impiccato; il filo teso dal lampione alla ringhiera di fronte e i festoni che impavesano il percorso del corteo nuziale della regina; l’altezza di quella ringhiera e il salto dell’adultero che scavalca all’alba; l’inclinazione d’una grondaia e l’incedervi d’un gatto che s’infila nella stessa finestra; la linea di tiro della nave cannoniera apparsa all’improvviso dietro il capo e la bomba che distrugge la grondaia; gli strappi delle reti da pesca e i tre vecchi che seduti sul molo a rammendare le reti si raccontano per la centesima volta la storia della cannoniera dell’usurpatore, che si dice fosse un figlio adulterino della regina, abbandonato in fasce lì sul molo (CI, p. 365).

Questo breve contributo intende guardare ad alcune forme di reinterpretazione della città calviniana di Zaira entro l’immaginario visuale contemporaneo, proponendo un’escursione mediale che dalla più tradizionale forma illustrata giunge alla fotografia e al cinema, toccando, per vie secondarie, l’architettura e l’urbanistica. La scelta di un confronto declinato in chiave transmediale (cfr. Rajewsky 2018) è dipesa sia dalla constatazione dell’influenza de Le città invisibili su una visualità ormai polimorfica ed espansa, non limitabile alle forme artistiche tradizionali, sia dal riconoscimento di una progressiva (quanto solo apparente) emancipazione delle opere derivate rispetto al loro referente testuale in direzione di un ri-congiungimento tra la città immaginata e quella reale. Questo attraversamento ha inoltre suggerito il paragone tra le ‘risposte’ e le possibilità, tecniche e poetiche, proprie dei diversi media posti di fronte alla sfida di trasformare in immagini, statiche o in movimento, quelle «relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato», in cui l’ousia di Zaira risiede.

Karina Puente è architetto, illustratrice e ceramista peruviana, lavora a Lima ed è autrice di un progetto grafico dedicato a tutte e 55 le città invisibili descritte da Calvino, dal titolo [In]visibles Cities. Le illustrazioni sono realizzate con media misti, in tricromia, bianco nero e oro e non prevedono l’accompagnamento del testo o di frammenti dello stesso, soltanto un titolo corrispondente al nome della città ritratta. Nella visione di Puente le immagini saturano lo spazio della tavola alla maniera delle carpet pages degli antichi manoscritti miniati, riscrivendo la parola calviniana attraverso un linearismo decorativo e ricercatamente naïf. Zaira [fig. 1] viene rappresentata per mezzo della reiterazione di un motivo unico, solo leggermente variato, che richiama la trama di un tessuto (o perché no, una rete neurale), nel quale ogni nucleo è organicamente legato all’altro, senza gerarchie. Questi ‘centri’ che hanno forma di piccoli edifici sono distribuiti sulla pagina in sequenze polisindetiche e mi pare visualizzino anche un preciso passo calviniano leggibile in Ipotesi di descrizione di un paesaggio:

 

Anche se adesso che sono seduto qui a scrivere sembro fermo, sono gli occhi a muoversi […] gli occhi interiori che anche loro corrono avanti e indietro tra le cose sparpagliate nella memoria, e cercano di dare loro una successione, di tracciare una linea tra i punti discontinui che la memoria conserva isolati, strappati dalla vera esperienza dello spazio; devo ricostruire una continuità che si è cancellata nella memoria con l’orma dei miei passi o delle ruote che mi portavano lungo percorsi compiuti una volta o centinaia di volte (Belpoliti 2023, p. 470).

 

L’artista nelle sue trasposizioni non mira alla ‘traduzione’ della lettera del testo (quasi impossibile per via del grado di rarefazione della scrittura calviniana) quanto alla resa della loro dimensione concettuale. L’immagine realizzata per Zaira mima, a mio avviso, anche la strategia descrittiva usata da Calvino: l’elencazione paratattica di ciò che compone la città (i gesti di uomini e donne, le scale, i corrimano, gli archi, le grondaie, le finestre) lascia il posto al tentativo di mettere in figura l’invisibile, ovvero quelle già citate «relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato». La profondità della dimensione temporale è tradotta in termini sincronici dalle linee di congiunzione che si dipartono molteplici da ognuno degli edifici collegandoli, ‘aprendoli’, dilatandoli, («di quest’onda che rifluisce dai ricordi la città si imbeve come una spugna e si dilata»): Zaira rappresenta non una città reale né una città immaginata, essa incarna la memoria di ogni città, il suo essere un contenitore di tempo vissuto, uno spazio organico.

