10.1. Appunti sul dandismo al femminile: la Contessa Clara alle radici della Signorina Snob di Franca Valeri

di

     
Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano →

«Il primo dovere di chi ha molto denaro è semplicemente spenderlo. Con grazia, se può» (Brin 1986, p. 159). Non sappiamo se avesse letto e apprezzato Bataille, ma certamente questa è la nozione di ʻdépense secondo Clara Ràdjanny von Skèwitch, pseudonimo che nasconde la firma di Irene Brin, che a sua volta cela Maria Vittoria Rossi, giornalista e mercante d’arte, inviata italiana di moda della rivista ʻHarper’s Bazaarʼ e fondatrice, assieme al marito Gaspare del Corso, della galleria L’Obelisco [fig. 1], che per prima portò in Europa un giovanissimo Rauschenberg. La definizione si può leggere sotto la voce ‘ricchi’ nel Dizionario del successo dell’insuccesso e dei luoghi comuni, ma occorre avere la fortuna di possederne una copia o essere riusciti a scorgerlo tra gli scaffali di una biblioteca, luogo dove certamente avremmo potuto trovare la contessa aggirarsi con cadenze misurate e silenziose. Il testo, che l’editore palermitano Sellerio pubblica postumo sotto il nome di Irene Brin nel 1986, è infatti per il momento fuori stampa. L’operazione di Sellerio ha il merito di restituirci la caustica penna della giornalista romana, ma certamente non brilla di rigore filologico: basti sapere che il volume riunisce due testi, entrambi a firma Contessa Clara, usciti rispettivamente nel 1953 e nel 1954 per i tipi dell’editore Colombo con il titolo Il galateo e I segreti del successo [fig. 2]. Fenomeno editoriale repentino e travolgente, la Contessa Clara si era già guadagnata all’epoca gli onori della satira: prima attraverso l’invenzione del personaggio radiofonico del Conte Claro da parte di un giovane Alberto Sordi; poco dopo, e per lungo tempo, nelle straordinarie e multiformi interpretazioni di Franca Valeri, che ne declinò i caratteri principali in numerosi personaggi, a partire dalla Signorina Snob [fig. 3]. Era lei, inoltre, il modello della parodia orchestrata da Steno nel film Piccola posta (1955), dove è sempre Franca Valeri a interpretare la baronessa Eva Bolavsky («polacca da parte di madre»), personaggio che risponde, da un appartamento alla periferia di Roma che condivide con ʻmammàʼ, a lettrici affamate di consigli per affrontare al meglio le complessità della nuova società del benessere. La sua è la rubrica di punta di un rotocalco che affida alle sue lettere così désengagées la scalata di vendite. Siamo nella burrasca del miracolo economico, in un’Italia che s’immerge per la prima volta nella modernità della società di massa, e affronta l’urgenza della creazione di una classe media praticamente inesistente. E così, se Alberto Manzi insegnerà ai primi telespettatori a leggere, scrivere e far di conto nella trasmissione culto Non è mai troppo tardi, dieci anni prima Luigi Barzini jr., direttore del noto rotocalco La Settimana Incom Illustrata, aveva affidato a una vecchia nobildonna di origine russa, dal nome che omaggiava l’ottocentesca Contessa Lara di Evelina Cattermole, il compito di insegnare a lettori e lettrici l’importanza delle buone maniere. La rubrica, dal nome ʻI consigliʼ, prende avvio nel numero del 24 dicembre 1949 a pagina 32, dove resterà appuntamento fisso a lungo, cogliendo gli spunti dati dalle decine di lettere che arrivavano in redazione e che fino a quel momento erano rimaste senza risposta. Avvolta nel mistero di una vita che si svelerà a tratti nelle risposte fornite ai lettori e alle lettrici, la contessa si presenta come donna curiosa, dotata del più grande tra i pregi dei dispensatori di consigli, nonché caratteristica femminile per eccellenza: l’ascolto. «Bambina, ero capace di fingere il sonno per ascoltare; ragazza, di fingermi innamorata per ascoltare; donna, di fingere la indifferenza, per ascoltare», scrive nel breve paragrafo che introduce la nuova rubrica. «Se li volete, darò dei consigli: si sono sempre rivelati eccellenti, nel corso della mia vita già così lunga, poiché sono lucida senza cinismo e logica senza noia». La penna di Maria Vittoria Rossi, già Irene Brin dalle sue prime collaborazioni con l’Omnibus di Leo Longanesi prima della guerra, riuscì dunque in poco tempo a disegnare, con la leggerezza di un linguaggio divertito che intrecciava osservazione antropologica e citazione letteraria, cultura popolare e tendenze aristocratiche, i contorni del perfetto e della perfetta borghese.

E se i suoi consigli spesso dispendiosi non potevano essere seguiti da tutti e da tutte, restavano tuttavia un modello da raggiungere, immagine a cui tendere nella speranza di poter diventare ricchi un giorno, se non di denaro almeno di bon ton. Così in ascensore «il tempo è argomento da preferirsi al riscaldamento, al portiere, al pettegolezzo di condominio» (Brin 1986, p. 26), mentre in casa è assolutamente indispensabile avere un «portaombrelli, costituito da una giara paesana o da una grossa anfora antica» (Brin 1986, p. 129); la sera non si può saltare il bagno caldo, passando «la pietra pomice su gomiti e ginocchia e molta lima sulle unghie» (Brin 1986, p. 33), e i denti si lavano ogni volta che si mangia visto che «un ottavo dei nostri giornali è dedicato ormai alle favole delle fanciulle e dei giovanotti che non si sposano, non si amano, non si capiscono, perché soffrono di alitosi» (Brin 1986, p. 68). Le calze devono essere semplicissime e, comunque, «in nessun caso fermare con la saliva una maglia che si sta sfilando» (Brin 1986, p. 46). Superfluo ricordare che un guardaroba insufficiente può compromettere la tenuta sociale, ma basteranno pochi strategici capi per renderlo perfetto sia per gli uomini che per le donne. E se per i primi «meno fronzoli, meno errori sia un motto definitivo», per le seconde «i guanti di gomma, per sbrigare le faccende domestiche, non sono un capriccio: sono un dovere» (Brin 1986, p. 98).

