La tua morte caratterizza la mia vita. Voglio trovare l'amore di cui fummo privi ed esercitarlo in tuo nome.
Voglio divulgare i tuoi segreti. Voglio azzerare la distanza tra me e te.
Voglio darti vita.
J. Ellroy, I miei luoghi oscuri
«Quando il film non è un documento, è un sogno»: così annota Bergman in Lanterna magica, confessando poco più avanti la sua ammirazione per Tarkovskij («Il più grande di tutti. Lui si muove con assoluta sicurezza nello spazio dei sogni»).[1] Con le dovute cautele, si ritiene di poter dire che il cinema di Alina Marazzi contraddice l’assunto bergmaniano, poiché giunge all’elaborazione di una «scrittura affettiva»[2] in grado di trasformare, grazie alla forza espressiva del montaggio, materiali d’archivio in partiture ‘sensoriali’, in insolite ‘avventure’[3] della mente e dello sguardo. L’eccezionalità dello stile di Marazzi consiste nella capacità di far deragliare le immagini oltre la soglia del reale, per cui gli inserti documentaristici vengono proiettati dentro un flusso visuale che disegna «lo spazio crepuscolare»[4] dell’anima, regno di una temporalità ambigua, continuamente in bilico fra presente e passato, memoria e testimonianza.
Si deve ad Antonio Costa una delle intuizioni più interessanti sul percorso di ricerca della regista milanese:
ciò che Alina Marazzi cerca negli archivi, nei depositi cartacei e audiovisivi, sono i momenti in cui una voce (singolare) intercetta un’immagine (pubblica) o, viceversa, quelli in cui un dettaglio apparentemente insignificante sfugge al controllo (all’ancoraggio) della parola e ci restituisce un ‘eccesso’ disorientante, non omologabile al senso concluso, al tempo lineare.[5]
Non c’è soluzione di continuità, dunque, tra documento e sogno, i suoi film viaggiano in direzione ostinata e contraria a ogni classificazione, pur inserendosi nel solco di quella «rifondazione del documentario italiano»[6] che ha segnato il cinema degli anni zero del cinema del nostro paese, liberando una serie di talenti interessanti, purtroppo ancora fuori circuito a causa di una miope politica di distribuzione. Per Adriano Aprà la novità che accomuna i nuovi autori di fine millennio è il distacco dalla tradizione, una sorta di euforica emancipazione dai modelli, per cui l’ormai abusata voce fuori campo onnisciente, che commenta immagini cieche, sopravvive solo nella televisione di massa, superata da un «moderno reticolo»[7] di piani e suoni. Si tratta di un contesto variegato, ricco di modi e forme del racconto, dominato da un convinto sperimentalismo, all’interno del quale è possibile isolare almeno tre categorie, utili a tracciare una mappa delle direzioni di ricerca:
il documentario-ritratto, frutto quindi dell’incontro con uno o più personaggi paradigmatici; il documentario di analisi storica e sociale, nel quale ancora una volta si sviluppa il principio narrativo delle «storie esemplari»; il documentario-diario, in cui prevale l’intenzione dell’autore di muovere da un’esperienza autobiografica, viaggio, memoria familiare o comunque rilettura decisamente personalizzata del mondo intorno a sé.[8]
Prima del recente approdo al cinema di finzione con Tutto parla di te (Italia, Svizzera 2012), Marazzi si muove dentro questo orizzonte, si confronta con tutti e tre questi sottogeneri, scegliendo di forzarne i contorni, grazie a una spiccata attitudine all’ibridazione. La trilogia al femminile, costituita da Un’ora sola ti vorrei, Per sempre e Vogliamo anche le rose,[9] disegna una partitura visuale sorprendente, reclamando quella «pazienza dello sguardo» che Didi-Huberman invoca al fine di cogliere gli anacronismi dell’immagine.[10] In ciascuna delle tre opere, seppur in maniera diversa, Marazzi mostra un alto grado di consapevolezza del procedimento attraverso cui si definisce il ruolo della soggettività, facendo emergere, tra le pieghe della scrittura, «il non detto (o forse non dicibile)».[11] Le storie evocate sullo schermo attestano «il valore realistico dell’interiorità, dei suoi sbandamenti, dei suoi miraggi»,[12] scavano la superficie dei ricordi, infrangono le leggi del marketing e del profitto, perché sostenute dal «sentimento della necessità».[13]
Un’ora sola ti vorrei (Italia, 2002), dedicato al nostalgico recupero del volto della madre suicida attraverso i filmini di famiglia, rappresenta una singolare variazione del «documentario-diario», per la sofferta messa in scena di una soggettività scissa, divisa, lacerata e poi ricomposta sullo schermo tramite una prima persona ‘traslata’ nella voce della figlia. Come si tenterà di spiegare più avanti, il film codifica un suggestivo «eye for I»,[14] una forma di (auto)biografia filmata che implica il superamento della logica riflessiva dell’ ‘io’. Già in questo testo, peraltro, la dimensione privata del soggetto si specchia (ritraendosi) nella levigata superficie della società del tempo, che coincide con gli schemi di classe della famiglia altoborghese dell’editore Hoepli:[15] il «documentario soggettivo»[16] si inarca così verso il modello storico-sociale.
Per sempre (Italia, 2005) esplora, invece, l’interiorità di un gruppo di suore, votate in eterno all’esercizio della fede. I silenzi, le storie, l’intervallo immobile della preghiera animano i frammenti di un «documentario-ritratto» sui generis, che alterna sequenze girate dentro le strutture monastiche con piani enigmatici (per lo più inquadrature in dettaglio di una natura assorta, astratta, assuefatta al ritmo delle stagioni, al ciclo della luce). Tale oscillazione produce continue interferenze fra realtà e astrazione simbolica, confermando il carattere interrogativo della ricerca della regista. La misura del film-ritratto si dilata grazie alle incursioni della voice over di Marazzi, decisa ad assumere il punto di vista del racconto, a non restare fuori dal quadro. Penetrando con discrezione dentro i luoghi della clausura, la macchina da presa indaga gli spazi della condivisione, del lavoro, della meditazione, ritaglia i volti di quelle donne fuori dal mondo,[17] ascolta e registra le intermittenze dei loro cuori, sfoglia gli album fotografici della giovinezza, immortalando le pose e le espressioni di corpi destinati a scomparire sotto il velo delle tonache. La sottrazione della fisicità impone la rinuncia all’orizzonte del femminile, almeno finché non entra in scena la giovane Valeria, decisa a vivere la clausura in modo anticonvenzionale, sulla scorta di un background filosofico capace di rilanciare nuove traiettorie di contatto con Dio.[18] Il dialogo ravvicinato con Valeria determina una sorta di turning point nel racconto per immagini; la discrezione dello sguardo di Marazzi cede il posto a forme di pathos, di complicità, che assicurano alla narrazione un andamento vibrante, un tono di confidenza fino a quel momento mai raggiunto.
Vogliamo anche le rose (Italia, 2007) supera la soglia del «documentario sociale» grazie all’eccezionale riuso di immagini ‘riciclate’,[19] icone e scarti di un tempo insieme pubblico e privato, «che brucia e illumina»[20] la coscienza. Qui il talento visivo di Marazzi trova una cifra autenticamente poetica, grazie a un calibrato gioco di innesti. In primo piano compaiono i fervori giovanili di tre donne reali, vissute in Italia a cavallo degli anni Sessanta e Settanta; come già in Un’ora sola ti vorrei, il punto di vista dei tre personaggi viene ricostruito attraverso la testimonianza diretta della scrittura. Recuperati, sfogliati e trascritti dalla regista (grazie alla consulenza di Silvia Ballestra), i diari di queste donne invisibili sono affidati sullo schermo alle voci di tre attrici diverse, e così anche qui le rifrazioni fra parole e immagini danno ritmo alla narrazione.[21] L’eco del «documentario-diario» resiste per tutta la durata del film, fondendosi alla prassi del found footage film: la ribellione, i gesti, i desideri delle tre protagoniste sono visualizzati tramite immagini di repertorio, orchestrate «fino a comporre qualcosa che sta tra la sinfonia e la canzone».[22] È un mosaico a tecnica mista Vogliamo anche le rose, assemblato con cura, slancio compositivo e la giusta dose di svagata ironia, necessaria a temperare gli umori e le passioni dell’ondata femminista. Annegato in un bagno di tinte pop, dai colori sgargianti e dalla grafica accattivante, il film annovera spezzoni di cine-interviste, di réclame pubblicitarie, di pellicole d’animazione, di brani sperimentali, di foto d’epoca, «come un’archeologia audiovisiva che adombra le forme del sapere e del potere».[23] L’effetto collage fa sì che la dimensione privata entri in rotta di collisione con l’immaginario collettivo dell’epoca, in un costante processo di ‘rimediazione’[24] della storia e dei suoi stereotipi. Anche in questo caso la forma del film sottolinea l’approccio ‘critico’ dell’autrice ai materiali impiegati: «il commento stabilisce con le immagini un rapporto dialettico e laterale»,[25] evitando il rischio degradante della retorica.
