Per una cartografia del ‘nuovo’ a Napoli. Alcuni luoghi della sperimentazione artistica e teatrale negli anni Sessanta

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Negli anni Sessanta si assiste a una radicale trasformazione che investe non soltanto la politica e gli assetti sociali, ma anche la riflessione e i processi artistici. Sul fronte delle arti figurative e della dimensione scenica – ma anche del cinema, della musica, della letteratura – va maturando una crescente esigenza di rifondazione, che sfocia nel sovvertimento dei tradizionali canoni estetici e in una progressiva caduta – se non in un vero e proprio collasso – dei confini linguistici. Sempre più specifici diversi entrano in dialogo, confondendosi e contaminandosi; sempre più spazi con destinazioni differenti diventano luoghi di incontro e di scambio osmotico tra linguaggi codificati. Tale fermento attraversa l’intera penisola, interessando geografie diverse; a Napoli, in particolare, si assiste alla fioritura di esperienze estremamente significative che spaziano tra arti visive e teatro. Molti sono i luoghi in cui questi due specifici si incontrano e interagiscono, alimentando dinamiche artistico-operative giocate su un’estetica interdisciplinare. Molte sono le gallerie o le cantine che si aprono al confronto con le suggestioni provenienti da altri ambiti disciplinari. Il presente saggio si propone di tracciare una sorta di ‘cartografia’ di alcuni luoghi napoletani in cui prende forma questo processo di ‘riunificazione’ delle arti attraverso proposte e tentativi di rinnovamento che gradualmente andranno a definire un nuovo sistema linguistico.

The radical transformation of the Sixties affected not only politics and social structures, but also artistic thought and processes. On the front of the figurative arts and the scenic dimension - but also of cinema, music, literature - a growing need for refoundation emerges, which leads to the subversion of traditional aesthetic canons and a progressive fall – if not a total downfall – of linguistic boundaries. More and more different specific linguistic codes interact, becoming mixed and contaminated; more and more spaces with different functions become places of encounter and osmotic exchange between codified languages. This ferment crosses the entire country, affecting different geographies; in Naples, in particular, it produced the flowering of extremely significant experiences ranging from visual arts to theatre. There are many places where these two specific codes meet and interact, fuelling artistic-operational dynamics played on an interdisciplinary aesthetic. And many galleries or ‘cantine’ open up to the confrontation with suggestions coming from other subject areas. The aim of this essay is to trace a sort of ‘cartography’ of some Neapolitan places in which this process of ‘reunification’ of the arts takes shape through proposals and attempts at renewal that will gradually define a new linguistic system.

1. Gli spazi ‘di frontiera’ dell’arte

1960. Napoli, Via San Pasquale a Chiaia, 43: Renato Bacarelli, insieme con i fratelli Armando e Arturo Caròla, apre la Galleria Il Centro.

1963. Napoli, Via Port’Alba, 20/23: nell’ambito della Libreria-Galleria Guida viene inaugurata la Saletta rossa.

1965. Napoli, Parco Margherita, 85: Lucio Amelio inizia la sua attività di gallerista dando vita alla Modern Art Agency.

Sono solo alcuni dei luoghi che segnano la geografia culturale napoletana nella prima metà degli anni Sessanta. Una geografia dai confini spesso molto precisi: quasi tutti questi spazi si trovano entro un perimetro piuttosto circoscritto, un’area compresa tra Chiaia e Port’Alba.

Attorno a questi luoghi si riuniscono artisti visivi, architetti, uomini di teatro, poeti, critici, giornalisti alimentando incontri e sperimentazioni, dibattiti e discussioni, conversazioni e polemiche. Che si tratti di gallerie, librerie o cantine, l’idea comune è interrogarsi sul fare artistico, verificando il rinnovamento linguistico che, nel decennio in questione, sta investendo tutti campi dell’estetico, prima e a prescindere dal singolo specifico. In questi luoghi, anzi, costante risulta la fluttuazione tra codici diversi, la contaminazione e lo sconfinamento – più o meno consapevole – tra esperienze e ambiti disciplinari differenti.

Sulla scia di quanto sta accadendo a livello nazionale ed internazionale,[2] anche a Napoli, tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, si assiste a un processo di ibridazione performativa delle arti, influenzato anzitutto dall’Happening. In tal senso, cambia progressivamente il modo di fare pittura nella misura in cui si verifica un rifiuto della cornice e del quadro in favore di una sorta di ‘teatralizzazione’; parallelamente, la scena tende sempre più ad assorbire e far propria la lezione delle arti visive, privilegiando, tra l’altro, la dimensione iconica e l’elemento fisico-gestuale a discapito del testo letterario. Al contempo, avviene un graduale superamento della compiutezza dell’opera d’arte in quanto oggetto nonché del tradizionale rapporto con l’osservatore/spettatore, chiamato ora a svolgere un ruolo più attivo. Questa tensione innovativa interessa in primo luogo le arti figurative; come osserva Marta Porzio,

Negli anni 50 e 60 gli artisti napoletani che traducono la volontà di cambiamento in lavoro di sperimentazione, sono davvero pochi; ma questi pochi si spingono talmente oltre i limiti della città stessa, da creare delle nuove avanguardie. Mentre il teatro di ricerca muove i suoi primi passi, a Napoli nel campo delle arti figurative la sperimentazione è infatti, palesemente, una strada già intrapresa, con tentativi più o meno efficaci, in ogni caso coraggiosi. Ed è proprio l’audacia di questi tentativi, più che i tentativi in sé, a contagiare i pionieri della nascente scena off.[3]

Il fermento creativo che percorre l’intera penisola – da Roma a Firenze, da Genova a Milano – tocca, dunque, il capoluogo campano; come suggerisce Maria De Vivo, anche a Napoli, nonostante l’arretratezza e il torpore intellettuale di una parte della cultura cittadina, «prende avvio una ricchissima storia che si sviluppa lontano dalle istituzioni, fatta di azioni ed esposizioni in luoghi non ufficiali e pubblicazione di riviste e fogli sperimentali».[4] In questo clima, artisti provenienti da ambiti disciplinari diversi (arti visive, teatro, musica, cinema, poesia) portano avanti proposte, ipotesi, tentativi di rinnovamento che, attraverso un lento e articolato processo di gestazione, andranno poi a definire, soprattutto tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, un nuovo sistema linguistico. Tali pratiche prendono forma in spazi ‘irregolari’, concepiti come luoghi di scambio e confronto, aperti alla ricerca e all’invenzione. Colmando il vuoto istituzionale e l’assenza di politiche o iniziative culturali a sostegno delle proposte sperimentali, queste realtà diventano, anzi, centri promotori di quanto di nuovo sta emergendo nel mondo dell’arte nonché circuiti alternativi pronti ad accogliere le più disparate iniziative nell’ambito dell’avanguardia.

