Alina Marazzi (Milano, 1964) lavora, fin dai suoi esordi, nell’ambito del cinema documentario. Dopo un periodo di formazione a Londra, durante il quale ottiene un BA in Film and Television, rientra in Italia all’inizio degli anni Novanta e realizza i suoi primi mediometraggi documentari da regista: L’America me l’immaginavo (1991); Il declino di Milano (1992); Mediterraneo, il mare industrializzato (1993); Il Ticino è vicino (1995); Ragazzi dentro (1997), dedicato alla vita dei minori nelle carceri e realizzato, in due puntate, per Raidue; Il sogno infranto (1999), ambientato nella Romania post-comunista. Marazzi lavora inoltre come assistente alla regia, collaborando, tra gli altri, con Giuseppe Piccioni (Fuori dal mondo, 1999; Luce dei miei occhi, 2001), Giovanni Maderna (Questo è il giardino, 1999), Paolo Rosa di Studio Azzurro (Il Mnemonista, 2000). L’interesse per temi di carattere sociale si coniuga, nel corso degli anni Novanta, all’attenzione per forme filmiche sperimentali, come testimonia sia la collaborazione con Studio Azzurro sia l’esperienza a Fabrica, la factory artistica fondata a Treviso dai Benetton. È dunque in questo decennio che Marazzi definisce i tratti fondamentali della propria poetica cinematografica: la predilezione per il documentario; la sensibilità per soggetti di respiro sociale, trattati comunque da punti di vista particolari, che diano voce ai singoli e alla loro esperienza; l’interesse per il film d’arte.
Sono queste le premesse su cui si sviluppa il lavoro successivo della regista. Del 2002 è Un’ora sola ti vorrei – realizzato in collaborazione con la montatrice Ilaria Fraioli – che riceve, nello stesso anno, la menzione speciale al Festival Internazionale del Cinema di Locarno e al Festival dei Popoli di Firenze, e il premio come miglior documentario al Torino Film Festival. Realizzato quasi esclusivamente con materiale girato nell’arco di quasi cinquant’anni da Ulrico Hoepli, nonno materno della regista, Un’ora sola ti vorrei si presenta, tecnicamente, come un documentario sulla vita della madre di Alina, Luisella Hoepli, morta suicida nel 1972. Utilizzando il found footage e una voce fuori campo costruita a partire da documenti, lettere e diari scritti dalla donna, dall’adolescenza fino agli ultimi anni della sua vita, il film si serve della grammatica del documentario per ridare voce a un vissuto intimo.