4.2. Ottavia, la «città-ragnatela» tra testo, immagine e architettura

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Più espressamente che per altre Città invisibili, a Ottavia, la «città-ragnatela», Marco Polo premette la condizione del patto di fiducia, una netta sospensione dell’incredulità: «se volete credermi, bene» (CI, p. 421). Calvino la colloca tra Lalage ed Ersilia: da una parte, la città sognata dal Kan a cui la luna ha concesso il privilegio di «crescere in leggerezza» (ivi, p. 420); dall’altra, la città in cui gli abitanti tessono «ragnatele di rapporti intricati» (ivi, p. 422) con fili tesi tra gli spigoli delle case. Appesa nel baratro tra due montagne scoscese, la città sottile Ottavia è sospesa sul vuoto, a centinaia e centinaia di metri d’altezza, «legata alle due creste con funi e catene e passerelle» (ivi, p. 421). Il fondo s’intravvede appena, spiraglio lontano tra le nuvole. Gli abitanti camminano con cautela tra trasparenze, traversine di legno e maglie di canapa, incessantemente consapevoli del burrone sottostante.

Il piano su cui si forma il tessuto urbano di un insediamento è sempre il livello del passaggio: da lì, elevandosi in verticale, si forma la città. A Ottavia, lo sviluppo è antitetico, e il nucleo abitativo è appeso sotto:


 

scale di corda, amache, case fatte a sacco, attaccapanni, terrazzi come navicelle, otri d’acqua, becchi del gas, girarrosti, cesti appesi a spaghi, montacarichi, docce, trapezi e anelli per i giochi, teleferiche, lampadari, vasi con piante dal fogliame pendulo (ibidem).

 

È il luogo della sospensione, della fragilità, della relazione fra il tutto, e soprattutto della precarietà esplicita: «sospesa sull’abisso, la vita degli abitanti d’Ottavia è meno incerta che in altre città. Sanno che più di tanto la rete non regge» (ibidem).

Così Polo descrive Ottavia, consegnando all’immaginario mondiale una delle icone letterarie più rappresentabili e allo stesso tempo metaforizzabili del Novecento: dal 1972 in avanti, l’immagine di una città che pende – e dipende – da una installazione aerea, a ragnatela, librata e oscillante tra due montagne, si presta naturalmente ad allegoria di un sistema fragile che si debba mantenere in equilibrio, che sia un insieme di dipendenze e legami interpersonali, una struttura socio-economica, una metafora della rete come funzionamento e luogo dell’abitare, e così via. In anni più recenti, l’approccio complesso dell’ecologia integrale alla connessione intima, a ragnatela appunto, tra squilibrio economico, sociale e ambientale si serve ripetutamente dell’immagine di Ottavia. Sono innumerevoli le pubblicazioni italiane e internazionali che hanno evocato, e continuano ad evocare, la città calviniana per argomentare preoccupazioni ambientali e climatiche che ruotano attorno alla figura cardine di questo spazio frangibile, ancora appeso ma dall’esistenza forse irreversibilmente transitoria, in bilico su uno strapiombo, come la vulnerabilità territoriale ci palesa sempre più spesso (Capecchi 2020; Gambardella 2007; Yanarella 1998).

Oltre a prestarsi a molteplici usi figurativi, Ottavia è uno dei più nitidi esempi dell’alta capacità figurale della scrittura calviniana, una delle doti più celebrate dell’autore ligure. Descritta in pochi tratti essenziali, la «città-ragnatela» penzolante sull’abisso è rappresentabile in toto. Anche una selezione di alcune illustrazioni dà un’idea della varietà degli approcci, tra mimetismo e letterarietà della trascrizione, e reinterpretazione trasformata.