Rimarremmo delusi, tuttavia, se ci aspettassimo dalla contessa il piglio della donna emancipata, novella ʻsuffragettaʼ in un’Italia che aveva da poco concesso il suffragio universale. Seguendo l’espediente di una radice ottocentesca, e in realtà contribuendo a forgiare l’immagine femminile della rassicurazione borghese, Clara predilige la donna che non esce dai margini di un’apparente e accettata subalternità. Apparente, sì, perché la subalternità della donna tratteggiata da Clara ha la consistenza di una veletta per cappelli ormai passati di moda, come la sua penna non avrebbe mancato di sottolineare. Nella privatissima dimensione del femminile che la contessa scolpisce, emerge infatti la caparbietà di un vivere fuori dal patriarcato versione neocapitalista, dove la tecnica, gli specialismi e le logiche della produttività rendono l’esistenza asfittica e, usando le parole di Bataille su cui crediamo Clara avrebbe concordato, «piatta e insostenibile» (Bataille 2015, p.42). Non è un caso se la voce ʻDandysmeʼ ha le sembianze di un piccolo manifesto: «E adotto l’ortografia francese di questa parola anglosassone, per poter citare Baudelaire, e la sua formula di successo: “Dandysme: qu’est-ce que l’homme supérieur? Ce n’est pas le spécialiste. C’est l’homme de loisir et d’éducation générale”» (Brin 1986, p. 68). È lì, in quel ‘loisir’ che tutto può incrinare, che si cela la forza di una donna che certo non marcerà per le strade, ma nondimeno potrà increspare, con la carezza di un guanto di pizzo, la superficie di un patriarcato stanco.

E allora solo uno sguardo disattento potrebbe non cogliere piccoli sommovimenti in dettagli minuti come un rossetto per guance, che la ‘faccia a cuore’ avrà «il più alto possibile», quella oblunga avrà «al centro», quella ovale «sotto l’occhio» (Brin 1986, pp. 78-79). D’altra parte, le ‘trasformazioni’ sono «apprezzabili, ma solo se machiavelliche», e «una donna ha il diritto di cambiare pettinatura ogni mattina ed ogni sera, se crede, di presentarsi a colazione come una ragazzina ed al ballo come una vampira» (Brin 1986, p. 195). E perché non incrinare, con la leggerezza di una conversazione che ha il potere della guerriglia, le vecchie formule della vanagloria maschile? Cosa accadrebbe, per esempio, se di fronte alle trite seduzioni da treno, quella fiacca ‘galanteria ferroviaria’, le donne rispondessero con parole inattese? «Se la donna acconsentisse, che imbarazzo! Interrompere il viaggio? […] E con che esperienza, se di solito è sempre mammà che in anticipo fissa le camere d’albergo, stabilisce i prezzi e salda i conti? […] Chi volesse provocare un colpo apoplettico nei commendatori ed uno svenimento negli adolescenti, potrebbe divertirsi a rispondere: ‘Grazie voglio una sigaretta, un giornale, una caramella e sono pronta a passare quindici giorni nel ridente paesello di Orte!» (Brin 1986, p. 91).

Toccherà quindi leggere con la lente della dissimulazione ciò che scrive per le ‘emancipate’, che «han fatto quello che, secondo me, secondo i pregiudizi, secondo la saggezza, non dovevano fare. Se ne trovano bene? Naturalmente no, anche se non sono abbastanza ragionevoli per ammettere che gli errori si scontano.» Ma l’empatia di qualche riga dopo affiora come un effetto perturbante: «Ebbene sì, potevano immaginare tutto. E potevano, si intende, anche immaginare in se stesse il vuoto, la paura, l’inquietudine, il complesso d’inferiorità perpetua, la gelosia, il rimpianto» (Brin 1986, pp. 75-76).

È il prezzo della liberazione, che vent’anni dopo le donne italiane cercheranno con ostinazione e coraggio, ma che certamente non avrebbe avuto luogo se prima qualcuna non avesse preparato la strada con la stessa cura con cui per molti anni aveva organizzato una festa, «facendo[si] aiutare da madri, sorelle e cugine» (Brin 1986, p. 149); se prima qualche Signorina Snob non avesse coltivato, pur con ironia e con leggerezza, le gioie dell’inutile, magari tingendosi le unghie di «un tiziano quarta maniera».

 

 

Bibliografia

I. Brin, Dizionario del successo dell’insuccesso e dei luoghi comuni, Palermo, Sellerio, 1986.

G. Bataille, La parte maledetta preceduto da La nozione di dépense, Torino, Bollati Boringhieri, 2015.

Contessa Clara, ‘I consigli’, in La Settimana Incom Illustrata, anno II n. 51, 24 dicembre 1949.

C. Fusaini, Mille Mariù. Vite di Irene Brin, Roma, Castelvecchi, 2012.