Un progetto che interseca architettura e fotografia, spazio reale e spazio ri-creato dall’arte, è quello di Moreno Maggi [fig. 2], Omaggio alle Città Invisibili. Ritratti di architetture. Si tratta di un lavoro che nasce dall’incontro tra il fotografo e Diana Alessandrini, curatrice del video, delle esposizioni e del catalogo. Nello scritto introduttivo che apre quest’ultimo viene raccontata la genesi di questo Omaggio: le immagini scattate dal fotografo – racconta Alessandrini

 

erano il risultato di un paziente lavoro di sovrapposizione e incastro delle sue innumerevoli fotografie, scattate a un’opera precisa. Una sorta di smontaggio/scomposizione – come lui stesso ama dire – in dettagli/brandelli del costruito poi rimontato non necessariamente nello stesso ordine. Chi lo conosce sa che Moreno Maggi immortala l’opera per una giornata intera, amando ritrarla in tutte le condizioni di luce possibile, fino a trovare la migliore (Alessandrini 2013, p. 6).

La specificità del progetto consiste nel suo essere una illustrazione a posteriori del testo calviniano: di fatti Maggi al momento della realizzazione delle fotografie non aveva in mente di riferirsi alle Città invisibili e sarà la curatrice, successivamente, a istituire il legame tra opera e opera, definendo le tavole come «illustrazione inconsapevole» e individuando i nessi specifici tra le immagini e i testi. Il primo esito di questo incontro è stato un video della durata di 12 minuti (visibile su Youtube ) che ha aperto la Sezione Architettura della rassegna In viaggio con Calvino tenutasi presso la Casa dell’Architettura di Roma il 13 giugno 2013, cui sono seguite una serie di altre occasioni espositive, come quella al MAXXI Architettura, di premi, e di nuove iniziative.

Le fotografie hanno per soggetto opere architettoniche realizzate da importanti progettisti coi quali Maggi ha lavorato e lavora: dalla Nuova Fiera di Milano e Nuvola di Doriana e Massimiliano Fuksas al MAXXI di Roma a firma di Zaha Hadid, dal Museo dell’Ara Pacis di Richard Meier alla stazione Tiburtina di Paolo Desideri (ABDR), sulla quale mi soffermerò per via dell’accostamento tra la sua rilettura fotografica e la città di Zaira. È interessante ricordare che le foto – come racconta il loro autore – nascono per essere dei ritratti, i ritratti degli architetti realizzati attraverso le immagini delle loro creazioni e, dunque, delle loro poetiche, una doppia vocazione (omaggio e ritratto) che il sottotitolo vuole tenere presente. La riflessione di Maggi tocca anche questioni linguistiche, egli pone infatti l’accento sul

 

passaggio che oggi si è operato nella fotografia, da mezzo descrittivo a mezzo di comunicazione della realtà sempre più dilagante. Una realtà che però viene bidimensionalizzata, in qualche modo ingannando lo spettatore. Le mie composizioni, un po’ come la pittura cubista, vogliono suggerire altre dimensioni possibili fino a ricostruire l’ordine primigenio (Alessandrini 2013, p. 7).

Può apparire certamente inusuale l’instaurazione di un nesso tra la città calviniana di Zaira e la stazione Tiburtina di Roma, progettata dallo studio ABDR, il cui capogruppo è l’architetto Paolo Desideri, autore anche di un breve scritto all’interno del libro-catalogo dedicato al lavoro di Maggi. Desideri riconosce al fotografo la capacità di creare con le immagini un commento «al testo spaziale» (Desideri 2013, p. 9) che è l’edificio; tuttavia, nel caso dell’Omaggio alle Città Invisibili a suo parere avviene qualcosa di più: le architetture fotografate diventano i «plastici strumenti della sua libera scrittura» (ibidem), poiché egli le ritaglia, le scompone, le rimonta fino a farle diventare altro. La foto che ‘illustra’ Zaira, tanto nel video quanto nel catalogo, è associata ad un passo preciso del testo:

 

…Zaira non dice il suo passato,
lo contiene come le linee d’una mano,
scritto negli spigoli delle vie,
nelle griglie delle finestre,
negli scorrimano delle scale…

 

