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  • [Smarginature] Pelle e pellicola. I corpi delle donne nel cinema italiano →
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Studiare il corpo (e i corpi) al cinema significa anzitutto considerare due distinte, sebbene interrelate, dimensioni. Da una parte, i film (e in generale i prodotti audiovisivi) rappresentano i corpi: li traducono, cioè, in immagini visive e sonore costruite attraverso molteplici forme di sguardo, caricandoli di significati di volta in volta differenti, e proiettandoli fuori dal mondo fisico e carnale e dentro un universo di fantasie, modelli e repertori immaginari. Dall’altra, i corpi sono anche (e soprattutto) una delle materie principali attraverso cui il cinema, la televisione e le arti elettroniche formano e sviluppano il loro discorso, la loro “parola audiovisiva”: pensiamo, ad esempio, a come i gesti e le voci degli attori e delle attrici partecipino alla produzione e alla messa in forma del racconto nel cinema narrativo, a come la performance corporea stia spesso alla base delle sperimentazioni videoartistiche; o ancora alla centralità assoluta del corpo (parlante, danzante, cantante, in ogni caso “presente”) che ha caratterizzato la comunicazione televisiva fin dalle sue origini.

Pensare il corpo negli scenari mediali obbliga a misurarsi con un oggetto visibilissimo ma intimamente sfuggente. Allo stesso tempo portatore e produttore di senso, il corpo cinematografico si impone come rappresentazione (e, dunque, come incarnazione di una pluralità di significati sociali, culturali, autoriali, e così via) e insieme come entità performativa, capace di creare significati attraverso la propria fisicità.

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L’atelier delle Sorelle Fontana è, a partire dagli anni Cinquanta, il luogo della messa in scena, del rituale della vestizione delle attrici e il luogo dove si tenta finalmente la sintesi di cultura, moda, arte e cinema. Le Sorelle Fontana scoprono, attraverso la cultura alta delle case principesche, il fascino dell’abito ottocentesco che riprende l’impianto di quelli del rinascimento ed entrano dalla porta principale nell’industria cinematografica di Cinecittà diventando ambasciatrici di quell’italianità che vuole dire riscatto, nel dopoguerra, della dignità nazionale.

La storia delle Sorelle Fontana è piuttosto nota. Zoe, Micol e Giovanna nascono a Traversetolo, un paese nella provincia di Parma, e vengono avviate al mestiere dalla madre Amabile. 

La maggiore, Zoe, dopo brevi soggiorni a Milano e a Parigi dove studia i modelli di Chanel, Molineaux, Worth, Lelony, Patou, Schiapparelli, decide di lasciare definitivamente il paese natale per Roma, dove inizia a lavorare nella sartoria Zecca, di dichiarata ispirazione francese. Dopo qualche anno, la raggiungono le sorelle: Micol inizia come apprendista nella sartoria Battilocchi, mentre Giovanna cuce abiti in casa e nel frattempo intesse relazioni importanti con i futuri committenti dell’alta borghesia e dell’aristocrazia romana. Comincia così la loro avventura.

Attivano fin da subito una strategia imprenditoriale vincente. Mettono in atto, infatti, un processo di identificazione della loro immagine con i modelli di cui si fanno promotrici, costruendo per il pubblico un quadro di riferimento che abbina il nome della sartoria a quello delle molte attrici nazionali e internazionali, di passaggio a Cinecittà.

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«Il primo dovere di chi ha molto denaro è semplicemente spenderlo. Con grazia, se può» (Brin 1986, p. 159). Non sappiamo se avesse letto e apprezzato Bataille, ma certamente questa è la nozione di Ê»dépense secondo Clara Ràdjanny von Skèwitch, pseudonimo che nasconde la firma di Irene Brin, che a sua volta cela Maria Vittoria Rossi, giornalista e mercante d’arte, inviata italiana di moda della rivista Ê»Harper’s Bazaarʼ e fondatrice, assieme al marito Gaspare del Corso, della galleria L’Obelisco [fig. 1], che per prima portò in Europa un giovanissimo Rauschenberg. La definizione si può leggere sotto la voce ‘ricchi’ nel Dizionario del successo dell’insuccesso e dei luoghi comuni, ma occorre avere la fortuna di possederne una copia o essere riusciti a scorgerlo tra gli scaffali di una biblioteca, luogo dove certamente avremmo potuto trovare la contessa aggirarsi con cadenze misurate e silenziose. Il testo, che l’editore palermitano Sellerio pubblica postumo sotto il nome di Irene Brin nel 1986, è infatti per il momento fuori stampa. L’operazione di Sellerio ha il merito di restituirci la caustica penna della giornalista romana, ma certamente non brilla di rigore filologico: basti sapere che il volume riunisce due testi, entrambi a firma Contessa Clara, usciti rispettivamente nel 1953 e nel 1954 per i tipi dell’editore Colombo con il titolo Il galateo e I segreti del successo [fig. 2]. Fenomeno editoriale repentino e travolgente, la Contessa Clara si era già guadagnata all’epoca gli onori della satira: prima attraverso l’invenzione del personaggio radiofonico del Conte Claro da parte di un giovane Alberto Sordi; poco dopo, e per lungo tempo, nelle straordinarie e multiformi interpretazioni di Franca Valeri, che ne declinò i caratteri principali in numerosi personaggi, a partire dalla Signorina Snob [fig. 3]. Era lei, inoltre, il modello della parodia orchestrata da Steno nel film Piccola posta (1955), dove è sempre Franca Valeri a interpretare la baronessa Eva Bolavsky («polacca da parte di madre»), personaggio che risponde, da un appartamento alla periferia di Roma che condivide con Ê»mammàʼ, a lettrici affamate di consigli per affrontare al meglio le complessità della nuova società del benessere. La sua è la rubrica di punta di un rotocalco che affida alle sue lettere così désengagées la scalata di vendite. Siamo nella burrasca del miracolo economico, in un’Italia che s’immerge per la prima volta nella modernità della società di massa, e affronta l’urgenza della creazione di una classe media praticamente inesistente. E così, se Alberto Manzi insegnerà ai primi telespettatori a leggere, scrivere e far di conto nella trasmissione culto Non è mai troppo tardi, dieci anni prima Luigi Barzini jr., direttore del noto rotocalco La Settimana Incom Illustrata, aveva affidato a una vecchia nobildonna di origine russa, dal nome che omaggiava l’ottocentesca Contessa Lara di Evelina Cattermole, il compito di insegnare a lettori e lettrici l’importanza delle buone maniere. La rubrica, dal nome Ê»I consigliʼ, prende avvio nel numero del 24 dicembre 1949 a pagina 32, dove resterà appuntamento fisso a lungo, cogliendo gli spunti dati dalle decine di lettere che arrivavano in redazione e che fino a quel momento erano rimaste senza risposta. Avvolta nel mistero di una vita che si svelerà a tratti nelle risposte fornite ai lettori e alle lettrici, la contessa si presenta come donna curiosa, dotata del più grande tra i pregi dei dispensatori di consigli, nonché caratteristica femminile per eccellenza: l’ascolto. «Bambina, ero capace di fingere il sonno per ascoltare; ragazza, di fingermi innamorata per ascoltare; donna, di fingere la indifferenza, per ascoltare», scrive nel breve paragrafo che introduce la nuova rubrica. «Se li volete, darò dei consigli: si sono sempre rivelati eccellenti, nel corso della mia vita già così lunga, poiché sono lucida senza cinismo e logica senza noia». La penna di Maria Vittoria Rossi, già Irene Brin dalle sue prime collaborazioni con l’Omnibus di Leo Longanesi prima della guerra, riuscì dunque in poco tempo a disegnare, con la leggerezza di un linguaggio divertito che intrecciava osservazione antropologica e citazione letteraria, cultura popolare e tendenze aristocratiche, i contorni del perfetto e della perfetta borghese.