Spinta dall’urgenza di dar corpo e voce ai fantasmi di una femminilità inquieta, Marazzi va dunque componendo un personalissimo stile di regia, recentemente approdato al lungometraggio di finzione. Tutto parla di te si misura con un tema ostico, la depressione post partum, che viene declinato sulla scorta della particolare commistione di generi e linguaggi messa a punto nelle opere precedenti. Dopo un faticoso iter drammaturgico, la regista sceglie di affidare i complessi nodi della storia a una forma ibrida, fondata sulla costruzione metaforica del racconto, sulla disseminazione di indizi sonori e rime visuali, sulla poetica esaltazione dell’Entre-Images, luogo di raccordo e di dispersione.[26] È proprio l’intervallo tra un piano e l’altro a rappresentare lo spazio delle emozioni:
da un lato un’immagine che fugge, ma che ci prende nella sua fuga; dall’altro un’immagine che si dà tutta, ma di cui il tutto mi spossessa. Da un lato un tempo che raddoppia la vita, dall’altro un rovesciamento del tempo che finisce per inciampare nella morte.[27]
Marazzi sembra sapere «quel che avviene nelle giunture»,[28] e lì deposita i frammenti del suo discorso. L’inafferabilità della trama visuale dei suoi film si spiega con l’esigenza di mettere in quadro le impronte del soggetto, i segni di un’identità sofferta (è il caso della madre Liseli e delle donne di Vogliamo anche le rose), in transito verso un’altra dimensione (questo vale per l’itinerario spirituale delle suore di Per sempre), o comunque assediata dalle ombre del dubbio (è quel che accade in Tutto parla di te).
L’intrepida tessitura delle immagini rende ogni visione ‘estatica’, e così davvero – come scrive Bellour – lo spettatore diviene «pensoso»,[29] perché fa i conti con un flusso magmatico di figure e suoni capace di ‘commuovere’ lo sguardo. Contrariamente a quello che sostiene Barthes («Forse che al cinema io aggiungo qualcosa all’immagine?»),[30] chi si accosta all’orizzonte diegetico dei film di Marazzi resta abbagliato, non può non immedesimarsi in ciò che vede: la bellezza dei quadri, la complessità delle relazioni tra volti e voci producono un coinvolgente effetto di risonanza emotiva.[31] Non è facile allora restituire la feconda ambiguità delle reti simboliche in atto nel cinema della regista milanese, si rischia, infatti, di appiattire le derive di senso che le opere veicolano, e di azzerare il carattere sperimentale della sua scrittura. Altrettanto difficile è provare a scomporre la trama di innesti su cui si fonda il suo stile senza banalizzare le tecniche di composizione, frutto di una sapiente idea di cinema e di una straordinaria sintonia con la montatrice Ilaria Fraioli.[32]
L’obiettivo del presente studio è sottolineare – in riferimento a Un’ora sola ti vorrei e Tutto parla di te – il suggestivo accordo fra presenza della voce e temporalità della coscienza, fra allucinazioni acustiche e dispositivi della memoria, nella convinzione che la novità autoriale di Marazzi consista proprio nella dialettica tra le regard et la voix,[33] ovvero nella diagnosi della soggettività attraverso la catena audiovisiva. La scelta di concentrare il discorso esclusivamente su Un’ora sola ti vorrei e Tutto parla di te scaturisce dalla constatazione di una forte analogia strutturale, almeno rispetto al trattamento della voce, nonché alla focalizzazione del discorso in prima persona. A questo si aggiunge la forza della riflessione sull’ambivalenza, le contraddizioni e le ferite della maternità, che transita anche dalle stazioni intermedie di Per sempre e Vogliamo anche le rose, ma si compie poi definitivamente grazie alla declinazione drammaturgica di Pauline, «personaggio dispositivo»[34] incarnato in modo sublime da Charlotte Rampling nell’ultimo film. Il plot di Tutto parla di te sembra prolungare (e per certi aspetti perfino capovolgere) la «tela ombelicale»[35] già messa in campo con Un’ora sola ti vorrei; in entrambe le opere si assiste infatti a una sorta di ‘transizione’ della madre nella figlia (e viceversa): la reversibilità dei ruoli è garantita da una feconda disgiunzione della ‘gabbia’ audiovisiva, per cui la rielaborazione dell’identità passa attraverso la divaricazione di sguardi e contrappunti sonori. È «l’andirivieni tra parole e immagini»[36] a definire lo statuto del soggetto, a determinare il ritorno del tempo perduto, a stabilire il rapporto di verità tra ciò che si ascolta e ciò che viene mostrato, perché – come suggerisce Blanchot – «parlare non è vedere».[37] Dentro i film di Marazzi allora, come si tenterà di mostrare, «l’ascolto parla»,[38] mentre l’occhio diviene cristallo dell’anima.[39]
1. Je suis une image
Ogni madre contiene in sé la propria figlia e ogni figlia la propria madre.
Carl Gustav Jung, Aspetto piscologico della figura di Kore
La scintilla di Un’ora sola ti vorrei è uno sguardo perduto, desiderato, dimenticato e infine resuscitato grazie all’incanto delle immagini in movimento, al loro misterioso mostrarsi al momento giusto. Non c’è altro inizio per raccontare l’avventura di un film tanto straziante quanto luminoso: prima di tutto c’è lei, Liseli Hoepli, la sua giovinezza fragile, il suo sconfinato dolore, il tunnel della depressione, l’esercizio faticoso della cura, la scelta irrevocabile della morte. È il 1972 quando si uccide; da quel momento un velo di pudore copre il suo nome, mentre la sua immagine e la sua storia vengono archiviate nella soffitta della memoria. Soltanto nel dicembre del 1992, per stessa ammissione dell’autrice, il nome della madre torna a fare breccia nei racconti del padre, e comincia così uno sconvolgente viaggio nel tempo, alla ricerca di quel volto da cui tutto ha avuto origine:
Quando ho guardato per la prima volta i filmini di mia madre bambina e ragazza, non ero sicura che fosse lei. Ho provato una sensazione di disagio nell’incontrare il suo sguardo: mi era molto familiare, in maniera misteriosa e inconscia, e allo stesso tempo sconosciuto. Il fatto di non essere sicura che fosse il suo volto alimentava un senso di colpa. Poi […] vedendolo e rivedendolo me ne sono riappropriata. […] Era un’esperienza nuova, perché prima di allora non mi ero mai rispecchiata in un volto femminile al quale sentissi di appartenere.[40]
Risalendo lungo i gradi dell’apparire della madre, Marazzi rivive l’angoscia del lutto, della separazione («i primi contatti con lei bambina sono stati devastanti»), ma riesce anche ad accedere all’intimità del suo essere donna e figlia, e soprattutto impara a trattare un materiale incandescente, a sperimentare fuori dai generi.[41]
L’esito di tale faticoso apprendistato è un film-specchio, vibrante e appassionato, in cui si celebra una laica resurrezione, la messa al mondo di un’immagine. Il viso della madre si ripresenta ai bordi dell’inquadratura, fluttua tra un piano e l’altro, interpella l’emozione della figlia-demiurgo, e gioca a distanza con lo spettatore, scavando negli abissi del suo sguardo. Sono due, soprattutto, le inquadrature del volto materno a diventare icone, a creare un varco, quasi una sospensione nel racconto, per la forza magnetica di un’espressione fuori misura – ora struggente e nostalgica, ora maliziosa e complice. Nella prima Liseli è in viaggio, diretta a Capo Nord, a bordo della Stella Polaris; appena diciassettenne, sorride davanti all’obiettivo della macchina da presa, mentre tenta di annodare un foulard, senza riuscirci per il troppo vento.