Rarefazione e poetica stilizzazione caratterizzano l’immagine di Ottavia di Maria Monsonet [fig. 1], attualmente autrice di illustrazioni per l’infanzia. L’illustrazione risale al 2012, quando l’autrice frequentava la scuola d’arte Illa di Sabadell (Barcelona), ed è l’esito di un progetto suggerito dall’insegnante, a testimonianza della diffusione delle Città invisibili tra scuole d’arte e architettura. L’opera, basata su disegno manuale a inchiostro successivamente scansionato per applicare il colore in via digitale, si colloca tra le realizzazioni a tecnica mista di cui vedremo un ulteriore esempio in seguito, con Matteo Menotto. Monsonet esclude il precipizio, la misurabilità e la tangibilità del baratro. L’artista ferma l’immagine – lo sfondo grigio azzurro d’aria è immobile, l’oscillazione quasi congelata. Nell’estrema leggerezza dell’evocazione visuale, i cavi sostengono case in foggia di borse di stoffa, comunicando al contempo il pericolo dell’instabilità e un delicato mistero.

Al polo opposto della rarefazione, troviamo l’illustrazione di Eva Pils [fig. 2], illustratrice con studio a Graz, Austria. Realizzata come progetto di interpretazione per un corso di architettura, nell’illustrazione di Pils lo sguardo si muove su un’Ottavia energica, esuberante, meno preoccupata della sua sopravvivenza che delle sue potenzialità. Come in altre sue illustrazioni, Pils incorpora la sua esperienza di architetta nel suo lavoro creativo, reinterpretando e rivitalizzando la descrizione della città calviniana. Nella profusione giocosa di dettagli, colpiscono il forte cromatismo, la vivacità dell’insieme, e forse soprattutto l’affinità strutturale con la città spaziale ipotizzata dall’architettura visionaria. Basti ora notare lo sviluppo bilaterale di Ottavia, che alla metà appesa unisce la metà elevata in due strutture piramidali, introducendo una scala verticale a spirale che collega la metà inferiore a quella superiore attraversando il piano mediano, superficie di mercato, piazza per incontri e transazioni.

In occasione del quarantesimo anniversario delle Città invisibili (1972-2012), invece, Sara Vettori e Gabriele Genini si sono impegnati nello straordinario progetto di illustrare con tecniche incisorie (calcografia e xilografia) ben trenta delle cinquantacinque città narrate, dedicandosi ciascuno a quindici. Le rimanenti venticinque città sono state musicate in collaborazione con vari artisti, tra cui Sara Vettori, anche coordinatrice dell’intero progetto. Il lavoro è culminato in due esposizioni, Le visibili città invisibili. Un omaggio a Italo Calvino promosse dall’Associazione Culturale 47 Rosso. L’Ottavia, in acquaforte e acquatinta, è stata realizzata da Sara Vettori [fig. 3]. Insieme a quella di Francesco Bertelli, altra acquaforte, è forse l’illustrazione di città invisibile che più riflette nella tecnica scelta, quello della calcografia indiretta (ovvero l’incisione sul metallo, in incavo), la calviniana predilezione per la leggerezza (la composizione tracciata con una punta appena scalfente sullo strato di vernice che copre la lastra di zinco), la sottrazione (la morsura, o corrosione, provocata dall’acido che incide il metallo, incidendo sottili solchi), e il tracciato del filo d’inchiostro, che ricordiamo dagli epiloghi metaletterari sul segno della scrittura che scorre sulla pagina, raccontando, come nel memorabile finale del Barone rampante. Come ci riferisce Vettori, l’acquaforte è stata utilizzata per tutto il disegno, con morsure nell’acido molto lunghe per ottenere i neri più forti, mentre per lo sfondo è stata usata l’acquatinta, una tecnica per incisioni prediletta da Goya per i fondali, per i chiaroscuri che permette. È anche la lunghezza del processo, la percorrenza di un viaggio scansionato in passaggi e tempi da rispettare, a rendere la calcografia la tecnica illustrativa ideale per quella riflessione sul viaggio che sono le Città invisibili (Genini in Frosini 2013). Nell’illustrazione di Vettori, precarietà e incertezza della vita incontrano, complementandosi, inventività umana e capacità di adattamento a situazioni spesso irrazionali, quasi oniriche, in una doppia articolazione tra immagine e raffigurazione verbovisiva della citazione calviniana. Le montagne ai lati, coniche, ricordano sculture di pietre in equilibrio della pratica meditativa, o forme botaniche (le squame della pigna, o escrescenze fungiformi); in ogni caso, a reggere i picchetti a cui sono ancorati i tiranti che sostengono la città sono forme generative, che sembrano attraverso i cavi instillare vita all’architettura sospesa, alla sua enfasi su scale, ponti pensili, passaggi: sul movimento, il dinamismo, la comunicazione.