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Una versione più breve di questa intervista è già apparsa su Sentieri selvaggi

 

D: Come è avvenuto il suo incontro con Anna Piaggi, e poi la scelta di dedicarle un documentario?

R: Il film è un ritratto postumo. L’avevo incontrata qui a Milano, la si notava. Insieme ad un’amica costumista dopo che Anna Piaggi è mancata ho avuto occasione di visitare il magazzino dove sono stati depositati tutti i suoi abiti, cappelli e accessori. E mi hanno colpito, non solo per la quantità. Lì mi è venuta la curiosità di tracciare un ritratto di questa donna eccentrica. Mi ha incuriosito la sua personalità originale, quello spirito libero che l’ha portata a dire sempre quello che pensava in un contesto rigido e severo com’è il mondo della moda. Non si è mai affiliata ad uno stilista in particolare, ad esempio. Ha sempre avuto una propria visione della moda che insieme alla sua particolare femminilità ha espresso nel modo di apparire. Come nei miei precedenti film, diversi da questo perché più impegnativi, anche questa volta c’è il tentativo di capire una donna che ha mantenuto la propria autonomia, indipendenza e originalità in un contesto che ha regole precise. Ancora quindi una donna libera e controcorrente, anche nella vita privata.

D: Prima di questo documentario conosceva già il mondo della moda?

R: No, né posso dire di conoscerlo adesso, benché abbia avuto contatti con diverse persone, tutte comunque amiche di Anna Piaggi, libere, stravaganti, originali. Ho tracciato un percorso dell’evoluzione della moda italiana dagli anni Sessanta ad oggi, che è nata principalmente negli atelier romani, e poi con il Made in Italy è diventata un’eccellenza nel mondo. È stato un passaggio non solo di costume, ma anche industriale, perché prima la moda si doveva ai sarti – che all’epoca non si chiavano stilisti o designer – i quali prima dell’avvento del prêt-à-porter lavoravano in modalità artigianale e su commissione. Con l’avvento di altre tecnologie del settore tessile e la diffusione del prêt-à-porter anche la comunicazione della moda è conseguentemente cambiata. Anna Piaggi ha iniziato a scrivere su Arianna, poi su Vogue e in precedenza ha fondato la rivista Vanity. Negli anni ottanta in queste riviste non si parlava tanto di un singolo abito o del colore di tendenza nella stagione in corso, quanto piuttosto di modi di essere e di apparire, di una visione della moda. E nel frattempo la moda è diventata accessibile a più classi sociali. Prima erano in pochi a farsi realizzare abiti in atelier, poi negli anni sessanta e settanta le donne, accedendo al lavoro, sono diventate più indipendenti e hanno iniziato così a potersi permettere ad esempio un abito Missoni alla Rinascente, e ad accedere ad un altro status. Nel mio film ci sono diverse immagini di repertorio che tracciano questo percorso cronologico. Anna Piaggi è stata testimone di tale cambiamento, non da stilista ma da giornalista, persona colta e attenta osservatrice della società. È diventata lei stessa una vetrina del cambiamento e delle provocazioni, di culto soprattutto all’estero in quanto attraverso il modo di vestire esprimeva una visione propria e un collegamento soprattutto con il mondo dell’arte. Le sue doppie pagine su Vogue sono diventare appuntamento fisso per coloro interessati alla moda come espressione di cambiamento sociale, seminando indizi, tracce, intuizioni.

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