Particolarmente significativa, in tal senso, risulta anzitutto l’attività de Il Centro, galleria sorta proprio alle soglie del decennio.[5] Come accennato, il progetto culturale ideato da Bacarelli e dai fratelli Caròla viene inizialmente ospitato in via San Pasquale a Chiaia n. 43, in un piccolo ambiente a pianta quadrata che, però, già nel 1962 risulta inadatto a ospitare il numero crescente di visitatori nonché le mostre. La galleria si trasferisce, quindi, a Via dei Mille n. 61; qui, nel corso degli anni, vengono organizzate «manifestazioni sorprendenti e dirompenti»:[6] dall’evento d’apertura dedicato agli Artisti italiani contemporanei alle collettive in cui spiccano i nomi di Matisse, Braque, Magritte, Hundertwasser o l’interesse per la Giovane scuola napoletana; dalla rassegna Russia anni ’20: avanguardia e rivoluzione (stagione 1964-1965) fino alla mostra Tendenze confrontate (1966), curata da Boatto e Menna, con cui si entra nel vivo del dibattito sull’arte ‘dopo l’informale’. L’attività espositiva della galleria viene costantemente affiancata da momenti di riflessione, incontri e conferenze; pensiamo all’intervento di Argan su La morte dell’arte, tenuto nel 1962, in occasione dell’inaugurazione della mostra del pittore giapponese Toshimitsu Imai, o alla tavola rotonda sul tema Design e mass media (1965), ospitata al Museo di Villa Pignatelli. L’approfondimento critico trova anche un esito editoriale nei volumi pubblicati dalle edizioni «Il Centro» (principalmente cataloghi delle mostre realizzate) e nella rivista Op. cit., diretta da Renato De Fusco.

Parallelamente la galleria ambisce ad essere un crocevia di ricerche, prospettive, linguaggi; ecco dunque che, soprattutto alla fine degli anni Sessanta, su impulso di Dina Caròla, ospita letture poetiche, concerti di musica, rassegne cinematografiche, nuove forme di teatralizzazione.[7]

Locandina degli spettacoli Il principe pazzo e Il te di Alice, Lo Zoo. Napoli, Galleria Il Centro, 1969

Al Centro è possibile ascoltare Chiari e Gelmetti, assistere alle proiezioni di film Dada o dei cortometraggi di Baruchello, Patella e De Bernardi, prendere parte alle azioni dello Zoo, Il principe pazzo e Il te di Alice. Secondo Stefania Zuliani,

Che «Il Centro», in sintonia con quanto di più fecondo agitava la scena artistica italiana ed internazionale, si proponesse come spazio disponibile a rivoluzionarie pratiche di libertà, ad azioni ed eventi, sperimentazioni che incrinavano il rapporto tradizionale fra artista opera e pubblico […] lo dimostra la presenza precoce in galleria de Lo Zoo di Michelangelo Pistoletto, che realizza il 28 febbraio e il 1 marzo 1969 due azioni memorabili, Il principe pazzo e Il te di Alice […].[8]

La marcata sensibilità per un’arte del presente, le costanti incursioni in territori ‘altri’, la ferma intenzione di intercettare un pubblico giovane, con il quale instaurare una relazione nuova, confermano l’«orientamento irregolare» del Centro che «proprio nella molteplicità indisciplinata delle prospettive, delle poetiche e delle indicazioni critiche ha riconosciuto la propria forza singolare».[9]

Non dissimile, nelle intenzioni, l’attività intrapresa dalla Libreria-Galleria Guida con l’inaugurazione della Saletta rossa (1963-1974).[10] Muovendo dalla volontà di alimentare il dibattito tra artisti, architetti, poeti, filosofi, intellettuali, i Guida sostengono e accolgono, in seno all’attività libraria, proposte espositive «per diffondere a Napoli l’arte contemporanea»[11] (senza alcuna finalità mercificante o commerciale) nonché iniziative culturali di ampio spettro.

[…] ai vernissages – osserva Marta Porzio – si alternano dibattiti sui più attuali problemi della cultura contemporanea, incontri e manifestazioni di grande richiamo, cui partecipano i nomi più prestigiosi dell’epoca, da Ungaretti a Pasolini, da Sanguineti a Eco, da Moravia a De Sica, e poi Roland Barthes, Allen Ginsberg, Jack Kerouac, Dino Riccio, Natalia Ginzburg, Giulio Carlo Argan, per dirne solo alcuni.[12]

L’attività espositiva, in particolare, viene inizialmente affidata a Enzo Frascione, esperto di arte contemporanea, che realizza le prime mostre della libreria-galleria.[13] Parallelamente vengono organizzati dibattiti e conferenze cui prendono parte critici ed intellettuali; pensiamo, ad esempio, all’incontro sull’Avanguardia artistica e letteraria, animato, tra gli altri, da Edoardo Sanguineti che «passa in rassegna la situazione della poesia, del romanzo e delle arti figurative in Italia, difendendo inoltre l’avanguardia dalle continue accuse di formalismo e di irrazionalismo».[14]

Una svolta decisiva in direzione di una cultura d’avanguardia e di un approccio pluridisciplinare si registra, però, nella stagione 1964-1965, laddove la libreria inizia a collaborare con Luca (Luigi Castellano)[15] e gli artisti-redattori di Linea Sud.[16] Questo sodalizio si rivela estremamente fecondo; come suggerisce Maria De Vivo,

seguendo un percorso parallelo alla rivista “Linea Sud”, che le dà modo di superare le indecisioni direttive della prima stagione, la Guida approda su un terreno, quello della interdisciplinarietà e delle sperimentazioni a tutto campo, che le è estremamente congeniale, vista la naturalezza con cui immagini e parole, approfondimenti teorici ed esposizioni si sovrappongono nella saletta rossa.[17]

A Port’Alba emerge chiaramente la volontà di istituire un dialogo tra esperienze e codici diversi, soprattutto attraverso la convergenza tra avanguardia artistica e letteraria. Le esposizioni dedicate a pittori italiani o stranieri nonché agli stessi esponenti di Linea Sud, l’apertura alle proposte di altre gallerie e alla produzione del Gruppo Gestaltico sono, dunque, affiancate dall’interesse per le più audaci ricerche della poesia visiva.[18]

L’attenzione per l’evoluzione dei linguaggi e l’approfondimento critico contraddistinguono anche il triennio 1966-68, segnato dalla presenza di Achille Bonito Oliva che, in stretta collaborazione con Pellegrino Sarno, assume la direzione artistica della libreria-galleria. La nuova stagione punta anzitutto su un maggior coinvolgimento di intellettuali e critici – soprattutto di area romana – incaricati di fornire una cornice teorica alla produzione artistica di volta in volta presentata. Nelle intenzioni della direzione, questi dibattiti, oltre ad analizzare le tendenze emergenti sul versante artistico (dalla stagione pop alla nuova astrazione) e letterario (la poesia tecnologica), devono favorire uno scambio dialettico tra studiosi, pubblico e artisti, interpellati in prima persona dallo stesso Bonito Oliva.[19]

Catalogo della mostra L’oggetto e l’immagine, Napoli, Libreria-Galleria Guida, gennaio-febbraio 1967