Per Francesco Bertelli, artista ora impegnato in produzioni audiovisuali e fotografiche, le incisioni delle Città invisibili sono la tesi della triennale di Grafica d’Arte dell’Accademia di Belle Arti di Genova. La sua Ottavia (2020) [fig. 4], ci pone di fronte a un’immagine estremamente elaborata, ricchissima di particolari, dai toni chiaroscurali diversi, in cui le strutture pendenti, tutte diverse, ci ricordano sofisticate campane a vento, o scacciapensieri orientaleggianti. Il precipizio richiama certa iconografia dantesca sulla scia di Gustave Doré, mentre la dovizia di particolari riporta alle fantasie architetturali piranesiane. Bertelli racconta della suggestione esercitata sul suo lavoro creativo da fumettisti e grandissimi disegnatori quali Moebius, Manara e Sergio Toppi; un’ascendenza che si fonde con la sua passione per città futuristiche, anche ispirate alla fantascienza. La sua Ottavia, come riferisce l’autore, associa un’eco di architettura islamica e indiana alle incisioni dettagliatissime nei bestiari degli esploratori dell’Ottocento. Bertelli privilegia l’acquaforte come strumento esteticamente idoneo a convertire le brevi poesie in prosa delle Città invisibili in immagine: procedendo per accumulazione di tratti, lavorando in chiave densimetrica (tra sintesi di tratti e spessore, tra rado e folto) in un processo assimilabile alla scrittura calviniana, l’illustrazione in bianco e nero che risulta da quest’arte grafica trasmette al contempo leggerezza, molteplicità ed esattezza, restituendo il fascino dell’orientale favoloso delle Città.

La transcodificazione realizzata dall’artista Elena Iodice, in arte Solfanaria, origina quattro rifrazioni di Ottavia attraverso la pittura di Paul Klee [fig. 5]. Solfanaria realizza le visioni della città calviniana incidendo l’immagine su una matrice, in questo caso gomma crepla, inchiostrandola, e infine stampandola su cartoncini precedentemente acquarellati partendo dai disegni di viaggio del pittore svizzero-tedesco. Le opere di Solfanaria sembrano infatti rievocare liberamente nello sfondo ad acquarello i colori e le geometrie dei disegni di Klee ispirati ai suoi viaggi mediterranei, tra Italia, Tunisia ed Egitto. Blu, marrone, ruggine, ocra, giallo: l’acqua del Nilo, la terra, il sole, la sabbia. Ed era stato Calvino a dircelo: l’arte genetica di Klee si presta alla citazione con variazione, ad aprire una strada per arte futura (Calvino 1995, 1804-1805). Un’altra visione di Ottavia di Solfanaria richiama l’arte parietale, o le incisioni rupestri preistoriche in grotte: e qui l’idea del segno scavato nella roccia, a rappresentare un nucleo urbano sospeso tra dirupi, non può non ricordarci che se Calvino leggeva con Northrop Frye la letteratura come proiezione del desiderio, il nostro autore avallava nel suo commento ad Anatomia della critica anche l’idea di città come riflesso della forma imposta dall’immaginazione e dalla volontà umane sul mondo minerale, in un pensiero che influenzerà concezione e stesura delle Città invisibili (Calvino, “La letteratura come proiezione del desiderio”) [fig. 6].

