D: Come è avvenuto il suo incontro con Anna Piaggi, e poi la scelta di dedicarle un documentario?
R: Il film è un ritratto postumo. L’avevo incontrata qui a Milano, la si notava. Insieme ad un’amica costumista dopo che Anna Piaggi è mancata ho avuto occasione di visitare il magazzino dove sono stati depositati tutti i suoi abiti, cappelli e accessori. E mi hanno colpito, non solo per la quantità. Lì mi è venuta la curiosità di tracciare un ritratto di questa donna eccentrica. Mi ha incuriosito la sua personalità originale, quello spirito libero che l’ha portata a dire sempre quello che pensava in un contesto rigido e severo com’è il mondo della moda. Non si è mai affiliata ad uno stilista in particolare, ad esempio. Ha sempre avuto una propria visione della moda che insieme alla sua particolare femminilità ha espresso nel modo di apparire. Come nei miei precedenti film, diversi da questo perché più impegnativi, anche questa volta c’è il tentativo di capire una donna che ha mantenuto la propria autonomia, indipendenza e originalità in un contesto che ha regole precise. Ancora quindi una donna libera e controcorrente, anche nella vita privata.

D: Prima di questo documentario conosceva già il mondo della moda?
R: No, né posso dire di conoscerlo adesso, benché abbia avuto contatti con diverse persone, tutte comunque amiche di Anna Piaggi, libere, stravaganti, originali. Ho tracciato un percorso dell’evoluzione della moda italiana dagli anni Sessanta ad oggi, che è nata principalmente negli atelier romani, e poi con il Made in Italy è diventata un’eccellenza nel mondo. È stato un passaggio non solo di costume, ma anche industriale, perché prima la moda si doveva ai sarti – che all’epoca non si chiavano stilisti o designer – i quali prima dell’avvento del prêt-à-porter lavoravano in modalità artigianale e su commissione. Con l’avvento di altre tecnologie del settore tessile e la diffusione del prêt-à-porter anche la comunicazione della moda è conseguentemente cambiata. Anna Piaggi ha iniziato a scrivere su Arianna, poi su Vogue e in precedenza ha fondato la rivista Vanity. Negli anni ottanta in queste riviste non si parlava tanto di un singolo abito o del colore di tendenza nella stagione in corso, quanto piuttosto di modi di essere e di apparire, di una visione della moda. E nel frattempo la moda è diventata accessibile a più classi sociali. Prima erano in pochi a farsi realizzare abiti in atelier, poi negli anni sessanta e settanta le donne, accedendo al lavoro, sono diventate più indipendenti e hanno iniziato così a potersi permettere ad esempio un abito Missoni alla Rinascente, e ad accedere ad un altro status. Nel mio film ci sono diverse immagini di repertorio che tracciano questo percorso cronologico. Anna Piaggi è stata testimone di tale cambiamento, non da stilista ma da giornalista, persona colta e attenta osservatrice della società. È diventata lei stessa una vetrina del cambiamento e delle provocazioni, di culto soprattutto all’estero in quanto attraverso il modo di vestire esprimeva una visione propria e un collegamento soprattutto con il mondo dell’arte. Le sue doppie pagine su Vogue sono diventare appuntamento fisso per coloro interessati alla moda come espressione di cambiamento sociale, seminando indizi, tracce, intuizioni.

D: In un’industria che esibisce i corpi, chi sperimenta in modo così diverso la corporeità rischia. A volte il suo eccedere nel vestire finiva quasi per coprirla…
R: Sì. Il modo di apparire di Anna Piaggi non è mai stato semplice ‘esibizione’. Non le interessava l’immagine stereotipata, ad esempio quella che esalta le forme tipiche della donna. Aveva un modo tutto suo di esprimere la femminilità. Come dice un intervistato nel documentario, era lei stessa un’opera d’arte. Una specie di laboratorio, una tavolozza su cui sperimentava facendo dei collegamenti con altre espressioni artistiche: pittura, fotografia, cinema o altro.