Colori accesi, vento che scompiglia i capelli, risate mute, sole di mezzanotte. E poi la fine del rullo […] le infiltrazioni sulla pellicola danno quell’effetto di colori sbiaditi, a flash, che vanno e vengono. L’immagine gradualmente svanisce, lei continua a ridere e sparisce nella pellicola. Estrema evanescenza, intangibilità, imprendibilità. Come in un sogno, come in un film. Lei che ride e poi sparisce come un fantasma.[42]
Con queste parole la regista ricorda una delle tante proiezioni a casa dei nonni, fissata per sempre nella sua memoria per quel lampo di luce che trattiene l’immagine materna, o meglio il suo simulacro; quasi come un visiting angel, Liseli appare per pochi istanti inafferrabili, fatti della stessa sostanza dei sogni, prima di essere inghiottita dagli ingranaggi del proiettore.
Questa breve sequenza assume, nel respiro di Un’ora sola ti vorrei, un grande valore simbolico; il piano rallentato della madre che tenta di stringere il foulard sprigiona, infatti, tutta la forza dell’immagine-cristallo, in esso l’attuale e il virtuale convivono, il tempo si mostra nella doppia articolazione di scissione e coalescenza. Parafrasando Godard, viene da dire che non si ha di fronte giusto un’immagine, ma l’immagine giusta,[43] che non a caso viene scelta come manifesto del film: in quella posa, su cui Marazzi indugia grazie a calcolati effetti di regia, è possibile ritrovare – come suggerisce Proust – «in un ricordo pieno e involontario, la realtà viva».[44]
Accanto ai fotogrammi a colori strappati al vento del Nord, c’è un’altra scena che marca la soggettività inquieta di Liseli, tornando più volte all’interno del film a interpellare la nostra attenzione. Si tratta di un frammento che rievoca il matrimonio dello zio Ulrico, in realtà raccontato attraverso brani di più matrimoni, assemblati in un unico puzzle della memoria. La protagonista è ripresa in giardino, tra i fiori, mentre si gira lentamente guardando in macchina; il cappello che indossa proietta sul volto l’ombra delle sue trame, e un sorriso appena accennato illumina la sua espressione.
I suoi occhi, nell’invenzione del montaggio, incrociano nell’aria immagini di Liseli nelle diverse età, come se si guardasse con aria interrogativa. Un ralenti prolunga questa sequenza il più possibile, assecondando il mio desiderio che non finisca mai.[45]
La durata rallentata della sequenza stravolge la logica del reale, riassorbe il passato in una sorta di present continuous, lasciando che il soggetto possa specchiarsi nei tanti riflessi della sua immagine. Lo sguardo che si appropria dello spazio dell’inquadratura tenta di arginare la dispersione di sé, suggerisce una possibile traiettoria di senso, cioè l’(auto)certificazione della propria esistenza, del proprio dolore. Se «le immagini testimoniano sostanzialmente l’assenza di ciò che rendono presente»,[46] l’unica maniera per sopravvivere alla dimenticanza, all’oblio, è riaccendere il desiderio nell’altro, ovvero lasciarsi guardare, fino a consumarsi. Quello che si afferma dentro il primo piano di Liseli è allora uno «sguardo-affezione, uno sguardo-fascinazione»,[47] in grado di riattivare la relazione madre-figlia e nello stesso tempo capace di ‘toccare’ la coscienza dello spettatore.[48]
Vissuto come immagine-ossessiva, il volto di Liseli rompe la catena temporale del racconto, peraltro continuamente violata da un montaggio delle attrazioni discontinuo e poetico, e segna una chiave di volta anche dal punto di vista della mise-en-son. Il processo di sonorizzazione del film prevede una costante dialettica tra sguardo e voce, anche se l’effetto di tale implicazione si risolve spesso in una radicale divergenza fra piano visivo e piano sonoro. Come in certe soluzioni registiche di Duras, lo spettatore ha di fronte a sé il «film dell’immagine» e il «film delle voci»,[49] disposti lungo l’asse di una diegesi che tende ad allentare i nessi causali, liberando sullo schermo «una costellazione di pianeti e stelle, ognuna con il suo centro pulsante».[50] Dentro questa galassia di luoghi, volti, oggetti, riti, la funzione-guida è esercitata dalla voce di commento, frutto di una singolare, quanto evocativa, scelta estetica di Marazzi. Per smascherare l’autoritario magazzino visuale registrato dal nonno, in cui si assiste a «un controllato processo di autorappresentazione»,[51] la regista decide di costruire una densa architettura sonora, imbastita attraverso stralci di diari, di lettere, di cartoline, scritte da Liseli lungo tutto l’arco della sua esistenza. Accade così che Alina si faccia «corpo, parola della madre»,[52] prestando la propria voce al personaggio, in un processo di suggestiva (auto)fiction.
La mia presenza nel film ha diversi ruoli, forme e identità. Sono bambina nei super 8, nelle fotografie e nelle lettere; sono madre come voce narrante; sono figlia adulta nelle mani che sfogliano le cartoline; sono Alina nello sguardo che riprende.[53]
È questo cortocircuito identitario che rende Un’ora sola ti vorrei un testo dalla straordinaria potenza simbolica, in cui la voce fuori campo pone il «problema del sapere e del desiderio del soggetto», trasformandosi in un «flusso ombelicale che dà nutrimento».[54] Quella di Liseli-Alina è una «voce-soggetto», inglobante e incombente, registrata in modo da costituire il «perno dell’identificazione», da «risuonare in noi come si trattasse della nostra stessa voce, una voce in prima persona».[55] L’enunciazione in prima persona è l’esito di un atto di arbitrio e responsabilità, entrambi necessari a riattivare il processo memoriale e a trasmettere l’eredità di un dono in forma di parole e immagini. Del tutto arbitraria è, infatti, la lettera scandita dalla figlia-in-voce-di-madre dopo il prologo del film, in cui Liseli si rivolge alla sua bambina, quasi a voler riaffermare il suo diritto a essere presente:
Mia cara Alina, quella voce che hai appena sentito [...] è la mia voce, la mia voce di trent’anni fa [...]. In tutto in questo tempo nessuno ti ha mai parlato di me, di com’ero, di come ho vissuto, di come me ne sono andata. Cara Alina, ora che è passato così tanto tempo da quando sono morta, ti racconto la mia storia.[56]
L’invenzione di tale prodigioso espediente narrativo, non del tutto estraneo alla finzione filmica,[57] consegna allo spettatore le chiavi di una soggettività in transfert, che gioca a rimpiattino con le voci di ieri e di oggi, con-fondendo piano del reale e proiezione immaginaria. «La voce di trent’anni fa» è, infatti, un’acusma,[58] una traccia sensoriale emanata da un disco a 45 giri; il film si apre proprio con l’inquadratura in dettaglio di questo disco, da cui si propagano le voci dei genitori di Marazzi («Mangiate, non fate caos, insomma, quante volte bisogna dirvelo…), ripetute in un falsetto giocoso. Il breve frammento acustico si conclude con l’accenno di un refrain, quel Un’ora sola ti vorrei che diviene immediatamente canzone-feticcio, proiezione di un doppio desiderio: quello della madre (di dire quello che non si sa) e quello della figlia (di non scordare mai). L’inserzione nel corpo del testo (come incipit e come explicit) di questo fantasma vocale somiglia a una ferita incisa sullo schermo, che continua a ‘sanguinare’ fino agli ultimi lampi di luce del film.