Le iniziative ospitate assumono, inoltre, una fisionomia più interdisciplinare; alle esposizioni su alcuni dei fenomeni artistici più significativi del momento, si affiancano, infatti, manifestazioni che fanno vacillare la tradizionale demarcazione tra confini estetici.[20] Pensiamo, ad esempio, alla mostra dedicata alla poesia tecnologica (febbraio 1966), che ospita anche i poeti del Gruppo 70.[21] Per l’occasione gli artisti fiorentini riprendono l’evento-spettacolo Poesie e no 3, coinvolgendo nell’azione anche Achille Bonito Oliva, Gian Battista Nazzaro, Felice Piemontese e Antonio Russo, membri dell’Operativo 64.[22]

La manifestazione – sottolinea ancora la De Vivo – consiste di un vero e proprio spettacolo: alle sperimentazioni logoiconiche di Isgrò, Miccini, Pignotti e Marcucci si uniscono le azioni pittoriche di Bueno, un film collage di Loffredo e un poema ecofonico di Bonito Oliva intitolato L’industria proverbiale. Parole, suoni, immagini e gesti diventano i mezzi di un’operazione sinestetica, totale.[23]

Poesia visiva, suoni concreti, azioni pittoriche, spezzoni di film, gesti comuni coesistono e si confondono all’interno dell’‘evento’ proposto, a riprova del fatto che le pratiche artistiche, sempre più in questi anni, operano ai margini dei linguaggi. La Libreria-Galleria Guida, così come Il Centro, cerca di intercettare e testimoniare questa tensione, esaminandone al contempo le questioni critiche e leggendola anche in relazione al contesto napoletano. Un contesto che va gradualmente aprendosi al nuovo che avanza, subendone la fascinazione. Di qui la progressiva inaugurazione di spazi di ricerca pronti ad accogliere le più irriverenti emergenze creative.

Emblematica, in tal senso, la vicenda di Lucio Amelio, eclettico gallerista nonché motore di iniziative che hanno reso Napoli «uno degli epicentri della produzione artistica e della riflessione critica degli ultimi decenni a livello nazionale e internazionale».[24] Fucina di ininterrotta di idee e proposte, la Modern Art Agency di Amelio costituisce, sin dai primissimi anni della sua attività, un punto di riferimento fondamentale per il panorama culturale partenopeo, una galleria indipendente pronta ad indagare le pratiche artistiche più sperimentali, contribuendo in maniera determinante a una trasformazione del dibattito in corso. In quest’ottica l’‘anti-galleria’ di Parco Margherita accoglie le esperienze più diverse: dall’astrazione post-informale all’Arte Cinetica, dalle ricerche spaziali degli anni Sessanta (da Alberts e Vaserely ad Alfano, da Burri a Fontana a Manzoni) all’Arte Povera.[25]

Manifesto dell’Esposizione di Mario Ceroli alla Modern Art Agency, Napoli, dicembre 1967

Come osserva Andrea Villani, la Modern Art Agency, nel corso degli anni, arriva a delineare

una ricerca in grado non solo di raccontare, ma anche di generare storia dell’arte. Una storia dell’arte che spaziava dalle pratiche concettuali a quelle performative, dalla fotografia al cinema e al teatro, dalla letteratura al suono, senza dimenticare la […] scena artistica napoletana […] o il dibattito critico intorno al ruolo dell’istituzione artistica (che si sarebbe definito di lì a poco institutional critique), segnato a Napoli anche dall’attività fra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta della Galleria Inesistente […].[26]

Dal 1965 in poi il ‘racconto’ della galleria prosegue attraverso i decenni, incrociando azione pratica e pensiero teorico, iniziative artistiche e proiezioni cinematografiche, concerti di musicisti come Chiari e Palestine ed eventi teatrali di gruppi sperimentali quali Spazio Libero di Lucariello, Teatro Studio di Servillo, Falso Movimento di Martone. In un panorama cittadino che sempre più vuole emanciparsi da un sonnolento provincialismo intellettuale, Lucio Amelio diventa «collettore di eventi culturali che hanno modificato radicalmente il tessuto in cui si inserivano e hanno determinato un gusto del nuovo che a Napoli, prima, non esisteva».[27] Galleristi, intellettuali e artisti di provenienza diversa hanno in più di un’occasione riconosciuto il debito culturale nei confronti della Modern Art Agency, sottolineando il contributo fondamentale offerto dalla galleria di Amelio in direzione di una costante incursione nei territori di una ricerca connessa con le punte più avanzate della sperimentazione italiana e internazionale.

 

2. Il teatro off e le prime cantine

Siamo arrivati al 1965. Continuando a seguire le tracce e gli indizi della sperimentazione in atto, è possibile osservare come la geografia napoletana vada pian piano arricchendosi di nuovi spazi – e nuove presenze – non soltanto sul versante squisitamente artistico, ma anche in ambito teatrale. Ancora una volta si tratta di luoghi che fioriscono in una zona precisa della città: via Martucci e dintorni.[28] In quella che diventa la strada delle cantine napoletane, per l’esattezza in Via Martucci n. 18, Gennaro Vitiello, il 26 dicembre 1966, apre il Centro Teatro Esse; a breve distanza, al civico 48, viene inaugurato l’anno successivo (16 dicembre 1967) il TIN Teatro Instabile. Sempre in via Martucci (al civico 39), nell’ottobre del 1968 comincia l’attività del Play Studio; in Vico Santa Maria la Neve, infine, ha sede il Teatro Alfred Jarry, cantina che sorge su iniziativa del Gruppo Vorlesungen (13 dicembre 1968).

Per capire l’attività di questi spazi e, soprattutto, il percorso dei gruppi che li animano è necessario fare un passo indietro. Ancora agli inizi degli anni Sessanta la scena partenopea è dominata da una tradizione molto forte, incarnata anzitutto dal teatro di Eduardo De Filippo e dalla sceneggiata. Tra il 1963 e il 1967, però, inizia a farsi sentire l’urgenza di emanciparsi da un certo provincialismo culturale e di sperimentare forme nuove.[29] Una prima scossa in direzione di un cambiamento è data dall’impulso al rinnovamento fornito dalle arti visive e da alcune iniziative d’avanguardia (mostre, cineforum, rassegne). Molti teatranti attivi in questo periodo provengono, infatti, da una formazione artistica (quasi sempre nell’ambito dell’Accademia delle Belle Arti) o, in alcuni casi, da una frequentazione delle gallerie o degli spazi alternativi. Pensiamo, ad esempio, a Gennaro Vitiello, diplomato in scenografia all’Accademia delle Belle Arti, così come altri membri del Teatro Esse, o alla vicenda di Maria Luisa Abbate del Gruppo Vorlesungen, formatasi seguendo le proposte più sperimentali della città.