Il più celebre ciclo di traduzione in immagini delle Città invisibili è quello dell’artista italo-iberico Pedro Cano, composto da cinquantacinque acquarelli. Lontano dalla traduzione – o emulazione – figurativa della parola scritta calviniana, nell’immaginario di Cano Ottavia diventa tela orbicolare a raggiera [fig. 7]. Cano traspone l’elevazione spaziale della rete che sostiene Ottavia alla forma fisica di Venezia vista dall’alto: la città non è appesa a una ragnatela, bensì è la ragnatela. Il piano urbanistico di Venezia assume così il cinetismo di una spirale radiocentrica, e la ragnatela planimetrica, in vista zenitale, sembra allontanare Venezia nello spazio interstellare, trasformarla in emblema, in simbolo della città ideale. L’astrazione innalza la città natale di Marco Polo, ma restituisce anche il senso di quell’archetipo e utopia che Calvino, in un saggio del 1974, riconosceva proprio in Venezia, città modello di varietà e figurabilità (sotto l’influenza dell’urbanista Kevin Lynch), e soprattutto di leggerezza, per il suo habitat palafitticolo (Calvino 1995, pp. 2688-2689). Auspicato dall’architettura visionaria di fronte alle previsioni di congestione, saturazione, e sprofondamento di molte metropoli mondiali, il ‘modello Venezia’ come città durevole, utopia del presente, progetto aspirazionale, permeava la cultura urbanistica degli anni in cui Calvino elaborava i materiali per le Città. Ricorderemo solo, tra gli innumerevoli esempi nella bibliografia nota al nostro autore, che nel 1961 in una sezione suggestiva di The City in History, l’imponente mappa dell’evoluzione della città nella cultura occidentale, tradotto in italiano nel 1963, Lewis Mumford ammirava l’organizzazione in sestrieri e associava Venezia ad Amaurote, una delle cinquantaquattro città – e la capitale – dell’Utopia di Sir Thomas More (Mumford 1961, p. 327-328).

Tra gli esempi di raffigurazione verbo-visuale della città sospesa su ragnatela troviamo anche la limpida raffigurazione dell’architetto e illustratore Matteo Menotto che nel 2011 realizza una serie di città calviniane nel medium misto di pittura digitale e acquarello, su canvas, per una mostra allestita presso la Biblioteca Civica di Pordenone. La sua Ottavia [fig. 8], abbastanza prossima al referente sia nel contenuto visivo che nella nitidezza dello stile, concilia mezzo tecnologico e impronta artigianale, sovrapponendo silhouettes di forme in nero su uno sfondo verde pallido molto diluito, in un insieme nitido in cui pieno e vuoto non competono in scala semantica. Si notano in particolare, rispetto ad altre illustrazioni, i fili della tela resi distintamente visibili da quella che sembra una regolare copertura di goccioline di rugiada, come avviene in natura, o allusioni ad abitazioni, in richiami biomimetici. In rapporto ecfrastico con l’immagine, notiamo le citazioni dal testo calviniano appese ai fili come i sacchi, le amache, o le traversine.

Tanto si è detto su come processi defamiliarizzanti nelle descrizioni delle Città ostacolino l’automatismo cognitivo, spostando l’oggetto città dalle consuete abitudini di percezione e sperimentando ambiguità spaziali che spronano una riflessione sulle questioni urbane. Ne è un esempio l’inversione strutturale e logica di Ottavia (rete di sostegno e sviluppo verso il basso), attraverso cui Calvino espone la natura arbitraria delle convenzioni urbanistiche e architettoniche. Quello che vale la pena di ricordare, però, è che l’inventio urbanistica dello scrittore non si muoveva in un vacuum culturale. Negli anni a ridosso della pubblicazione delle Città, e quelli in cui Calvino, come racconta commentando la gestazione del lavoro, raccoglieva progressivamente stimoli da vari ambiti culturali che sarebbero confluiti nelle sue serie di nuclei urbani, l’immaginario sociale e dell’editoria in Italia, Francia e Stati Uniti era pervaso da decine le pubblicazioni sul futuro della città, e sullo sviluppo delle discipline preposte alla pianificazione e alla progettazione. Tali pubblicazioni spesso dedicavano un’intera sezione all’avanguardia della pianificazione urbana e del design: l’architettura visionaria, i cui modelli, a confronto, rendono anche le città più astratte e bizzarre di Calvino quasi moderate e convenzionali, certamente in linea – e spesso in rapporto ecfrastico – con gli stravaganti disegni delle proposte provocatrici di quegli anni.