L’emorragia sonora si prolunga attraverso il flusso della voce di commento, ‘imboscata’ ai margini del quadro, eppure sempre pronta a contraddire la grana delle immagini. Si tratta di una voce-io dissonante, carica di sfumature, di echi, di contrasti; uno strumento duttile, orchestrato da Marazzi con grande sapienza. Sin dalle prime battute emerge la disarmonia del soggetto, l’inadeguatezza alle convenzioni, il senso crescente di smarrimento, di solitudine, di angoscia, culminanti nella crisi depressiva, quel sole nero che fiacca la ragione e la speranza. La declinazione sonora del malessere del personaggio si avvale delle curve (dis)armoniche della voce di Alina, nonché del ricco tappeto acustico composto dal sound designer Benni Atria, davvero abile nel giocare di contrappunto, nel disegnare elementi di sfondo in grado di incrinare la superficie dell’immagine. Il principio di costruzione dei suoni di ambiente è – come dichiara lo stesso Atria – quello delle «evidenze sonore sottese al testo», per cui si ha un «continuo risuonare, a partire dal tocco di elementi emergenti».[59] In questo modo alcuni suoni balzano fuori dal continuum sonoro, costituito dalla musica, dalla narrazione vocale e dalla sonorizzazione di fondo. È il caso del cigolio dell’altalena, il primo degli indizi dell’alterazione dell’umore della protagonista; della goccia che cade, precisa e ossessiva come i cattivi pensieri; del latrato dei cani, dello stridio dei gabbiani, incarnazione della figura del padre e poi anafora pressante di sinistri presagi. La trama composita di suoni e inflessioni vocali sottolinea la progressiva drammatizzazione degli eventi, il precipitare di Liseli nel gorgo della malattia, fino alla reclusione in casa di cura, stazione dolorosa di un laico calvario. Prima di condurre lo spettatore dentro il girone delle cliniche, la regista si concede una divertita infrazione all’ordine della diegesi, giungendo a ‘doppiare’ un frammento di immagine in cui la madre annuncia, ammiccando verso la macchina da presa: «aspettiamo un bambino». Per un attimo la voce si incarna, entra in campo, abbandona l’al di là dello schermo: è solo un gioco, uno scarto, ma mentre «l’allucinazione sonora prende corpo», grazie all’incanto della settima arte, «lo scambio dei ruoli tra madre e figlia è totale».[60]
Nell’ultima parte del film, la più buia ma anche la più sperimentale, c’è spazio per qualche avvitamento dello sguardo, come nella scena del bosco di betulle (uno dei pochi inserti girati ex novo da Marazzi), ripresa in soggettiva con una macchina a mano ondeggiante, che si aggira fra i tronchi, «in una sorta di danza ipnotica».[61] L’idea del bosco come luogo di passaggio, di transizione, di spaesamento emotivo tornerà in Tutto parla di te, a indicare la circolarità di suggestioni tra un film e l’altro, l’analoga cifra simbolica. Quel che più vale, però, a significare la chiusura del soggetto assediato dal male di vivere è la «logorrea visiva»[62] di cartelle cliniche, diari, lettere, fotografie, inquadrate in dettaglio: una specie di catalogazione dell’esistenza che conferisce al racconto un senso di sconcertante immobilità. Nell’attraversare questa distesa di fogli, l’obiettivo risuona della graffiante partitura rumoristica, sempre più ruvida, profonda, opprimente, mentre la voce di commento si trasforma in una straniata cantilena, priva ormai di ogni grazia. Se il cinema di Godard, di Bresson, di Straub e Huillet, di Greenaway ha codificato il primato della parola scritta che diventa «materia in movimento»,[63] Marazzi fa sì che la parola filmata si apra un varco tra le rovine della coscienza, così da creare una vera e propria elegia audiovisiva.
Le intermittenze del cuore, e della voce, trovano allora sullo schermo la manifestazione di un «cinematografo interiore»,[64] in cui campeggia – fra tutte – l’immagine perduta, mancante, assente, cioè quell’immagi-mere[65] che può ben dire «io mi specchio in voi».[66]
2. Soglie del femminile
Ovunque vi sia una storia, da qualche parte c’è anche una finestra. Che è esperienza dell’anima, apertura sull’interiorità.
James Hillman
Tutto parla di te insiste sull’evidenza semantica (ed estetica) dell’immagi-mere, disseminando lungo l’intera catena audiovisiva le tracce di un’iconografia materna davvero commovente, sebbene spesso sull’orlo dell’abisso e della colpa. Quella che sembrava una trilogia ormai conclusa trova nell’ultima fatica dell’autrice un quarto tassello, diverso nella forma ma indispensabile per continuare a raccontare le molteplici – e discordi – anime del femminile. La scelta di mettere in scena il tabù della depressione post partum, e in generale il motivo dell’inadeguatezza a essere madre, conferma la vocazione di Marazzi verso un cinema delle emozioni di forte impronta civile, in cui ancora una volta si confrontano l’orizzonte dell’individuo e le attese-convenzioni della società, in un corpo a corpo che sfuma – grazie a una regia ‘perturbante’ – verso l’astrazione della coscienza.
Dopo una prima ricognizione di tipo documentario, con interviste, ricerche d’archivio, studio di casi di infanticidio, il lavoro di scrittura si ferma, anche per la nascita del secondo figlio, per poi riprendere su un altro piano grazie alla collaborazione di Dario Zonta, con la convinzione di allentare i nessi finzionali attraverso una serie di inserti simbolici ed evocativi.[67] L’approdo alla fiction avviene, infatti, sulla scia dell’esperienza maturata negli anni precedenti, e determina pertanto una ‘revisione’ delle consuete regole del gioco. Per evitare il rischio di un film a tesi, didascalico ed esemplare, la regista moltiplica i livelli del racconto, tramite il ricorso a linguaggi (fotografia, animazione) e materiali diversi (brani documentari, filmati in super 8, stralci di diario); attenua i nessi causali, attivando una temporalità ‘diffusa’, non evenemenziale; imposta la recitazione degli attori in chiave intimista, attraverso un processo di scavo e di sottrazione. L’impianto diegetico risulta così votato alla rarefazione, alla dissoluzione dei legami temporali, ogni evento oscilla fra presente e passato, fra reale e immaginario.
Pauline (Charlotte Rampling) torna in treno a Torino, sua città di origine, per sciogliere i nodi della propria esistenza, legati a un traumatico vissuto familiare, di cui lo spettatore conoscerà i dettagli solo nel finale. Il faticoso ritorno a casa si compie in una doppia dimensione, la solitudine del sé e la condivisione con gli altri, che coincidono con l’articolazione visiva di due spazi (la propria abitazione e il Centro di assistenza per madri in difficoltà) e due tempi (il passato dell’infanzia e il presente dell’età adulta), confluenti l’uno nell’altro. A rendere ‘permeabile’ il dolore di Pauline è Emma (Elena Radonicich), una delle madri in crisi che frequentano il Centro di assistenza gestito da Angela (Maria Grazia Mandruzzato). Emma, promettente ballerina momentaneamente fuori dalle scene, rifiuta la maternità, non sa accudire il figlio Matteo, vive un rapporto complicato con il padre del bambino, tanto da essersi ‘rifugiata’ a casa dell’amico coreografo Valerio (Valerio Binasco), secondo cui Emma «dovrebbe portarlo nella sua danza, il pensiero del figlio».[68] La fatalità dell’incontro tra queste due donne è il motore della storia, la matrice di un racconto discontinuo, frammentato, sospeso, ma non per questo irrisolto.
Tutto parla di te è, in fondo, un film di innesti (di figure, di affetti, di voci), perché – per dirla con Bresson – «immagini e suoni si rafforzano trapiantandoli».[69] A essere trapiantata è innanzitutto la modalità della prima persona, che qui – a differenza delle opere precedenti – trova diverse incarnazioni. Il primo livello di ‘mostrazione’ in prima persona è quello delle testimonianze dirette, raccolte da Marazzi nella prima fase di scrittura del film e poi recuperate in fase di montaggio. Le mamme intervistate confessano il loro dolore, la loro inadeguatezza, il loro disarmo, quasi fossero una sorta di coro tragico; strette dentro uno spazio fantasmatico, la cornice del televisore, sono a tratti liberate dall’astrazione della piccola finestra mediale, e così il loro primo piano invade lo schermo, in un costante effetto di recadrage.
In realtà non è solo la loro immagine a scavalcare il campo dell’inquadratura; la regia di Marazzi gioca continuamente con i punti di sincronizzazione, lasciando che l’eco delle loro voci superi i tagli visivi tramite un calcolato effetto di overlapping.[70] Le sequenze in cui Pauline è intenta a schedare, catalogare, ascoltare le registrazioni si fondano su una forte scissione temporale, riassorbita dalla presenza di voci acusmatiche, di suoni on the air.[71] La costante oscillazione tra suono acusmatico e suono visualizzato rende la stanza del Centro di accoglienza un ambiente ‘sensibile’, aperto ai riverberi della coscienza, una via intermedia tra una camera chiara (con riferimento alla riflessione barthesiana sulla fotografia come ‘soglia’ del tempo) e una camera sonora. La dislocazione delle madri ‘vere’ dentro lo schermo del televisore, allora, da un lato sottolinea la loro soggettività frammentata, ‘ritagliata’, dimezzata, dall’altro serve a filtrare, grazie alle vibrazioni delle voci in onda, la deriva emozionale di Pauline.