Dal punto di vista cronologico, il percorso di entrambe le compagini risulta estremamente significativo per comprendere gli inizi del teatro di ricerca a Napoli e in Italia.[30] In particolare, il nucleo embrionale del Teatro Esse – il Gruppo giovanile di studi teatrali, costituito da alcuni allievi di scenografia, scenotecnica e storia dell’arte – presenta già nel 1963 un primo lavoro, Quattro atti unici, nel teatrino dell’Accademia.[31] Il debutto ufficiale del TS, però, avviene nel 1964, con lo spettacolo Violaine – L’annuncio a Maria, per la regia di Mario Miano. Dopo questo primo lavoro entra a far parte del gruppo Gennaro Vitiello, allestendo La Moscheta (13 febbraio 1965); inizialmente Vitiello lavora accanto o in alternanza a Miano. Il sodalizio tra i due, però, dura poco; già nel 1965, infatti, Miano esce dal gruppo, lasciando a Vitiello la regia e la guida della formazione.

Sin da questi primi lavori il Teatro Esse sembra voler contemperare due spinte diverse: da un lato il forte interesse per testi spesso poco conosciuti o mai rappresentati, dall’altra l’estrema attenzione per l’aspetto formale e per l’invenzione spaziale, soprattutto in virtù della relazione attore-spettatore. Vitiello punta, infatti, ad un annullamento del tradizionale diaframma tra palcoscenico e platea, ricercando un tipo diverso di comunicazione e di rapporto con il pubblico.

Muovendo da questi presupposti, il gruppo realizza nel 1965 Un sorso di terra (ultima regia di Miano) e Ceneri; nel 1966, poi, riesce a trovare una sede stabile. Sulla scorta di quanto sta accadendo a Roma,[32] dunque, il TS apre uno dei primi spazi off napoletani, individuando

[…] l’adeguato, e tanto sospirato, contesto creativo nel quale innestare un processo di scrittura scenica principalmente orientato ad esaltare le qualità visuali e scenografiche del proprio linguaggio. La configurazione architettonica della “cantina” nel suo complesso permette al gruppo di immaginare di operare un’articolazione sempre diversa ad ogni spettacolo e di considerare così lo spazio come propria casa.[33]

Il Centro Teatro Esse – questo il nome scelto per la cantina – viene inaugurato con La magia della farfalla di Federico Garcia Lorca (27 dicembre 1966); per l’occasione il gruppo concepisce un lavoro fondato sul dialogo tra il testo letterario e una costruzione scenica dal forte impatto visivo, a cui la partitura fisico-gestuale degli attori plasticamente si adatta. L’opera di Lorca viene, dunque, ripresa e recitata in una sorta di danza corale di interpreti/performer che, indossando maschere e macroscopici costumi, si muovono attraverso una sorta di enorme praticabile, «una struttura di colori avvolgenti e giochi d’ombra che inizia dall’ingresso della sala, corre lungo le pareti e finisce sul palcoscenico».[34] In questo spettacolo, ancor più che nei precedenti lavori, fondamentale risulta il ruolo della scenografia, che non deve semplicemente suggerire uno sfondo quanto, piuttosto, avvolgere lo spettatore, facendolo sentire parte integrante del clima poetico suggerito da Lorca.

Nell’ambito del Centro Teatro Esse, l’attività laboratoriale e gli eventi scenici sono costantemente accompagnati dall’interesse per iniziative ‘altre’; lo spazio, infatti, ospita manifestazioni e proposte, intreccia scambi e relazioni, getta i semi per la fioritura di esperienze di sperimentazione. Intorno al gruppo e alla cantina di Vitiello germogliano nuove formazioni – la cui parabola spesso si brucia nell’arco di poche stagioni – e nuovi luoghi di ricerca; come osserva acutamente Marta Porzio, il Centro innesca «letteralmente l’‘esplosione’ di Via Martucci e dintorni».[35]

L’azione artistica del gruppo di Vitiello, dunque, si muove lungo queste due direttrici con l’idea di dar voce e spazio a una ricerca radicale e libera da qualsiasi condizionamento da parte della cultura istituzionale. In quest’ottica, tra il 1967 e il 1970, il Centro Teatro Esse ospita le personali di Bugli, Pisano, Bruno Di Bello,[36] il concerto improvvisato di Concetta Barra, il Macbeth di Mario e Maria Luisa Santella; al contempo, realizza nuovi lavori (Tardieu 6, SpaSaMiòLiPi, I Cenci, Massa Uomo, Il folle, la morte e i pupi, I negri). In questi anni, anzi, la scrittura scenica del gruppo va ulteriormente definendosi, insistendo sulla centralità di due elementi: da un lato il processo attorico-performativo di matrice artaudiana, dall’altra la drammaturgia dello spazio, concepito come luogo di un possibile dialogo tra attore e spettatore. In tal senso, emerge in maniera piuttosto chiara il richiamo a due esperienze che, in questi anni, costituiscono un punto di riferimento fondamentale per l’avanguardia teatrale: Antonin Artaud e il Living Theatre.

In Italia Artaud viene riscoperto e recuperato tra i grandi Maestri del Novecento nel 1965, anno in cui viene pubblicato su Sipario un numero doppio dedicato al ‘Teatro della crudeltà’,[37] seguito, nel 1968, dalla traduzione in italiano de Il teatro e il suo doppio.[38] La lezione artaudiana esercita una forte influenza sulla sperimentazione teatrale in quanto «è a fondamento della scrittura scenica, ovvero di quella categoria critica e metodologica, introdotta in questi anni in Italia da Giuseppe Bartolucci»[39] e utilizzata, tra l’altro, per riferirsi all’estetica del Nuovo Teatro. Anche il TS si avvicina alle tesi e alle opere dell’intellettuale francese, scegliendo di portare in scena, per la prima volta in Italia, I Cenci (1967). Per tradurre in termini spettacolari il testo di Artaud, lo scenografo Giovanni Girosi opera una scelta piuttosto particolare, costruendo una gabbia metallica nella quale trovano posto tanto gli attori quanto gli spettatori; parallelamente, la parola artaudiana è affidata a una recitazione asciutta, a modulazioni vocali ora acute ora stridenti, in linea con le teorizzazioni del regista e autore francese.