In Francia, dove Calvino risiedeva, specialisti dell’urbanistica visionaria dedicarono numeri monografici di riviste, e spesso interi libri, al rinnovato interesse per la città, suggerendo progetti originali per Parigi e altre capitali mondiali. Amplificando con ancor più vigore e verve le opinioni di storici della città come Jane Jacobs (il cui rivoluzionario Vita e morte delle grandi città uscì per Einaudi nel 1969) e Lewis Mumford negli Stati Uniti, architetti ed altri intellettuali biasimavano la paralisi e la stagnazione creativa che caratterizzavano la pianificazione urbana loro contemporanea, ribadendo l’imperativo di riaccendere l’immaginazione per generare progetti in sintonia con un mondo che ormai manifestava segni inconfondibili di crisi nella forma fisica del vivere collettivo. Il clima non era diverso in Italia, teatro in quegli anni dell’architettura radicale e delle utopie critiche di Superstudio e Archizoom. Non è difficile immaginare Calvino affascinato da una serie di meraviglie visionarie mentre legge Il futuro e la città (1970) di Giorgio Simoncini, L’urbanisme, utopies et réalités (1965) di Françoise Choay (che uscirà in traduzione per Einaudi nel 1973, sotto raccomandazione di Calvino), o ancora Les cités de l’avenir (1966) e La cité de l’an 2000 (1968) di Michel Ragon. Qui troverà tecnotopie come la Ville verticale e Ville flottante di Paul Maymont, la Città ponte di James Fitzgibbon, le griglie spaziali estensibili all’infinito di Yona Friedman, e infiniti progetti di architetture arborescenti, ramificate, fondate su incroci di cavi sostenenti cellule abitabili non diverse dai sacchi di Ottavia, e simili sistemi di traversine, scale e ascensori per trasporto e comunicazione. Non a caso Ragon parlava di città «ragnatela» (Ragon 1968, p. 128), e le immagini dei progetti urbanistici di Guy Rottier, habitat umani composti da cellule abitabili appese a cavi distesi a ragnatela tra le montagne (ibidem), così come i progetti di design della ragnatela di Paul Maymont (ivi, p. 190) di villaggi sospesi su cavi «contro una ripida falaise» (Ragon 1966, p. 203), sono gli esempi più vividi di Ottavie tra le pagine dell’architettura visionaria di quegli anni. «È il regno dell’architettura trasparente e sospesa quello che ora inizia» scrive Ragon (1968, p. 163).

Forza icastica, plasticità, elevazione dal suolo, rarefazione, sottrazione di peso, sottigliezza, trasparenza: l’unico habitat possibile per il futuro, come avrebbe scritto Calvino delle sculture di Fausto Melotti (I segni alti), era quello dell’immaginazione ottimista, smaterializzata, sia metaforicamente che urbanisticamente sollevata dal suolo (le ‘città sottili’), quel suolo schiacciato dal mare di asfalto e cemento di cui scriveva MacEwen proprio in quegli anni in Crisis in Architecture (1974, p. 18). Forse è questa la chiave di lettura della popolarità figurativa di Ottavia, di cui questa selezione ci ha dato un’idea: l’impellenza di dover riflettere, oggi ancor più urgentemente di allora, sull’uso dello spazio di fronte alla crescita esplosiva della città. Calvino ha saputo, con la sua Ottavia, fermare icasticamente il momento in cui iniziava a diffondersi la consapevolezza di condizioni urbane che oggi, a distanza ormai di una cinquantina d’anni dalle Città invisibili, nella realtà della metropoli e della megalopoli, sappiamo essere criticità quotidiane e incontrollate: saturazione, congestione caotica, pesantezza sul suolo, cementificazione della superficie terrestre.

L’avanguardia urbanistica rispondeva, allora come oggi, esplorando rivoluzionarie forme in potentia che sono confluite tra gli stimoli visivi e concettuali delle Città invisibili. Oggi quelle forme in potentia ci vengono restituite attraverso le illustrazioni di Ottavia, ma anche di Bauci, Isaura, Armilla, Zenobia, Sofronia, non a caso quelle che Calvino definiva «migliori come evidenza visionaria» mentre eleggeva queste «forme filiformi (le ‘città sottili’ e altre) […] la zona più luminosa dell’intero libro» (Calvino 1993, p. xi): «leggere come aquiloni, città trasparenti come zanzariere, città come le vene delle foglie, città delineate come il palmo di una mano, città filigrana» (CI, p. 419). Città smaterializzate, pensate sottraendo peso, rette seppur precariamente in spazio aereo, liberando il suolo, riscattandolo dal dover reggere «un impero ricoperto di città che gravano sulla terra e sull’umanità […] gonfio, teso, pesante» (ivi, p. 419).