Il secondo livello di focalizzazione in prima persona riguarda proprio la declinazione drammaturgica delle due protagoniste, costruita secondo una serrata concatenazione audiovisiva. Entrambi i personaggi attraversano il quadro del racconto secondo delle puntuali linee di espressione: Marazzi lavora sulla sovrapposizione di specifiche figure visuali (il primissimo piano, lo sguardo in macchina, la soggettiva schermata) e di peculiari sintagmi vocali (le voci interiori, la parola-teatro),[72] nel tentativo di creare un vero e proprio corto circuito tra sguardo e ascolto, tra oggettivo e soggettivo, tra reale e immaginario. L’azzardo stilistico più forte è la scelta di raccontare il destino di un incontro tramite la sistematica elusione del dialogo, principio fondante del cinema di finzione, ovvero tramite la separazione dentro il campo dei due personaggi, ritratti per lo più come riflessi di una stessa immagine, il fantasma di una madre-in-figlia. La conversazione tra le due protagoniste è continuamente interrotta, spezzata, deviata; nonostante un laborioso processo di scrittura del film, in fase di montaggio Marazzi decide di allentare la tensione, di sciogliere le voci, di smaterializzare il discorso, e così assistiamo alla declinazione di due esistenze in bilico fra rappresentazione e autoinganno, fra confessione e rimozione. Se in Un’ora sola ti vorrei la dissonanza fra piano visuale e piano sonoro era dovuta al tentativo di mettere in scena i traumi di una soggettività dolente, qui lo scarto tra sguardo e voce serve ad amplificare il bisogno di raccontarsi, la voglia di ricostruire un orizzonte emotivo stabile. L’altalena fra suoni in e suoni off, fra voci interiori e sguardi in macchina conferisce al racconto una cifra intimista, un tono da teatro ‘da camera’ che passa proprio dal perfetto controllo dei livelli di interferenza fra corpo sonoro e campo visivo. Il grado di intensità della voce di commento si attenua rispetto a Un’ora sola ti vorrei; la diegesi in prima persona prevede piuttosto il ricorso alla figura della voce mentale, emanazione diretta della coscienza delle due protagoniste. La geometrica disposizione degli angoli di ripresa (con l’evidenza assoluta della frontalità del primo piano) si accompagna alla dispersione poetica delle voci, e così ancora una volta la rappresentazione del soggetto sfrutta le potenzialità dinamiche del cinema, l’avvitamento dei suoni alle immagini o il loro migrare da un’inquadratura all’altra attraverso i tagli di montaggio e i punti di sincronizzazione. La rinuncia al dialogo, o comunque la sua consistente riduzione, coincide allora con una strategia diegetica che predilige il sistema delle risonanze armoniche tra sguardo e ascolto – già messo a punto in Un’ora sola ti vorrei – in cui parola e immagine contribuiscono alla messa in forma della soggettività femminile.
Anche in Tutto parla di te la dimensione privata del personaggio si esprime attraverso lettere, diari, appunti, tracce memoriali, solo che adesso questi elementi perdono la rilevanza visiva delle opere precedenti, non appartengono più all’orizzonte dello sguardo (se non per brevi passaggi in cui tornano le riprese in dettaglio di pagine, fogli, schede) ma slittano dentro il campo sonoro, amplificando le rifrazioni fra ciò che si vede e ciò che si sente, grazie al ricorso a particolari marche stilistiche.
Pur scegliendo di allentare le maglie della narrazione, dilatando il raggio temporale degli eventi, la catena audiovisiva poggia su precisi elementi di mise en scene, fra cui spiccano le superfici riflettenti e gli oggetti in grado di ‘doppiare’ o cristallizzare le figure. Le sofferte solitudini di Pauline ed Emma, assediate da ossessive ‘voci di dentro’, baluginano di presenze spettrali, rese visibili dalle istantanee di Simona Ghizzoni.[73] L’inserzione delle foto dentro la narrazione crea dei punti di sospensione, dei varchi, ed è qui che si rinnova il prodigio dell’Entre-image. Si tratta di scatti flou, mossi, in cui l’autrice si immerge in uno scenario in rovina facendone il segno di un paesaggio interiore, poetico. Ispirate alla cifra estetica di Woodman, le foto rimandano a un altro tempo, quello dell’immaginazione, della coscienza, del corpo-mente. L’opacità è il segno di un passaggio, di uno scatto dell’anima, l’assenza si incarna nella forma, e fa vacillare la visione. Quel che resta sullo schermo è una breve porzione di incanto, un barlume di vita, o forse il suo contrario.
Tornando alla simmetria delle due protagoniste, sono molte le scene in cui, grazie a un calibrato montaggio alternato, Emma e Pauline sono inquadrate nel medesimo atteggiamento, mentre fumano, mentre si vestono, mentre si guardano allo specchio. La disseminazione di false piste, di simboliche rime visuali, lascia intendere che si possa trattare addirittura della stessa persona, colta in due istanti diversi della propria vita. La dinamica del raddoppiamento e del riflesso sottintende la messa in campo di quello che Romney definisce, a proposito de La doppia vita di Veronica di Kieslowski (Francia, Polonia 1991), il «Female insight», cioè un innato intuito femminile, ma anche una visione profonda, introspettiva.[74] Il richiamo al capolavoro del regista polacco non pare del tutto peregrino, non solo perché in effetti sembra di assistere alla declinazione di due personaggi speculari, anche se non identici, ma perché la sospensione, la rarefazione sono gli indici della Doppia vita di Veronica, e anche di Tutto parla di te.[75] Lo dimostra la particolare resa dei luoghi oscuri in cui vivono e si adombrano le due protagoniste. Vale per entrambe la lezione di Jung, per cui la casa è il double dell’individuo: la dimora di Pauline è invasa dai ricordi (visualizzati sullo schermo da riverberi in bianco e nero, sgranati), ogni cosa porta con sé la ferita dell’infanzia, animandosi di un potente valore feticistico.
È il caso del mangianastri, spettrale oggetto acusmatico, che sprigiona nell’aria le registrazioni della madre a colloquio col suo analista: non è un caso se a prestare la voce alla donna sia Alina Marazzi, che replica così la soluzione di Un’ora sola ti vorrei, confermando – laddove ve ne fosse bisogno – la reciprocità dei ruoli di madre e di figlia e l’importanza dei piani sonori nel sistema di messa in quadro della soggettività. La stanza in cui Emma si è rifugiata, invece, è piena del suo disordine, della sua incapacità di accettare il presente, e infatti la narrazione del suo spettro emotivo passa attraverso una serie di inserti onirici, immaginari, non proprio dei flashback anche se la loro funzione è analoga, in cui lei mostra la nudità del suo corpo gravido, fuori dal tempo.
A proposito di innesti e di richiami interni, tornano in Tutto parla di te degli elementi già apparsi in Un’ora sola ti vorrei, a indicare una forte circolarità tra le due opere. Il bosco è anche qui un luogo di transizione, di metamorfosi, di passaggio: rappresenta una via di fuga verso un altrove possibile, ma anche una minaccia, una prova. Le riprese ambientate nel bosco rimandano tanto al presente della storia (e qui è Emma ad attraversarlo, a perdersi nel labirinto dei tronchi) quanto al passato dei ricordi, e allora è una donna in bianco e nero a spingersi attraverso la radura, misteriosa presenza di un tempo lontano, ma incombente. Altro segno simbolico ricorrente è l’acqua, soglia del precipizio già nelle prime inquadrature (con l’immagine di una donna seduta al bordo del lago) e poi distesa liquida rassicurante, placida, solo a tratti scossa dal volo di gabbiani, ulteriore prestito giunto dall’orizzonte enigmatico di Un’ora sola ti vorrei. La presenza di questi elementi sullo schermo serve ad ancorare le voci interiori di Emma e Pauline, a riempire la sponda della loro immaginazione; mentre i loro pensieri riecheggiano sullo schermo, lo sguardo dello spettatore vaga in lungo e in largo oltre il confine del reale. Se in Un’ora sola ti vorrei la voce off creava rispetto alla catena delle immagini un effetto di controcanto, di disgiunzione, qui gli stati di ‘allucinazione’ emotiva delle protagoniste approfittano della risonanza fra visuale e verbale, anche se i legami di senso non sono così immediati, perché il montaggio scava fra un piano e l’altro.
Nonostante l’allentarsi delle piste diegetiche e il prevalere della dimensione dell’attesa, la qualità dei monologhi interiori di Pauline e di Emma è notevole, e altrettanto può dirsi delle modalità di visualizzazione degli stessi. Marazzi sembra aver fatto tesoro delle onde della soggettività materna e così riesce a suggerire, attraverso frasi cariche di pathos, l’ineffabile sofferenza delle due donne.