Se dichiarato è il debito del Teatro Esse nei confronti di Artaud, meno evidente risulta, invece, l’influenza del Living Theatre, sentita in maniera molto più forte dall’altra formazione che segna la storia dell’avanguardia scenica napoletana, il Gruppo Vorlesungen di Santella. In realtà l’‘effetto Living’, dovuto all’arrivo del gruppo statunitense in Italia, si diffonde, come un contagio, un po’ in tutti gli ambienti teatrali (e non solo); la scena sperimentale partenopea, in particolare, viene letteralmente travolta dal passaggio del Living che arriva a Napoli tra l’aprile e il maggio del 1965 (con Mysteries and Smaller Pieces e con The Brig, presentati al Teatro San Ferdinando) e nel maggio del 1967 (con Frankenstein e Antigone, ospitati al Teatro Politeama).[40] Il lavoro di Beck e Malina – così come la lezione di Artaud e di Grotowski –[41] sembra offrire una risposta a quei gruppi che si erano posti il problema della ricerca di un nuovo linguaggio teatrale, primi fra tutti Mario Santella e Maria Luisa Abbate. Considerati tra i pionieri dell’avanguardia scenica napoletana, alla stregua del Teatro Esse, i due artisti napoletani si avvicinano al teatro già nel 1963, laddove fondano il TD – Teatro Dibattito.[42] Oltre a gestire la Libreria La Mandragola,[43] Mario e Maria Luisa Santella – una volta sposati – iniziano, infatti, a dedicarsi alla sperimentazione scenica, puntando a un lavoro che, anche attraverso dibattiti e discussioni, coinvolga direttamente il pubblico. Nel 1967, poi, avviene una svolta in senso più professionale: la coppia, dopo aver chiuso la libreria, decide di dedicarsi unicamente al teatro, cambiando anche il nome della formazione. Il TD – Teatro Dibattito diventa, dunque, Gruppo di Teatro Sperimentale Vorlesungen (sigla di ispirazione hegeliana), collocandosi apertamente sul versante di una linea di ricerca che guarda anzitutto ai modelli del Living, di Grotowski e di Artaud. Il richiamo ai Maestri emerge sin dai primi lavori, Experiment/action/experimenta©tion (1967) e Ana/Logon (1968), «ispirati a una severa concezione del teatro, a una strenua sperimentazione, a una utilizzazione originale della grande esperienza del Living».[44] Nello spettacolo d’esordio, in particolare, si intravedono alcuni segni distintivi – in parte presenti nei primi esperimenti del TD – che andranno a caratterizzare il lavoro del gruppo: da un lato un estremo rigore fisico-gestuale che espelle quasi completamente l’elemento verbale dalla composizione teatrale, dall’altro la volontà di provocare ‘politicamente’ il pubblico.

Experiment/action/experimenta(c)tion, Gruppo Vorlesungen, 1967. Foto di Fabio Donato

L’azione scenica di Experiment/action/experimenta(c)tion, infatti, è affidata in primo luogo alla presenza degli attori – scalzi e in blu jeans – che si muovono sullo sfondo di una scena ‘povera’;[45] la coreografia di gesti e suoni, scandita in nove quadri autonomi, rimanda a un discorso politico-culturale sulla condizione di paura e di alienazione che contraddistingue la storia del genere umano.

Gli stessi motivi tematici ritornano, con toni più esasperati, nel successivo lavoro, Ana/Logon. Per restituire la sensazione di sofferenza dell’uomo di fronte alla minaccia della bomba atomica, il gruppo pone volutamente gli spettatori in una situazione di disagio, ‘imprigionandoli’ in piccole celle, costruite con reticolato e filo spinato. Da questa particolare postazione il pubblico assiste allo spettacolo: sotto una pioggia di suoni e rumori (trilli telefonici, notiziari radiofonici, stridore di freni, etc.), gli attori si abbandonano a movimenti aggressivi, gesti disarticolati, scatti epilettici, urla. Come osserva puntualmente Paolo Ricci, la partitura e le risorse fisico-gestuali messe in campo in questo spettacolo lasciano emergere nuovi riferimenti e altri stimoli di ricerca, riconducibili anzitutto alla lezione di Grotowski.[46] Del resto, questi primi due episodi del trittico sulla catastrofe nucleare nascono da un rigoroso training formativo di ispirazione grotowskiana e livinghiana, da «esercizi collettivi ed individuali compiuti da tutta la troupe, dopo dibattiti e discussioni collettive».[47]

Il discorso politico e le questioni tecnico-recitative affrontate in questi due spettacoli vengono ulteriormente approfonditi nell’ultimo capitolo della trilogia, Fall-out. Il lavoro viene presentato il 28 gennaio 1969 presso il Teatro Alfred Jarry, uno scantinato preso in affitto dal gruppo nell’ottobre del 1968 con l’intento di creare «un laboratorio attivo per le proprie ricerche e dove invitare gruppi e compagnie d’avanguardia».[48] La scelta del nome è un chiaro omaggio non soltanto all’audace inventore della patafisica, ma anche – e soprattutto – ad Antonin Artaud e al suo Théâtre Alfred Jarry.

L’attitudine sperimentale che contraddistingue la cantina trova espressione tanto nei lavori dei Santella, che intraprendono una fase di studio su Amleto,[49] quanto nell’accoglienza di altre esperienze di ricerca. In Vico S. Maria La Neve già nel dicembre 1968 viene ospitato un happening sulla traccia di Preghiera per Aldo Braibanti di Chiari, che vede coinvolti il Teatro La Fede, il Théâtre du chene noir, il Vorlesungen e il Play Studio; vengono, inoltre, accolte diverse formazioni interessate a condividere un progetto di sprovincializzazione della cultura napoletana. Nonostante gli sforzi organizzativi e produttivi, l’avventura del Teatro Alfred Jarry, però, ha vita breve, concludendosi dopo meno di un anno.[50]

Una sorte per certi versi differente tocca al TIN Teatro Instabile, la cui attività ‘resiste’ per quasi dieci anni. Nel 1967, infatti, Michele Del Grosso, insieme con Marinella Lanzaretti, inaugura la nuova cantina con lo spettacolo Ubu S.p.A., seguito, nel 1969, da Alcesti e Admeto. Nelle intenzioni di Del Grosso l’attività del TIN deve essere rivolta anzitutto in direzione dell’ospitalità, prima ancora che della realizzazione di spettacoli. Ricostruendo lo spaccato della sperimentazione scenica di questi anni, Giulio Baffi ricorda come il Teatro Instabile «alla produzione di una propria compagnia preferì la possibilità di ospitare altre formazioni. Si creò così uno spazio a cui fecero capo in molti, al TIN si faceva cinema, teatro, musica, e c’erano mostre, le più disparate, e dibattiti».[51]

Nella piccola cave di Del Grosso il 7 e l’8 maggio 1968 l’Open Theatre presenta The Serpent e Masks;[52] l’anno successivo vengono invitati Les Theatreaux Libres di Ginevra, l’International Workshop Theatre e il Living Theatre (ospitato presso il Teatro Mediterraneo della Mostra d’Oltremare).

The serpent, Open Theatre, TIN, 1968. Foto di Fabio Donato

Trovandosi a far parte di un consorzio nazionale che fa capo a Franco Quadri, il TIN riesce ad aver notizia e accogliere molteplici esperienze (dai burattini di Sarzi alla Nuova Compagnia di Canto Popolare); organizza, inoltre, dibattiti (pensiamo al convegno sul Teatro Pubblico di Bernard Dort) e, più avanti, rassegne musicali e cinematografiche. In tal senso, lo spazio di Del Grosso costituisce un tassello fondamentale per ricostruire il mosaico della sperimentazione napoletana di questi anni, promuovendo un’apertura in senso cosmopolitico a esperienze di trasversalità culturale.