Dai disegni dell’architettura visionaria degli anni ’60 e ’70, attraverso la scrittura creativa di un «poema d’amore alle città» (Calvino 1993, p. ix), per tornare all’illustrazione artistica rifratta in mille versioni e, sappiamo, alle recenti sperimentazioni della bioingegneria e dell’architettura biomimetica, alla ricerca di materiali leggeri e sostenibili: la ragnatela attraversa i generi, la città è sospesa, il viaggio prosegue, euristico.

Bibliografia

I. Calvino, ‘Presentazione’, in Id., Le città invisibili, Milano, Mondadori, 1993, pp. v–xi.

I. Calvino, Saggi: 1945-1985, 2 voll., a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 1995.

I. Calvino, ‘Furti ad arte (conversazione con Tullio Pericoli)’, in Id., Saggi: 1945-1985, II, pp. 1801-1815.

I. Calvino, ‘I segni alti (Per Fausto Melotti)’, in Id., Saggi: 1945-1985, II, pp. 1970–71.

I. Calvino, ‘La letteratura come proiezione del desiderio: per l’Anatomia della critica di Northrop Frye’, in Id., Saggi: 1945-1985, I, pp. 242–51.

I. Calvino, ‘Venezia: Archetipo e utopia della città acquatica’, in Id., Saggi: 1945-1985, II, pp. 2688-92.

 

V. Capecchi, ‘Esagramma 29. Il coraggio di affrontare il nuovo’, in Inchiesta online, https://www.inchiestaonline.it/ambiente/vittorio-capecchi-esagramma-29-il-coraggio-di-affrontare-il-muovo/ 4 Aprile 2020 [accessed 8/10/2023].

F. Choay, L’urbanisme, utopies et réalités, Paris, Editions du Seuil, 1965.

M. Frosini, “Le visibili città invisibili presso La Soffitta (Sesto Fiorentino)”, Toscana_TV https://www.youtube.com/watch?v=SD3lV2S3pe4 24 maggio 2013 [accessed 8/10/2023].

C. Gambardella, S. Martusciello (a cura di), Le vie dei mercanti. Città rete rete di città. Atti del 4° Forum internazionale di studi (Capri, 9-10 giugno 2006), Napoli, La Scuola di Pitagora Editrice, 2007.

J. Jacobs, Vita e morte delle grandi città: saggio sulle metropoli americane, Torino, Einaudi, 1969.

A. Kreisberg, ‘Le città invisibili nell’immaginario di Italo Calvino e nelle immagini di Pedro Cano’, Italies, 16, 2012, pp. 439-458.

K. Lynch, L’image de la cité, Paris, Dunod, 1969.

M. MacEwen, Crisis in Architecture, London, RIBA, 1974.

L. Modena, Italo Calvino’s Architecture of Lightness: The Utopian Imagination in An Age of Urban Crisis, London, Routledge, 2011.

L. Mumford, The City in History: Its Origins, Its Transformations, and Its Prospects, New York, Harcourt Brace, 1961.

M. Ragon, Les cites de l’avenir, pref. Jean Fourastié, Paris, Planète, 1966.

M. Ragon, La cité de l’an 2000, Collection Horizon 2000, Paris, Casterman, 1968.

G. Simoncini, Il futuro e la città: urbanistica e problemi di previsione urbana, Bologna, Il Mulino, 1970.

E.J. Yanarella, ‘Plato Meets Lawnmower Man in the Virtual Polis: The Case of PS 776’,

PS: Political Science and Politics, 31, 4, 1998, pp. 792-796.

 

Sitografia

Maria Monsonet, https://mariamonsonet.com

Eva Pils, https://www.evapils.com/illustrations-inspired-by-i-calvino-invisible-cities/

Sara Vettori, https://www.linkedin.com/in/sara-vettori-92781665/

Francesco Bertelli, https://francescobertelli.video

Solfanaria, https://solfanaria.it

Pedro Cano, https://fundacionpedrocano.com/

Matteo Menotto, https://www.immagostudio.com/artworks/cittainvisibili