Tra le figure della soggettività è soprattutto il primissimo piano di Pauline a imporsi per efficacia espressiva e bellezza: il suo volto espanso è più di un’immagine, è un archetipo, il paradigma stesso della mater dolorosa, pur essendo in realtà il simulacro della figlia. Ogni qual volta la macchina da presa indugia sul suo viso, in penombra, l’incantesimo della femminilità si invera, e con esso il prodigio del cinema. Il mistero del film, e dell’essere donna, è già nell’incipit: Pauline è seduta in treno, la sua faccia è tagliata da intensi raggi di luce, mentre sul vetro si riflettono immagini profondamente evocative, che ritroveremo più avanti. In pochi istanti scorre davanti agli occhi una serie di piani scomposti, frammentari, enigmatici, e intanto una voce fuori dal quadro rimemora le ferite del passato: ha ragione Aumont, «treno e cinema trasportano lo spettatore verso la finzione, verso l’immaginario, verso il sogno».[76]
A spingere più in là del vero la narrazione non è però solo il treno, ma anche la finestra, lanterna magica del teatro delle identità, matrice di una soggettività raggelata. Marazzi va componendo in Tutto parla di te una specie di tassonomia di sguardi alla finestra, sicuramente interessante sotto il profilo delle marche dell’enunciazione, ma altrettanto importante sul piano della messa in scena dell’io. Già in Un’ora sola ti vorrei era emersa, seppur in modo fuggevole, la peculiarità dell’oggetto; Liseli in uno dei messaggi più accorati rivolti ad Antonio dice: «Vorrei sapere se ti piacciono le finestre aperte, di notte». Poi cala il silenzio, le finestre sembrano uscire di scena, sebbene si scopra che è saltando giù dalla finestra della clinica che Liseli si toglie la vita. In Tutto parla di te il tema si rafforza, perché è chiudendo le finestre che la madre di Pauline lascia morire il figlio, dopo aver appiccato il fuoco. La rivelazione però giunge solo nel finale, fino a quel momento ciò che colpisce è la ricorsività di piani in cui Pauline ed Emma sono inquadrate dietro i vetri. Del resto, come sottolinea Wertheimer:
se mai esistono luoghi ideali per l’individuo che versa in uno stato di smarrimento interiore, questi sono proprio i vani delle finestre, i vetri, gli infissi, le imposte. Gli elementi e le cornici di questi teatri in miniatura del ripiegarsi su di sé.[77]
Non sfuggono a tale postulato le due protagoniste, che addirittura vivono la loro relazione attraverso la mediazione continua di vetrine, pareti divisorie, lastre trasparenti, quasi a voler ritardare il più possibile il momento della rivelazione, del riconoscimento. Il filtro di tali superfici contribuisce a dilatare l’effetto di eco e rifrazione delle voci, e così ancora una volta sguardo e ascolto si rincorrono lungo la catena audiovisiva, disseminando indizi sonori e piani simbolici.
La macchina da presa non si limita a incorniciare volti e figure dentro i margini di una finestra, a volte colloca i personaggi sul balcone, altra soglia di una femminilità in transito:
Se la finestra suggerisce il doppio movimento dello sguardo – verso il fuori e verso l’interno – il balcone, lasciando cadere la geometria del limite e della cornice, promuove una relazione dello sguardo con l’ora, con l’aria, con il paesaggio che dissipa i confini temporali.[78]
A Pauline spetta, poi, lo scambio con un altro oggetto-confine, la porta: il suo riappropriarsi del tempo della coscienza passa, infatti, attraverso la penetrazione di spazi liminali, segnati da ingressi più o meno valicabili. Nonostante per Stoichita «la porta non attiene al visivo. Dalla porta si entra e si esce. Dalla finestra si guarda»,[79] la protagonista non fa che aprire e chiudere porte, e ogni volta questo gesto la vede farsi ombra nella luce, luce nell’ombra.
La pregnanza simbolica della finestra, e delle altre soglie disseminate nel testo, si riconnette alla virtualità del soggetto, alla sua latenza emotiva; il cinema di Marazzi, così votato alla messa in gioco del sé, non può fare a meno di segni tanto potenti. Non è un caso, allora, che l’ultima immagine del film sia una finestra chiusa, indice questa volta di una ritrovata serenità. L’inserto animato di Beatrice Pucci sublima il ricordo del matricidio, spalancando – solo metaforicamente – il sogno di una ritrovata armonia familiare. Mentre la voce off della madre-Alina guida lo spettatore dentro il sogno a passo uno («allora ci sono io, e mia figlia e mio marito, stiamo ricominciando un'altra vita»), la marionetta può cullare i suoi pupi, al riparo delle persiane chiuse.
Per lo spettatore vale a questo punto la lezione di Baudelaire: «Chi guarda da fuori attraverso una finestra aperta non vede mai tante cose quante ne vede chi guarda una finestra chiusa».[80]
1 I. Bergman, Lanterna magica [1987], trad. it. di F. Ferrari, Milano, Garzanti, 2008, p. 71.
2 A. Cati, Figure del sé nel film di famiglia, «Fata Morgana», IV, 15, settembre-dicembre 2011, p. 35. Cati utilizza il termine in riferimento al cinema amatoriale, che entra in gioco nella costruzione di Un’ora sola ti vorrei, ma in fondo la cifra espressiva di Marazzi resta fedele a questo modello, caratterizzandosi per l’oscillazione dialettica fra realismo documentario e soggettività.
3 Si assume qui l’espressione richiamandone l’accezione barthesiana: «Mi pareva così che la parola più giusta per designare (provvisoriamente) l’attrattiva che certe foto esercitano su di me fosse la parola avventura. La tale foto mi avviene, la talaltra no» (R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia [1980], trad. it. di R. Guidieri, Torino, Einaudi, 2003, p. 21).
4 I. Bergman, Lanterna magica, cit., p. 71.
5 A. Costa, Alina Marazzi: il documentario e il suo oltre, «DADI/WP», 22, novembre 2007, p. 9.
6 A. Aprà, La rifondazione del documentario italiano, in M. Bertozzi (a cura di), L’idea documentaria. Altri sguardi dal cinema italiano, Torino, Lindau, 2003, pp. 187-192. Marco Bertozzi nel suo importante volume sulla storia del documentario italiano insiste sul carattere innovativo di questa nutrita generazione di autori, capaci di dar vita a una nouvelle vague italiana della non fiction: cfr. M. Bertozzi, Storia del documentario italiano. Immagini e culture dell’altro cinema, Venezia, Marsilio, 2008.
7 A. Aprà, La rifondazione del documentario italiano, cit., pp. 191-192.
8 F. Grosoli, Doc in tv. L’esperienza di Tele+, in M. Bertozzi (a cura di), L’idea documentaria, cit., p. 351. Grosoli, nell’indicare tali categorie, sembra ridimensionare la novità creativa del documentario italiano, almeno all’altezza del 2003; tuttavia si accorge del carattere eccezionale di alcune opere, fra cui menziona Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi.
9 È la stessa Marazzi a descrivere le tre opere come parti di una trilogia: «ora sto lavorando a un terzo documentario, a formare una trilogia. […] È come se avessi deciso di proseguire la storia di Liseli attraverso il racconto della vita di altre donne, in una dimensione collettiva e condivisa che sarebbe diventata naturale anche per mia madre se avesse vissuto quel momento» (A. Marazzi, Un’ipotetica trilogia, in Ead., Un’ora sola ti vorrei, libro allegato al dvd, Milano, Rizzoli, 2006, p. 126).
10 Cfr. A. Pinotti, A. Somaini (a cura di), Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, Milano, Raffaello Cortina, 2009, p. 242.
11 A. Costa, Il sentimento della necessità. Alina Marazzi e Paolo Franchi, in Vito Zagarrio (a cura di), La meglio gioventù. Nuovo cinema italiano 2000-2006, Venezia, Marsilio, 2006, p. 210.