Nel panorama di Via Martucci si inserisce infine un’altra vicenda che, pur non muovendosi in un orizzonte eminentemente teatrale, rappresenta l’avamposto di un’arte che cerca di uscire dai recinti: il Play Studio. Lo spazio, fondato dal musicista Arturo Morfino, raccoglie, infatti, «ogni segnale di contemporaneità, indipendentemente dal settore artistico di appartenenza, così che l’interdisciplinarietà e la contaminazione tra le diverse avanguardie diventa il marchio della maggior parte delle iniziative promosse dal collettivo che lo gestisce».[53]

Il Bread and Puppet, Franco Battiato, gli Aktuala, Dario Fo, Edoardo Bennato, Pino Daniele passano per la cantina di Morfino; analogamente nello spazio del Play Studio iniziano a fare esperienza Laura Angiulli e Licia Maglietta.

La zona dell’underground napoletano, del resto, costituisce in questi anni un luogo di aggregazione nonché uno stimolo per gli aspiranti attori o registi, ma, soprattutto, un’autentica «forza viva»:

[…] giovani scenografi, fotografi, musicisti, operatori, hanno gravitato in questa mobilissima galassia della sperimentazione teatrale, per cercare di dire qualcosa di nuovo; e spesse volte ci sono riusciti.[54]

Il vento del Sessantotto, con tutte le sue implicazioni e ricadute, determina un cambiamento nella mappa di questi luoghi; le cantine – così come alcune formazioni – si trovano ad attraversare un forte momento di crisi che ne determina, in alcuni casi, la definitiva chiusura.[55]

Il faticoso cammino della sperimentazione napoletana sembra dunque arrestarsi. In realtà cambia volto, anche in virtù – e come conseguenza – delle trasformazioni socio-culturali in atto.

Ma siamo arrivati alle soglie degli anni Settanta. Tra rottura e continuità, citazione e uccisione dei ‘padri’, un’altra storia sta per cominciare.[56]

 


1 Negli anni Sessanta molti sono gli eventi, le esperienze e gli spazi d’avanguardia che fioriscono a Napoli e in Campania. Senza alcuna pretesa di esaustività, il presente saggio si propone di mappare alcuni dei luoghi che, in maniera significativa, hanno promosso e intrapreso una programmazione e una ricerca in direzioni diverse, contribuendo a vivacizzare lo spaccato culturale partenopeo.

2 Negli anni Cinquanta negli Stati Uniti inizia una ricerca artistica che, prendendo le mosse dal lavoro di John Cage, andrà ad influenzare, nei decenni successivi, la sperimentazione a livello internazionale. Nel 1952, in particolare, Cage, con alcuni esponenti dell’avanguardia nel campo dell’arte, della danza, della musica e della poesia, realizza al Black Mountain College un ‘evento’ che è stato poi considerato il primo esempio di Happening. Questo nuovo genere espressivo – la cui definizione viene introdotta da Allan Kaprow nel 1959, in occasione di 18 Happenings in 6 Parts – costituirà un riferimento fondamentale per gli esponenti dell’avanguardia artistica e teatrale che, tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, intraprenderanno una radicale rifondazione dei linguaggi e dello statuto dell’opera.

3 M. Porzio, La resistenza teatrale. Il teatro di ricerca a Napoli dalle origini al terremoto, Roma, Bulzoni, 2012, p. 57. Riferendosi all’humus culturale napoletano degli anni Cinquanta, Marta Porzio si sofferma su alcune esperienze particolarmente significative che, in qualche modo, preparano il terreno alla sperimentazione del successivo decennio: il Gruppo Sud (tra il 1947 e il 1950), il MAC napoletano (tra il 1948 e il 1955), il Gruppo 58, le riviste sperimentali (Documento Sud e Linea Sud). Queste vicende fioriscono sullo sfondo di un quadro culturale che, ancora negli anni Sessanta, si presenta piuttosto statico; rispetto alle arti figurative, ad esempio, si registra l’inaugurazione di spazi espositivi che, però, mostrano scarso interesse verso la ricerca sperimentale, assecondando piuttosto il gusto ottocentesco di un certo collezionismo. A proposito della situazione e dello stato dell’arte a Napoli negli anni Sessanta si veda, in particolare, L. Vergine (a cura di), ‘Inchiesta sulla cultura a Napoli’, Marcatré, 14-15, maggio-giugno 1965.

4 M. De Vivo, ‘In bilico, nel tempo. Prime considerazioni sull’arte e sulle azioni di Giuseppe Desiato’, Acting Archives Review, 18, novembre 2019, p. 79.

5 Per una ricostruzione dettagliata delle vicende del Centro si rimanda a S. Zuliani (a cura di), Il Centro 1960_2005. Storie ed eredità di una galleria d’arte, Napoli, Electa Napoli, 2006.

6 M. Jodice, ‘Una stagione creativa rivoluzionaria’, in S. Zuliani (a cura di), Il Centro 1960_2005. Storie ed eredità di una galleria d’arte, p. 58.

7 Ricordiamo che nel 1968 Dina Caròla, affiancata da Gianni Pisani e Anna Caputi, assume la guida della galleria. Nello stesso anno la sede viene spostata in via Carducci n. 28. All’inizio degli anni Novanta la galleria si trasferisce in via Orazio n. 29 col nome Dina Caròla Arte Contemporanea.

8 S. Zuliani, ‘«Il Centro» 1960-1986’, in Id. (a cura di), Il Centro 1960_2005. Storie ed eredità di una galleria d’arte, p. 15.

9 Ivi, p. 16.

10 Per una ricostruzione della vicenda della saletta rossa si rimanda a G. Nazzaro (a cura di), Una libreria per la città, Napoli, AGE, 1988 e a M. De Vivo, la saletta rossa 1963-1974. Dieci anni d’arte alla Guida, Napoli, Alfredo Guida Editore, 2008. Come sottolinea la De Vivo, quando inaugurano la saletta rossa, i Guida hanno alle spalle una lunga tradizione di librai che risale agli anni Venti del Novecento. Per l’occasione decidono di adottare la formula della libreria-galleria; si tratta di una scelta precisa che trova dei precedenti in analoghe esperienze fiorite a Milano (Libreria-Galleria Salto, 1948), a Roma (Libreria-Galleria Age d’Or, 1950) e anche a Napoli (Libreria-Galleria Minerva, 1956).

11 G. Nazzaro, ‘Profilo di una famiglia di librai’, in Id. (a cura di), Una libreria per la città, p. 20.

12 M. Porzio, La resistenza teatrale, p. 75.

13 La stagione si apre con La nuova grafica portoghese, evento dedicato alla cultura lusitana; a seguire, vengono proposte altre iniziative: una personale di André Verlon; Le nuove realtà della pittura a Napoli, esposizione in cui è possibile vedere opere del Gruppo 58 ormai sciolto; Iconogrammi di Anthoi e Tanda, mostra sulle sperimentazioni dei due artisti.

14 M. De Vivo, la saletta rossa 1963-1974, p. 31.

15 Artista, critico d’arte, giornalista, Luca è stato uno dei principali animatori e ‘agitatori’ dell’avanguardia artistica napoletana. Tra i fondatori del Gruppo 58, dell’Operativo 64, del Gruppo P. 66 e della Prop Art, ha diretto e collaborato con diverse riviste o spazi alternativi.