L’immagine mostra un montaggio in stile cubista della Nuova Stazione Tiburtina. Il passaggio dall’edificio reale al medium fotografico produce una inevitabile negazione della tridimensionalità, tuttavia, abdicando alla resa di una profondità realistica dello spazio Maggi ricerca, tramite gli artifici della post-produzione, la profondità del tempo. Al di là della sovrimpressione, utilizzata anche per le altre foto, l’elemento verbale concorre a provocare questo ispessimento: a essere ripresi sono alcuni frammenti dei discorsi pronunciati da Camillo Benso di Cavour su Roma capitale e sulle “Strade ferrate d’Italia”, incisi sull’installazione commemorativa situata in uno dei due atrii. Resta comunque da interpretare la scelta dell’accostamento tra i vari altri possibili e, forse, anche più ovvi. Se accettiamo la traccia ermeneutica proposta, che intende Zaira come emblema della città in quanto sistema di relazioni, spazio di sedimentazione della memoria disordinata del tempo vissuto, contenitore di gesti e di esistenze che si imprimono «negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere», la correlazione potrà forse apparirci più chiara. I progettisti, senza entrare nello specifico tecnico, hanno pensato la Nuova Stazione come generatrice di «una nuova centralità urbana», «capace di connettere due quartieri, Nomentano e Pietralata» (Delucchi 2012, pp. 110-111), trasformando un luogo di mero transito in un moderno boulevard cittadino. Non solo un’infrastruttura dunque, un non-luogo urbano, ma uno spazio di raccordo con un radicamento nel paesaggio che conservi anche la memoria del passato della città proiettandosi al contempo nel futuro attraverso soluzioni tecnologiche innovative.

In questa progressione dalla città mentale e scritta di Calvino siamo passati a quella disegnata e immaginata da Puente e poi, attraverso la fotografia di Maggi, a quella scomposta ma reale, per arrivare infine a quella che, pur non possedendo nessun esplicito riferimento a Zaira, ritengo ne intercetti al meglio l’aspetto fondamentale, qualificandosi come una sua possibile espansione visuale.

Sacro Gra (2013) [fig. 3] è la docu-fiction di Gianfranco Rosi vincitore del Leone d’Oro alla settantesima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Ma, prima ancora, «Sacro Gra è un laboratorio di narrazione della Roma contemporanea» che comprende il suddetto film, un libro che ha per autori Nicolò Bassetti e Sapo Matteucci (Quodlibet Humboldt 2013), e una mostra (si veda il sito http://www.sacrogra.it). L’insieme del progetto, ideato e curato da Nicolò Bassetti con Nuovi Paesaggi Urbani, è dedicato al Grande Raccordo Anulare e ai territori che lo costeggiano e prende avvio da un viaggio reale compiuto a piedi dall’architetto paesaggista, il quale successivamente coinvolgerà Rosi nella realizzazione del film. Nelle note di regia, in parte pubblicate sul sito che racconta dell’intera iniziativa, Rosi dichiara:

 

Mentre cercavo le location del film portavo con me Le città invisibili di Calvino. Il tema del libro è il viaggio, inteso per me come relazione che unisce un luogo ai suoi abitanti, nei desideri e nella confusione che ci provoca una vita in città e che noi finiamo per fare nostra, subendola. Il libro percorre strade opposte, si lascia trascinare da una serie di stati mentali che si succedono, si accavallano. Ha una struttura complessa e il lettore la può rimontare a seconda dei suoi stati d’animo, delle circostanze della sua vita, come è successo a me. Questa guida mi è stata di stimolo nei tanti mesi di lavorazione del film, quando il vero GRA sembrava sfuggirmi, più invisibile che mai (http://www.sacrogra.it/progetto).

 

Tra le mani di Rosi Le città invisibili diventano il Baedeker di una topografia reale e immaginaria, traccia innanzitutto strutturale da tradurre nel proprio linguaggio filmico, dilatando la descrizione in racconto. Sacro Gra ricalca l’architettura del libro in quanto è anch’essa una narrazione a cornice la cui unità è garantita dai 68 kilometri lungo i quali il Raccordo si estende e lungo i quali si succedono gli episodi di queste vite minuscole e poetiche, disposti, anche questi, secondo una sequenzialità paratattica. Il regista, è vero, non ha fatto precisi riferimenti a nessuna delle 55 città calviniane (o quanto meno non esplicitamente); tuttavia, mi sembra che ci siano elementi validi per leggere il film come una sorta di sviluppo visuale e narrativo di Zaira e dei suoi significati: il dilatarsi della enumerazione calviniana degli elementi urbani antropizzati in vere e proprie tranches de vie e il tentativo di distendere sincronicamente lo stratificarsi delle temporalità, «come nelle linee d’una mano» o in quelle della mappa stradale usata come locandina per il film. «La terra del Raccordo» - si legge nel Prologo del libro

 

vive in una rifrazione di epoche, che non permette ad alcuna formula di esprimerla compiutamente […] un intreccio di deperimento e riciclo dei materiali. E anche in virtù di una bizzarra energia che si sprigiona da un’inversione del flusso temporale, rendendo oggetti, merci, rovine un interminabile campionario di ex voto adolescenziali e reliquari del futuro.
Lo strano connubio tra ciò che deperisce e ciò che rinasce è una delle chiavi di questo continuo rimescolamento di tempi e spazi (Bassetti, Matteucci 2013, pp. 16-17).

