Giorgio Bacci, Confini. Viaggi nell’arte contemporanea

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Si può rimanere spiazzati, a una prima lettura, incontrando accostati i nomi di Henry Matisse e Philippe Parreno: due artisti che a prima vista, e sotto molti aspetti, non sembrano avere nulla a che spartire, e che potrebbero far pensare a un’abbinata stravagante di taglio ‘curatoriale’, giocata magari su un facile sillogismo. Invece, scrive Giorgio Bacci nelle prime pagine del suo libro, a partire da questo confronto è possibile una precisazione di metodo tutt’altro che peregrina. Come in molti altri esempi portati nel corso della trattazione, infatti, questa strana coppia fa emergere delle consonanze sotterranee, dei tratti comuni nel modo di rapportarsi al passato: entrambi, nello specifico, in uno dei momenti più alti delle rispettive ricerche hanno fatto riferimento a un verso o a un passo di Charles Baudelaire, cercando nella sua poesia le stesse cose, o approdandovi rispondendo alle medesime esigenze. Al di là degli esiti formali, non confrontabili, c’è dunque un filo rosso più saldo che lega esperienze così diverse, una comune tensione di ricerca che passa attraverso le stesse fonti culturali: la ricerca di un altrove, magari di un paradiso perduto come Calma, lusso e voluttà del 1904, o Anywhere Out of the World del 2013, che cita un verso di Thomas Hood attraverso la menzione che ne faceva Baudelaire nel suo Viaggio a Citera.

Si sviluppa da qui la domanda di fondo che accompagna i Confini. Viaggi nell’arte contemporanea di Bacci, pubblicato da Postmedia (Milano) nel 2022: è possibile guardare all’arte contemporanea più attuale con gli stessi occhi e gli stessi strumenti con cui si affronta l’arte del passato, o i nuovi codici visivi richiedono un paradigma interpretativo completamente nuovo, obbligando lo storico dell’arte a mettere da parte i propri ferri del mestiere? La risposta implicita data in questo libro, e da accogliere senza indugio, è la prima, recuperando un filone della riflessione storiografica in cui erano potenzialmente presenti i semi che potevano fruttificare anche al di là dei tempi in cui furono scritte: è il caso di George Kubler, che già in passato si era cercato di usare come via di accesso a un paradigma espressivo nuovo, ma anche Michael Fried. Partendo da quest’ultimo, poi, si potrebbe fare un ulteriore salto all’indietro – come certe scuole di estetica contemporanea stanno facendo da tempo – e constatare quanto siano utili per capire il presente certi sistemi categoriali messi a punto dai filosofi del Settecento: non tanto sul problema del ‘bello’, ma su quello del ‘sublime’ e, ancor più, sul ‘senso del limite’.

Di fronte all’artista che si fa antropologo, partendo per impervie perlustrazioni ai confini del mondo, nei luoghi di maggior conflitto o dove i temi della marginalità si fanno più urgenti, ci si rende conto di come non si sia mai spogliato del tutto della propria cultura d’origine, e per raccontare mondi lontani è ricorso a formule, modi e citazioni che attingono al grande bacino della cultura visiva e letteraria occidentale, se non a certi dispositivi narrativi consueti in quella tradizione. Bacci prova, dunque, a individuare delle iconografie peculiari del presente (il muro, la casa, la linea di confine: motivi figli di tempi conflittuali e di nuove geografie) e a radunarvi intorno alcuni casi esemplari, che reggono all’ampliamento di campo a una storia dell’arte globale – anzi ne sono spesso una conseguenza – e si prestano ad essere smontate come si farebbe con le opere del passato, intrecciando opere e documenti, magari ricorrendo anche alla testimonianza orale. In tutti questi casi, qualcosa emerge di una memoria più profonda: nelle fotografie scattate da Ingrid Hernàndez alle case di Nueva Esperanza per il progetto Tijuana Comprimida (2004) non si può fare a meno di veder emergere un’estetica astratta nell’accrochage di materiali di recupero a uso abitativo; legandosi un tetto spiovente sulla schiena per la serie di foto che compongono Home to go (2001) Adrian Paci si trasforma immediatamente nella figura di Icaro. Sono cambiati gli strumenti di lavoro e le tecniche, dai nuovi materiali che si caricano di portati allusivi e simbolici – come i cavi elettrici di Reena Saini Kallat, che suggeriscono relazioni e tracciati geografici, o disegnano l’anatomia umana interna con un groviglio di materiali che ricordano esplicitamente situazioni di sfruttamento – al video e alla performance; ma quando l’artista si trova a leggere il presente lo manipola introducendo qualcosa di spaesante: qualcosa che, anche nella ripresa apparentemente più oggettiva, sposta l’attenzione sul piano metaforico. Un caso per tutti: i cinque minuti video di Centro di permanenza temporanea, sempre di Paci, coi suoi migranti assiepati sulla scaletta di ingresso di un aereo che non c’è: una situazione surreale, costruita per restituire e accentuare il senso di smarrimento di chi vive nella provvisorietà più radicale. C’è un immaginario globalizzato, in cui si è fatta largo la narrazione di un mondo allargato ma inospitale, di una terra ostile su cui opera utopicamente l’artista di oggi, cercando affannosamente di conciliare impegno e sopravvivenza, ma attingendo al contempo ad archetipi più remoti e radicati, rifusi in una vera e propria lingua internazionale.