16 Linea Sud nasce nel 1963, in continuità con la precedente esperienza editoriale Documento Sud; le questioni affrontate all’interno della rivista non toccano unicamente il territorio dell’arte, ma anche l’organizzazione e il panorama culturale della realtà cittadina.

17 M. De Vivo, la saletta rossa 1963-1974, p. 45.

18 Ricordiamo, ad esempio, la Mostra di poesia visiva del Gruppo 63, organizzata nel 1965. Sotto la guida di Luca vengono realizzate diverse iniziative: dall’esposizione inaugurale Indicazioni per una collezione d’oggi, dedicata alle opere grafiche della galleria romana Arco d’Alibert, alle mostre della produzione – principalmente di natura oggettuale – degli esponenti di Linea Sud, dalla conferenza Industria culturale, arte di massa e arte di avanguardia (1965), cui prendono parte Umberto Eco ed Edoardo Sanguineti, alla presenza di diciotto artisti riuniti sotto il nome Gruppo Gestaltico.

19 Durante i dibattiti Bonito Oliva intervistava davanti al pubblico gli artisti di volta in volta coinvolti.

20 Quando Luca lascia la direzione artistica della libreria-galleria, subentra appunto Achille Bonito Oliva che apre la nuova stagione con una collettiva sulla grafica cecoslovacca per poi proseguire con un’esposizione dedicata al lavoro di Mambor e Pascali (1966) e, a marzo dello stesso anno, una mostra di Antonio Calderara e del Gruppo I (a riprova dell’interesse della Guida per la cultura gestaltica). Al 1967 risale una delle iniziative che ottiene maggiore eco, L’oggetto e l’immagine, curata da Filiberto Menna e dallo stesso Bonito Oliva; si tratta di una collettiva, con taglio prettamente napoletano, che in maniera dichiarata sostiene la figurazione oggettuale. Ad aprile dello stesso anno viene organizzata l’esposizione degli artisti americani D’Arcangelo, Dine, Indiana, Wesselmann, Warhol. La collaborazione tra il duo Bonito Oliva-Sarno e la libreria-galleria si conclude nel 1968 con un’ultima iniziativa dedicata alla poesia visiva e al cinema sperimentale e le personali di Rodolfo Aricò e Gianni Colombo. Da questo momento fino al 1973 le manifestazioni artistiche conoscono un’interruzione di cinque anni; l’attività espositiva riprenderà con una mostra dedicata alla Prop Art di Luca e del suo gruppo.

21 Il Gruppo 70, costituitosi nel 1963, contempla una frastagliata compagine di poeti, artisti, musicisti, intellettuali che orbitano attorno alla sperimentazione fiorentina e, in particolare, alla rivista Quartiere, all’esperienza della Nuova Figurazione e alla scuola di Nuova Musica.

22 Il gruppo Operativo 64 – inizialmente denominato Operativo Sud 64 – nasce a Napoli nel 1964 per iniziativa di Luca; la compagine, muovendo dalle istanze politiche dell’avanguardia napoletana, si propone di svecchiare la cultura meridionale, aprendosi a una sperimentazione interdisciplinare. All’Operativo 64 la Libreria-Galleria Guida dedica una mostra collettiva nell’aprile del 1966.

23 M. De Vivo, la saletta rossa 1963-1974, p. 52.

24 A. Villani, ‘Tè e coca-cola, rose e limoni… Lettera a Lucio Amelio da un direttore di museo’, in Id. (a cura di), Lucio Amelio. Dalla Modern Art Agency alla genesi di Terrae Motus (1965-1982). Documenti, opere, una storia…, Milano, Mondadori Electa, 2015, p. 41.

25 Ricordiamo che lo spazio di Parco Margherita viene inaugurato nell’ottobre del 1965 con le impressioni di viaggio, Reisegeschichten, di Heiner Dilly, seguite dalle mostre di Hans Beyermann (novembre) e Boris Mardesic (dicembre) e, tra il 1966 e il 1968, da numerose esposizioni (personali o collettive) dedicate ad artisti italiani ed internazionali. Nel 1969, poi, in occasione della mostra di Jannis Kounellis, la galleria si trasferisce a Piazza dei Martiri n. 58.

26 A. Villani, ‘Tè e coca-cola, rose e limoni… Lettera a Lucio Amelio da un direttore di museo’, p. 41. Tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, oltre a fiorire altri spazi di ricerca, quali la Galleria Inesistente di Vincent d’Arista e Bruno Barbati, si affermano figure di mecenati e collezionisti attenti alle più interessanti manifestazioni dell’arte contemporanea; pensiamo a Vittorio Baratti, Peppino e Dodò Di Bernardo, Ernesto Esposito, Renato e Liliana Esposito, Graziella Lonardi Buontempo, Giuseppe Morra, Pasquale e Lucia Trisorio, Marcello e Lia Rumma (promotori, tra l’altro, delle tre edizioni della Rassegna di Amalfi, tra il 1966 e il 1968).

27 A. Bonito Oliva, ‘Saying the sayable. Lucio Amelio 1965-1980. Dialogo tra Achille Bonito Oliva e Michele Buonuomo’, in A. Villani (a cura di), Lucio Amelio. Dalla Modern Art Agency alla genesi di Terrae Motus (1965-1982), p. 46.

28 Secondo Marta Porzio, la scelta di una strada chic è sostanzialmente casuale e determinata da due fattori: il Teatro Esse trova una possibile sede proprio in Via Martucci e le altre formazioni lo seguono; in città è difficile reperire altri spazi pronti ad accogliere un teatro alternativo (cfr. La resistenza teatrale, pp. 193-194).

29 Cfr. V. Monaco, La contaminazione teatrale. Momenti di spettacolo napoletano dagli anni Cinquanta a oggi, Bologna, Patron, 1981, p. 16. Per una ricostruzione del contesto – non solo teatrale – dal quale emergono formazioni e istanze d’avanguardia si rimanda anche a G. Baffi, ‘Il teatro sperimentale a Napoli’, La scrittura scenica, 12, 1976 e A. Sapienza, Il suono e il segno. La gatta Cenerentola di Roberto De Simone, Napoli, Guida, 2006.

30 Chiaramente una ricognizione delle manifestazioni, degli spazi e delle esperienze che contraddistinguono la storia del Nuovo Teatro a Napoli non può prescindere da un riferimento alla ‘macrostoria’ della sperimentazione scenica in Italia. Dunque, spostando l’asse della narrazione dalla storia locale a quella nazionale, è bene osservare come negli anni in questione il Nuovo Teatro italiano sia attraversato da una scossa tellurica. Molteplici sono infatti gli eventi che segnano e scandiscono la nascita e l’evoluzione del fenomeno: le prime sperimentazioni di Quartucci, Bene e Remondi; la nascita delle cantine, soprattutto a Roma; il Convegno di Ivrea (per citare solo alcuni dei momenti salienti della storia del nuovo tra il 1959 e il 1967). A tal proposito, si veda M. De Marinis, Il Nuovo Teatro 1947-1970, Milano, Bompiani, 1987 e D. Visone, La nascita del Nuovo Teatro in Italia, 1959-1967, Corazzano (Pi), Titivillus, 2010.