D: L’utilizzo di più linguaggi visivi è una caratteristica che avete in comune.
R: Sicuramente l’elemento del collage che è presente nei miei lavori è presente in Anna, nel suo modo di apparire. Spesso indossava elementi che non erano propriamente abiti (ad esempio anelli con tasti di computer se quel giorno era in atto un discorso sulla tecnologia) oppure abiti realizzati con tessuti che provenivano dall’arredamento o da scenografie. Era interessata al teatro russo d’avanguardia, e perciò ho inserito nel documentario uno spezzone dal Balletto triadico di Oskar Schlemmer, artista della Bauhaus, che lavorò su come il corpo si può espandere nello spazio attraverso corpi di danzatori-automi. Scultura e teatro delle avanguardie artistiche erano tra i riferimenti di Anna Piaggi.

D: Come vive la fase di promozione di un film, ad esempio quando lo presenta ai festival e la stampa a caccia di definizioni tende a costringerla in categorie già in uso, poco adatte ai suoi film?
R: I miei film hanno una cifra comune e il pubblico che mi segue sa cosa aspettarsi, perché ogni volta cerco di sperimentare qualcosa di nuovo. Sono film che hanno avuto una distribuzione sia nelle sale, sia in dvd, non scadono, continuano a vivere negli anni. Sono senz’altro passati più facilmente ai festival dedicati ai documentari, ad eccezione di Tutto parla di te, che contiene un elemento di finzione, e ha comunque girato i festival creando un’aspettativa diversa, ma è comunque un film di ricerca. Si è dovuto confrontare con film di finzione italiani, piuttosto omologati, quindi è stato recepito come un oggetto strano, non da tutti capito proprio perché sfuggiva alle catalogazioni. I miei film incontrano il pubblico in ragione di due elementi forti che richiedono attenzione: le tematiche e i linguaggi usati.
D: Avendo studiato cinema a Londra, quali trova siano le principali differenze nei risultati di chi sceglie di formarsi in questo settore in Italia rispetto a chi sceglie di formarsi all’estero?
R: I percorsi che portano una persona a fare film sono diversi. Il mio percorso non è stato quello di chi vuole fare cinema classico, e come si può vedere mi sono nutrita maggiormente di cinema sperimentale, di documentari e di altri linguaggi visivi. Non sono una che conosce il cinema classico a menadito. Non è un mio obiettivo fare cinema classico. Non è nelle mie corde, non è la mia cifra. Chi sceglie il Centro Sperimentale di Cinematografia forse ha altri obiettivi. Non vedo molta ricerca nel cinema di finzione tra i film italiani di oggi. Ne vedo di più nel documentario. I soggetti che finanziano film di finzione hanno in mente soprattutto il cinema classico e tendono a non scegliere progetti più sperimentali. Se devo citare un film di finzione che ha un tentativo di ricerca penso a Per amor vostro di Giuseppe Gaudino: ci sono inserti di animazione, quadri disegnati da lui stesso, etc. Sono sorprendenti all’interno di quel film, la cui storia forse è classica. Infatti ci ha messo dodici anni per fare questo film! L’intervento dell’animazione colpisce lo spettatore, ma anche il modo in cui è girato, scritto, la sua visionarietà. A volte non è chiaro se ciò che si vede è ciò che vede la protagonista oppure il frutto della sua immaginazione. È un film visionario, libero, apre a tanti livelli, complesso. Si intuisce tanto lavoro dietro, e pochi avrebbero sostenuto finanziariamente un film così, che richiede appunto del tempo. Mi ha colpito molto. Non dico che non ci sia ricerca nel cinema di finzione italiano, ma è più rigido. La pressione a conformarsi c’è, e diventa censura interiore. Spesso si rischia di andare in una direzione che non è quella scelta in origine.