12 M. Bertozzi, Recycled cinema. Immagini perdute, visioni ritrovate, Venezia, Marsilio, 2012, p. 47.
13 G. Pedote, in G. Canova (a cura di), Alina Marazzi: Un’ora sola ti vorrei, «Duel», 99, 2002, p. 27.
14 Cfr. E.W. Bruss, Eye for I: Making and Unmaking Autobiography in Film, in J. Olney (edited by), Autobiography: Essays Theoretical and Critical, Princeton, Princeton University Press, 1980. Bruss inaugura, con la sua controversa posizione, un appassionato dibattito sulla legittimità di estendere la dimensione autobiografica al cinema; sull’argomento si rimanda a P. Lejeune, Cinéma et autobiographie: problèmes de vocabulaire, «Revue Belge du cinéma», 19, 1987, pp. 7-12; S. Lischi, Dallo specchio al discorso. Video e autobiografia, «Bianco e nero», LXII, 1-2, 2001; R. Bellour, Autoritratti [1988], in Id., Fra le immagini. Fotografia, cinema, video [2002], trad. it. di V. Costantino, A. Lissoni, Milano, Bruno Mondadori, 2007, pp. 289-363; L. Rascaroli, The Personal Camera. Subjective Cinema and the Essay Film, London & New York, Wallflower Press, 2009; Autoritratto, numero monografico di «Fata morgana», V, 15, settembre-dicembre 2011.
15 Su questi aspetti si veda L. Farinotti, La ri-scrittura della storia: «Un’ora sola ti vorrei » di Alina Marazzi e la memoria delle immagini, «Comunicazioni sociali», pp. 497-502.
16 È Agnès Varda a rivendicare la definizione di «documentario soggettivo»: cfr. A. Varda, Varda par Agnès, Paris, Éditions Cahier du cinéma, 1994, p. 71 e 147.
17 «Anni fa avevo incontrato delle novizie in un convento a Bergamo dove stavo girando Fuori dal mondo con Giuseppe Piccioni. Mi aveva colpito il fatto che delle ragazze italiane, magari laureate e cresciute in città, prendessero la decisione di farsi suore: una scelta per tutta la vita. Era un’idea che mi era rimasta in testa quando dopo Un’ora sola ti vorrei mi chiedevo cosa potessi fare» (A. Marazzi, Sister Act, intervista a cura di F. Pedroni, «Duellanti», 20, ottobre 2005, p. 10).
18 La ragazza al tempo delle riprese legge Il dio delle donne di Luisa Muraro, inquadrato più volte in dettaglio, e i suoi discorsi risentono del pensiero di Angela da Foligno, Simone Weil, Cristina Campo; la sua vocazione è un’esperienza illuminata da un coerente, e per certi aspetti spudorato, sistema filosofico, di cui diviene testimone ardente, fino alla scelta improvvisa di lasciare i voti e tornare alla vita ordinaria.
19 Sul fenomeno del found footage film si vedano almeno M. Bertozzi, Recycled cinema, cit.; Speciale Found footage, «Cinergie. Il cinema e le altre arti», 14, 2007; M Bloemheuvel, G. Fossati, J. Guldmond (edited by), Found Footage. Cinema Exposed, Amsterdam, Amsterdam University Press, 2012. Sul tema del destino delle immagini cfr. F. Zucconi, La sopravvivenza delle immagini nel cinema. Archivio, montaggio, intermedialità, Milano, Mimesis, 2013.
20 A. Zanzotto, Il cinema brucia e illumina. Intorno a Fellini e altri rari, a cura di L. De Giusti, Venezia, Marsilio, 2011.
21 Anita Caprioli, Teresa Saponangelo, Valentina Carnelutti prestano le loro voci alle donne protagoniste (in absentia) della storia; l’identità di queste donne non è rivelata dai loro diari, nel film – come ricorda la stessa Marazzi – si è convenuto di utilizzare solo i nomi propri «per enfatizzare il carattere soggettivo e intimista della scrittura […]. Utilizzare i tre nomi delle attrici […] è stato anche uno strumento di maggior coinvolgimento delle interpreti nei tre personaggi reali» (A. Marazzi, Una conversazione con Alina Marazzi e Silvia Ballestra, a cura di D. Persico, in A. Marazzi (a cura di), Le rose, libro allegato al dvd, Milano, Feltrinelli, 2008, p. 17).
22 L. Ravera, Introduzione a A. Marazzi (a cura di), Le rose, cit., p. 8.
23 T. Masoni, A. Zanetti, L’invisibile è politico, «Cineforum», 474, maggio 2008, p. 11. Sulle matrici sperimentali del film cfr. D. Zonta, Chi è cosa… “Vogliamo anche le rose” e il cinema underground italiano, in A. Marazzi (a cura di), Le rose, cit., pp. 83-97 e S. Lischi, Le libertà di Alina. Sperimentazioni e divagazioni dello sguardo nei film di Alina Marazzi, «Arabeschi», 1, 2.
24 L’espressione «rimediazione» è presa in prestito, seppur in accezione ridotta, dal fondamentale studio di Bolter e Grusin, dedicato ai processi di refashioning tra nuovi e vecchi media: cfr. J.D. Bolter, R. Grusin, Remediation. Understanding New Media, Cambridge (Massachusetts), Mit Press, 1999.
25 A. Aprà, Note sul cinema saggistico, «Filmmaker», 5, settembre 1996, p. 6.
26 Cfr. R. Bellour, Fra le immagini, cit.
27 Ivi, p. 73.
28 R. Bresson, Note sul cinematografo [1975], trad. it. di G. Bompiani, Venezia, Marsilio, 2008, p. 26.
29 R. Bellour, Fra le immagini, cit., p. 73.
30 R. Barthes, La camera chiara, cit., p. 56.
31 Per un’analisi dei processi emozionali legati ai dispositivi della visione si veda almeno: D. Freedberg, Il potere delle immagini. Il mondo delle figure: reazione e emozioni del pubblico [1991], trad. it. di G. Perini, Torino, Einaudi, 2010; R. Bellour, Le corps du cinéma, Paris, POL, 2009; Emozioni, numero monografico di «Fata Morgana», IV, 12, settembre-dicembre 2010; E. Carocci, Attraverso le immagini. Tre saggi sull’emozione cinematografica, Roma, Bulzoni, 2012.
32 L’intensità dello scambio umano e artistico tra Marazzi e Fraioli si coglie in A. Marazzi, I. Fraioli, Un’ora sola ti vorrei, in M. Bertozzi (a cura di), L’idea documentaria, cit., pp. 89-101.
33 Si fa riferimento al titolo dello studio di Pascal Bonitzer, riferimento imprescindibile per ogni riflessione intorno alle dinamiche dell’audiovisione: cfr. P. Bonitzer, Le regard et la voix, Paris, Union Générale d’Éditions, 1976.
34 Così Alina Marazzi definisce l’azione retorica di Pauline, sottolineando la capacità del personaggio di sospendere e riavviare la temporalità del film grazie al magnetismo del suo sguardo in macchina. Per ulteriori chiarimenti in merito a questo aspetto si rimanda alla videointervista contenuta nel presente numero.
35 M. Chion, La voce nel cinema [1982], trad. it. di M. Fontanelli, Parma, Pratiche Editrice, 1991, p. 77.
36 J. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2 [1985], trad. it. di L. Rampello, Milano, Ubulibri, 2010, p. 273. In verità si tratta di un’affermazione di secondo grado, dal momento che Deleuze si riferisce a un’espressione di Marion Vidal, relativa al cinema di Rohmer: cfr. M. Vidal, Le contes moraux d’Eric Rohmer, Parigi, Lherminier, 1967, p. 128.
37 M. Blanchot, L’infinito intrattenimento [1969], trad. it. di R. Ferrara, Torino, Einaudi, 1977, pp. 37-44: si tratta del titolo di un capitoletto in cui Blanchot critica l’esigenza ottica della tradizione occidentale, attraverso l’invenzione di un dialogo a due voci.
38 R. Barthes, L’ascolto [1976], in Id., L’ovvio e l’ottuso, trad. it. di G.P. Caprettini, Torino, Einaudi, 2001, p. 243.
39 Sul concetto di immagine-cristallo si rimanda a J. Deleuze, L’immagine-tempo, cit.; per una attenta lettura dell’impianto teorico messo a punto da Deleuze cfr. R. De Gaetano, Il cinema secondo Gilles Deleuze, Roma, Bulzoni, 1996.
40 A. Marazzi, Un’ora sola ti vorrei, cit., pp. 53-54. Per un ulteriore approfondimento sul motivo del rispecchiamento nel volto materno si rimanda a A. Cati, Un’ora sola ti vorrei: la ricomposizione del volto materno, «Fata Morgana», 4, 2008, pp. 177-182.