 

Un botanico-filosofo [fig. 4], un nobile decaduto e la figlia laureanda, un barelliere del 118, un pescatore d’anguille e sua moglie, un autore di fotoromanzi, sono tra i protagonisti e le protagoniste dei singoli quadri, frammenti di vite che ci è dato conoscere solo al tempo presente, il tempo di un giro intorno al Raccordo.

Nel mediometraggio Tanti futuri possibili. Omaggio a Renato Nicolini (2012) girato da Rosi nel corso dei suoi sopralluoghi per Sacro Gra, l’architetto, ripreso durante un giro in mini-van sul Raccordo, duchampiana «macchina celibe» (Nicolini 2013, p. 244), si abbandona ad una flânerie psicogeografica ricca di suggestioni. Tra queste una riguarda proprio l’idea dello spazio come contenitore di differenti livelli temporali. Nicolini immagina che il Gra abbia introiettato dalla città di Roma questa capacità, e tuttavia, non avendo il Raccordo una Storia – sostiene – deve sicuramente contenere piani temporali futuri, ovvero i tanti futuri possibili del titolo (Video Rai.TV - Rai Movie - Tanti futuri possibili - Omaggio a Renato Nicolini, min. 30, sec. 49).

Non si tratta più, allora, di trasporre visivamente Le città invisibili ma di capovolgere di segno la questione e considerare come esse, singolarmente o tutte insieme, abbiano e possano ancora servire quali strumenti concettuali per l’interpretazione e la rappresentazione dei luoghi esistenti e dei loro significati. È «nei tanti spazi bianchi che a loro volta danno spazio all’immaginazione» (Baldi 2015), negli interstizi vuoti che lasciano libero l’occhio-mente di vedere e pensare, che nascono altre città possibili, mentali e reali. Proprio la virtualità di una scrittura a basso tasso visivo ha garantito alle città invisibili «il loro successo, la loro produttività multiforme nei cervelli di artisti e urbanisti» (Baldi 2015; cfr. Petronella 2021) e leggerle, come andare sul GRA, «vuol dire galleggiare su un eterno trapasso, non sapere mai esattamente dove si è, se non nelle spore del possibile» (Bassetti, Matteucci 2013, p. 17).

 

 

Bibliografia

 

I. Calvino, Collezione di sabbia [1984], in Id., Saggi. 1945-1985, 2 voll., a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, I, 1995, pp. 410-625.

I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio [1985], in Id., Saggi. 1945-1985, I, pp. 630-753.

A. Petronella, ‘Dalle città invisibili alle città visibili. Italo Calvino sulla frontiera degli Urban Studies’, in Letteratura e Scienze, Atti delle sessioni parallele del XXIII Congresso dell’ADI, Pisa, 12-14 settembre 2019, a cura di A. Casadei, F. Fedi, A. Nacinovich, A. Torre, Roma, Adi, 2021, pp. 1-5.

E. Baldi, ‘Citare Calvino. Le città invisibili e gli architetti’, Doppiozero, 14 settembre 2015, <https://www.doppiozero.com/citare-calvino-le-citta-invisibili-e-gli-architetti> [accessed 10/10/2023].

F. Delucchi, Nuove Stazioni AV. Roma Tiburtina, «Strade & Costruzioni», febbraio 2012, pp. 109-115.

I. Rajewsky, ‘Percorsi transmediali. Appunti sul potenziale euristico della transmedialità nel campo delle letterature comparate’, Between, vol. VIII, n. 16, novembre 2018, pp. 1-30.

K. Shlögel, Leggere il tempo nello spazio. Saggi di storia e geopolitica [2003], trad. it. L. Scarpa, R. G. Wiener, Milano, Mondadori, 2009.

L. Sympa, ‘Stazione Tibutina, Roma – Studio ABDR’, Arketipo, 17 gennaio 2013, <https://www.arketipomagazine.it/stazione-tiburtina-roma-studio-abdr/ > [accessed 10/10/2023].

M. Belpoliti (a cura di), Guardare. Disegno, cinema, fotografia, arte, paesaggio, visioni e collezioni, Milano, Mondadori, 2023

M. Belpoliti, L’occhio di Calvino. Nuova edizione ampliata, Torino, Einaudi, 2006.

M. Maggi, Omaggio alle Città Invisibili. Ritratti di architetture, Roma, Palombi, 2013.

N. Bassetti, S. Matteucci, Sacro Romano Gra. Persone, luoghi, paesaggi lungo il Grande Raccordo Anulare, Macerata, Quodlibet Humboldt, 2013.

 

Sitografia

http://www.abdr.it/progetti/progetto/stazione-roma-tiburtina

https://karinapuente.com/

https://morenomaggi.com/portfolio/cities/

https://www.youtube.com/watch?v=sIwaK5XTCaY

http://www.sacrogra.it/

Video Rai.TV - Rai Movie - Tanti futuri possibili - Omaggio a Renato Nicolini