31 Nel 1964 il gruppo presenta anche altri tre lavori (Epitaliamone, Giorni felici ed Escuriale). Il nucleo originario è costituito da Carlo De Simone, Giovanni Girosi, Odette Nicoletti, Anna Caputi, Mario Miano e Mario Perrucci.

32 Come abbiamo avuto modo di accennare (cfr. nota 30), principalmente a Roma in questi anni si assiste a una vera e propria ‘esplosione’ del fenomeno delle cantine; vanno infatti moltiplicandosi gli spazi (scantinati, garage, vecchi magazzini) in cui intraprendere un progetto e una ricerca teatrali alternativi e autonomi rispetto alla scena ufficiale.

33 S. Margiotta, La geografia del nuovo teatro in Campania negli anni settanta (1963-1976), Caserta, Terre Blu, 2019, p. 17. Ricordiamo che, durante i sei anni in cui il Centro Teatro Esse è operativo (1966-1972), vengono prodotti dodici spettacoli.

34 S. Margiotta, Il Nuovo Teatro in Italia. 1968-1975, Corazzano (Pi), Titivillus, 2013, p. 60.

35 M. Porzio, La resistenza teatrale, p. 196.

36 Ricordiamo che la mostra di Bruno Di Bello, curata da Lucio Amelio, era presentata in analogia con lo spettacolo SpaSaMiòLiPi (1967). I due eventi erano in qualche modo collegati: lo spettatore, dopo aver visitato l’esposizione, veniva condotto al centro della sala-palcoscenico dove erano sistemate alla rinfusa una settantina di sedie. Qui poteva assistere allo spettacolo-collage basato sui testi di Adriano Spatola, Edoardo Sanguineti, Eugenio Miccini, Achille Bonito Oliva, Lamberto Pignotti (il titolo del lavoro deriva proprio dalle iniziali dei nomi dei cinque poeti).

37 ‘Teatro della crudeltà’, Sipario, 230, giugno 1965.

38 A. Artaud, Il teatro e il suo doppio [1964], trad. it. di E. Capriolo e G. Marchi, Torino, Einaudi, 1968.

39 D. Visone, La nascita del Nuovo Teatro in Italia, 1959-1967, p. 63.

40 In questi anni a Napoli sono particolarmente attivi alcuni giovani, animatori del CUT della Federico II (Renato Carpentieri, Franco Carmelo Greco, Nello Mascia, Pino Simonelli) o legati all’associazione Nuova Cultura. Proprio a questi gruppi studenteschi si deve l’iniziativa di portare il Living a Napoli; queste realtà associative promuovono diverse manifestazioni volte a sprovincializzare la cultura cittadina.

41 Negli anni Sessanta anche il lavoro di Grotowski inizia a essere oggetto di approfondimento da parte di critici e studiosi; Sipario, in particolare, dedica alcuni interventi al regista polacco (cfr. R. Grünberg, ‘Il Teatro Laboratorio di Opole ovvero il teatro come autoanalisi collettiva’, Sipario, 232-233, agosto-settembre 1965; L. Flaszen, ‘L’attore e il metodo di Grotowski’, Sipario, 240, aprile 1966; M. Manuelli, ‘Un mese da Grotowski’, Sipario, 254, giugno 1967; G. Bartolucci, ‘L’ambiguità ‘costante’ di Grotowski’, Sipario, 255, luglio 1967).

42 In questi anni il gruppo mette in scena spettacoli tratti da Arrabal, Beckett, Mrozeck, Ginsberg, Pinget, Kerouac nell’ottica di favorire il confronto e la discussione tra attori e spettatori. I lavori vengono ospitati in spazi diversi: centri sociali, circoli privati, fabbriche, librerie.

43 Per un periodo i Santella gestiscono, nella zona del Vomero, la Libreria La Mandragola che diventa un punto di aggregazione per la sinistra giovanile, ma anche un importante centro di iniziative culturali.

44 F. P., ‘Un teatro laboratorio intitolato a A. Jarry’, l’Unità, 19 dicembre 1967. Ricordiamo che il contatto con il Living è diretto; Mario Santella figura, infatti, tra i giovani che organizzano la seconda venuta del gruppo statunitense a Napoli.

45 Il lavoro, presentato presso l’Executive club, si fonda su un impianto spettacolare estremamente semplice, privo di scenografia, oggetti scenici, costumi, luci.

46 P. Ricci, ‘Ana/Logon’, l’Unità, 2 aprile 1968. Ricordiamo che nel 1967 Mario e Maria Luisa Santella sono a Spoleto per assistere alla rappresentazione de Il principe costante di Grotowski; in quest’occasione riescono anche ad avvicinare il regista polacco e Ryszard Cieslak.

47 M. Mela, ‘Il sangue degli elisabettiani’, Sipario, 298, febbraio 1971, p. 32.

48 Ivi, p. 33.

49 Questo lavoro sull’Amleto di Shakespeare rappresenta un primo tentativo di avvicinamento al testo letterario, che verrà approfondito nel successivo Faust (1969), preannunciando la svolta che – dopo la rottura con gli altri membri del gruppo – porterà i Santella a inaugurare una nuova fase di ricerca sulla drammaturgia elisabettiana.

50 I Santella conserveranno, però, il nome Alfred Jarry per la compagnia.

51 G. Baffi, ‘Andiamo per certe deserte strade. La sperimentazione teatrale a Napoli fotografata da Fabio Donato’, Deserte strade, 4, dicembre 1976, p. 15.

52 Del Grosso riesce ad ospitare il gruppo newyorkese grazie alla collaborazione e al supporto economico della Libreria Guida.

53 M. Porzio, La resistenza teatrale, p. 230.

54 G. Baffi, ‘Andiamo per certe deserte strade. La sperimentazione teatrale a Napoli fotografata da Fabio Donato’, p. 7.

55 Sul finire degli anni Sessanta, gli spazi off vivono un momento di impasse determinato da una contraddizione di fondo, soprattutto rispetto al rapporto con il pubblico: lo spazio intimo delle cantine aveva favorito la formazione di una platea d’élite, ideologicamente lontana dalle istanze comunitarie ed egualitarie del Sessantotto.

56 Chiaramente il cambiamento che si registra nel passaggio dagli anni Sessanta agli anni Settanta interessa la scena sperimentale non soltanto a livello locale, ma anche sul piano nazionale; come osserva Lorenzo Mango, «Il sessantotto del Nuovo Teatro era stato parte di un processo più complessivo in cui dimensione estetica e dimensione politica si incrociavano, si sovrapponevano e spesso addirittura si sostituivano l’una all’altra. Nei primi anni Settanta tale simbiosi si era sciolta e la pratica sperimentale era diventata obiettivo oltre che mezzo di se stessa». L. Mango, ‘La decostruzione del nuovo’, in M. Valentino, Il Nuovo Teatro in Italia. 1976-1985, Corazzano (Pi), Titivillus, 2015, pp. 12-13.