41 L’appassionata ricostruzione della genesi del film si legge in A. Marazzi, Un’ora sola ti vorrei, cit., pp. 7-31.
42 Ivi, p. 14.
43 Nel film Vent d’est (Vento dell’est, Francia, Italia 1969) è inserito un cartello con la scritta «Ce n’est pas une image juste, c’est juste une image».
44 M. Proust, Sodoma e Gomorra, citato in R. Barthes, La camera chiara, p. 70: si fa riferimento alla citazione di Barthes perché il richiamo a Proust è legato al discorso sulla funzione memoriale della fotografica, ancorata alla figura della madre e della nonna.
45 A. Marazzi, Un’ora sola ti vorrei, cit., p. 43.
46 H. Belting, Antropologia delle immagini [2002], trad. it. di S. Incardona, Roma, Carocci, 2011, p. 15.
47 P. Bertetto, Il soggetto e lo sguardo nel ritratto e nel primo piano, «Bianco & Nero», LXIV, 1-3 (fascicolo n. 547), inverno 2003, p. 201.
48 Implicitamente si richiama qui la suggestione di Epstein sulla forza del primo piano: «Il dolore è a portata di mano. Se allungo il braccio ti tocco, intimità. Conto le ciglia di quella sofferenza. Potrei sentire il gusto delle sue lacrime. Nessun viso si era mai avvicinato tanto al mio» (J. Epstein, Bonjour cinéma [1975], in Id., L’essenza del cinema. Scritti sulla settima arte, a cura di V. Pasquali, Venezia, Marsilio, 2002, pp. 32-33).
49 Sulla tessitura audiovisiva del cinema di Duras cfr. G. Deleuze, L’immagine-tempo, cit., pp. 277-288.
50 I. Fraioli, in A. Marazzi, Un’ora sola ti vorrei, cit., p. 22.
51 A. Marazzi, Un’ora sola ti vorrei, cit., p. 48.
52 L. Ravasi Bellocchio, Gli occhi d’oro. Il cinema nella stanza dell’analisi, Bergamo, Moretti&Vitali, 2004, p. 43.
53 A. Marazzi, Un’ora sola ti vorrei, cit., p. 100. Qualche tempo dopo, la regista torna a commentare la scelta di assumere l’identità della madre nella voce: «utilizzare la mia voce mi piaceva perché permetteva di creare una tensione: nella lettera è una prima persona a parlare al presente, che è il tempo del cinema […] e c’è una voce a interpretare la lettera. All’inizio non si capisce chi è, poi piano piano questa prima persona divento io, la figlia. […] se l’operazione era far riemergere quella vicenda, doveva mantenersi in una relazione con me e con lo spettatore al presente» (A. Marazzi, Storie familiari e conquiste politiche, incontro con D. Persico, in Cinema vivo. Quindici registi a confronto, a cura di E. Morreale, D. Zonta, Roma, Edizioni dell’asino, 2009, p. 152).
54 M. Chion, La voce al cinema, cit., pp. 73 e 89.
55 Ivi, pp. 65.
56 Si tratta di un brano estratto dalla banda sonora del film.
57 Sui processi di audiovisualizzazione di un testo scritto si veda D. Tomasi, Lettera da una sconosciuta, in Id., Lezioni di regia. Modelli e forme della messinscena cinematografica, Torino, Utet, 2004, pp. 83-118.
58 Per una prima definizione di acusma (e acusmatico) si rimanda a P. Schoeffer, Le traité des objects musicaux, Paris, Seuil, 1967, ma la più ampia indagine sul tema si deve a Chion: cfr. M. Chion, La voce al cinema, cit., pp. 31-73; Id., L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema [1990], trad. it. di D. Buzzolan, Torino, Lindau, 2001, pp. 74-82.
59 B. Atria, in A. Marazzi, Un’ora sola ti vorrei, cit., p. 73.
60 Ivi, p. 83.
61 Ivi, p. 101.
62 Ivi, p. 88.
63 A. Philippon, s.t., «Cahiers du cinéma», 347, maggio 1983, p. 67 (traduzione di Liliana Rampello). Su questo aspetto si veda G. Deleuze, L’immagine-tempo, cit., pp. 248-57. Il sogno di ‘drammatizzare’ la grafia risale ai movimenti d’avanguardia, come riporta Lischi a proposito del manifesto futurista in cui si annunciavano: «drammi di lettere umanizzate e animalizzate – drammi ortografici – drammi tipografici – drammi geometrici – sensibilità numerica» (S. Lischi, Il linguaggio del video, Roma, Carocci, 2005, p. 42).
64 H. Bergson, L’evoluzione creatrice [1907], trad. it di F. Polidori, Milano, Raffaello Cortina, 2002, p. 250.
65 Cfr. S. Moisdon, L’imagi-mère, in La famille, «La Recherche photographique», 8, 1990, pp. 67-70.
66 Si tratta di un estratto dalla banda sonora del film. La battuta si riferisce a uno dei tanti pensieri dolorosi appuntati da Liseli durante la reclusione in clinica; una richiesta di aiuto, quindi, ma anche il tentativo di ritrovare nello sguardo dei figli e del marito un possibile approdo, un filo di umanità.
67 Per una puntuale ricognizione della genesi del film si rimanda alla videointervista contenuta nel presente numero.
68 Si tratta di una battuta tratta dalla colonna audio del film. Valerio è l’unico personaggio maschile ammesso dentro l’orizzonte del film, consapevolmente sbilanciato nella direzione di una prospettiva femminile. La sua presenza è poco più di un raccordo tra le due soggettività in campo, quella di Pauline e quella di Emma, eppure la lezione della sua arte – il teatrodanza – serve a immettere nel racconto l’autenticità di una comunicazione non verbale, l’espressività del gesto. La fisicità dei suoi ballerini richiama la ferita emotiva di Emma, la sua incapacità di tornare a vivere le vibrazioni del proprio corpo. Sulle modalità di incontro e di lavoro di Alina Marazzi con la compagnia Fattoria Vittadini si rimanda alla sezione dedicata sul sito www.tuttoparladite.it
69 R. Bresson, Note sul cinematografo, cit., p. 98.
70 Per i concetti di punto di sincronizzazione e overlapping si rimanda a M. Chion, L’audiovisione, cit., pp. 62-67 e 52-53.
71 «Si chiameranno suoni in onda (on the air) i suoni presenti in una scena, ma trasmessi elettricamente per radio, telefono, amplificazione ecc., dunque sfuggenti alle leggi meccaniche dette «naturali» di propagazione del suono. Sempre di più, infatti, questi suoni di televisione, di autoradio o di interfono acquistano nei film che li utilizzano uno status particolare e autonomo. […] I suoni on the air, in teoria situati nel tempo reale della scena, oltrepassano dunque liberamente le barriere spaziali» (ivi, pp. 78-79).
72 Cfr. Ivi, pp. 164-165.
73 Per le traiettorie dell’incontro tra Marazzi e Ghizzoni si vedano l’approfondimento e i materiali presenti nello spazio dedicato del sito www.tuttoparladite.it .
74 J. Romney, La Double Vie de Véronique, «Sight and Sound», 210, marzo 1992.
75 Per una lettura delle marche stilistiche del cinema di Kieslowski si rimanda a N. Gobetti, «Se anche parlassi la lingua degli angeli». Lo spettacolo della soggettività femminile in La doppia vita di Veronica, «Garage», Torino, Edizioni Scriptorium, 1995, pp. 45-56, e S. Rimini, L’etica dello sguardo. Introduzione al cinema di Krzysztof Kieslowski, Napoli, Liguori, 2000.
76 J. Aumont, L’occhio interminabile. Cinema e pittura [1989], trad. it. di D. Orati, Venezia, Marsilio, 1998, p. 29.
77 J. Wertheimer, Sguardi attraverso finestre, «Quaderni di Synapsis», V, a cura di L. Bellocchio, trad. it. di L. Oreggioni, Firenze, Le Monnier, 2006, p. 186.
78 A. Prete, «De haut de ma mansarde». Lo sguardo, il ricordo, ivi, p. 156.
79 V. Stoichita, L’invenzione del quadro. Arte, artefici e artifici nella pittura europea, trad. it. di B. Sforza, Milano, Il Saggiatore, 1998, p. 54.
80 C. Baudelaire, Le finestre, in Id., Lo spleen di Parigi [1961], trad. it. di A. Berardinelli, Milano, Garzanti, 1989, p. 161.