10.2. Una sintesi tra cultura, moda, arte e cinema: le attrici vestite dalle Sorelle Fontana

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  • [Smarginature] Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano →

L’atelier delle Sorelle Fontana è, a partire dagli anni Cinquanta, il luogo della messa in scena, del rituale della vestizione delle attrici e il luogo dove si tenta finalmente la sintesi di cultura, moda, arte e cinema. Le Sorelle Fontana scoprono, attraverso la cultura alta delle case principesche, il fascino dell’abito ottocentesco che riprende l’impianto di quelli del rinascimento ed entrano dalla porta principale nell’industria cinematografica di Cinecittà diventando ambasciatrici di quell’italianità che vuole dire riscatto, nel dopoguerra, della dignità nazionale.

La storia delle Sorelle Fontana è piuttosto nota. Zoe, Micol e Giovanna nascono a Traversetolo, un paese nella provincia di Parma, e vengono avviate al mestiere dalla madre Amabile. 

La maggiore, Zoe, dopo brevi soggiorni a Milano e a Parigi dove studia i modelli di Chanel, Molineaux, Worth, Lelony, Patou, Schiapparelli, decide di lasciare definitivamente il paese natale per Roma, dove inizia a lavorare nella sartoria Zecca, di dichiarata ispirazione francese. Dopo qualche anno, la raggiungono le sorelle: Micol inizia come apprendista nella sartoria Battilocchi, mentre Giovanna cuce abiti in casa e nel frattempo intesse relazioni importanti con i futuri committenti dell’alta borghesia e dell’aristocrazia romana. Comincia così la loro avventura.

Attivano fin da subito una strategia imprenditoriale vincente. Mettono in atto, infatti, un processo di identificazione della loro immagine con i modelli di cui si fanno promotrici, costruendo per il pubblico un quadro di riferimento che abbina il nome della sartoria a quello delle molte attrici nazionali e internazionali, di passaggio a Cinecittà.

Questa fortunata operazione pubblicitaria è anticipata, nel 1949, dal successo ottenuto con la realizzazione dell’abito da sposa di Linda Christian, in occasione del suo matrimonio con Tyron Power, di cui la stampa specializzata diffonde le immagini, contribuendo implicitamente a far conoscere la sartoria in un’epoca in cui i volti degli artefici della moda sono ancora per lo più anonimi in Italia, diversamente da quanto accade a Parigi [fig. 1].

L’abito di Linda, realizzato in raso e pizzo con uno strascico lungo diversi metri, diviene presto il vero e proprio biglietto da visita delle Fontana anche negli Stati Uniti. Le tre stiliste, grazie a quell’abito da favola, diventano promotrici di una moda italiana che di lì a poco occuperà la scena internazionale. La loro notorietà cresce rapidamente quindi, proprio grazie alla ‘colonizzazione’ hollywoodiana degli studi cinematografici di Roma. Lo stile Fontana è congeniale alle esigenze del cinema: i capi d’abbigliamento romantici, soprattutto quelli da sera, sono ricchi di ricami, di pizzi e di fiori; sono quanto di più adatto si possa pensare alle storie sentimentali che il cinema propone. E le attrici – soprattutto quelle americane, con un’attitudine più marcata delle nostrane al look romantico – adottano questo stile anche fuori dal set, coerenti (per scelta, ma soprattutto per necessità contrattuale) all’immagine che viene di loro proposta sul grande schermo. Presto, infatti, tra le clienti dell’atelier si annoverano i nomi delle stelle più luminose del firmamento hollywoodiano: Mirna Loy, Barbara Stanwich, Michelle Morgan, Audrey Hepburn (prima del suo storico sodalizio con Givenchy ovviamente) e, più di tutte, Ava Gardner. Per la Gardner, oltre a diventare le stiliste di fiducia in privato, le Fontana realizzano i costumi di scena per molti film, tra cui La contessa scalza del 1954, Il sole sorgerà ancora del 1957 e L’ultima spiaggia del 1959. E creano inoltre per lei il noto ‘pretino’ (abito dalla linea talare, in lana e seta, svasato e profilato di bottoncini lungo fino a poco sotto il ginocchio e completato da un cappello ‘saturno’ in testa e un crocifisso sul petto), ripreso poi da Piero Gherardi per vestire Anita Ekberg nella Dolce Vita (1962) di Federico Fellini [fig. 2].

Le visite delle attrici nell’atelier fanno notizia. I giornali di tutto il mondo pubblicano le foto delle stiliste al lavoro sugli abiti che le spettatrici sognano e desiderano. E così, i capi vaporosi e sognanti delle Fontana acquisiscono una valenza quasi mitologica.

Tra il 1949 dunque (anno delle famose nozze Power-Christian) e il 1950 (anno santo, che elegge le Fontana come le sarte più importanti del Paese), le tre sorelle arrivate dalla provincia di Parma costruiscono un marchio che segnerà la storia della moda internazionale.

Ma è il 12 febbraio del 1951 la data che consacra definitivamente le stiliste come regine dell’italian style. In quell’anno a Firenze l’imprenditore Giovan Battista Giorgini fa sfilare nella sua villa, di fronte ai giornalisti e ai buyer statunitensi, modelle in abiti di alta moda romana, fiorentina e milanese. È il “First Italian High Fashion Show” e le Fontana sbaragliano la concorrenza. L’evento ha forte risonanza nella stampa di settore, grazie anche all’editor italiana di Harpers Bazar, Irene Brin, che pubblicizza all’estero l’evento e contribuisce a creare l’idea della nascita di una moda italiana finalmente disgiunta da Parigi.

Esattamente un anno dopo, nel febbraio del 1952, esce nelle sale italiane il film di Luciano Emmer, Le ragazze di Piazza di Spagna. La pellicola si concentra prevalentemente sulle vicende personali e sentimentali di tre giovani ragazze appartenenti alla classe proletaria dei sobborghi romani, che lavorano come sarte nell’atelier delle Sorelle Fontana. La sceneggiatura di Sergio Amidei non ha certo come obiettivo principale quello di valorizzare la nascente industria della moda. Tuttavia, la sartoria – che in tre anni era passata da 20 a 300 dipendenti – la nuova figura dell’indossatrice e il moltiplicarsi degli eventi dedicati alla moda, (i cosiddetti defilé), sono l’ambiente adatto in cui collocare le vicende, i sogni e le speranze delle giovani generazioni appena uscite dal conflitto bellico. Lucia Bosè, Cosetta Greco e Liliana Bonfatti sono le protagoniste della pellicola; è alla Bosé, che interpreta la bella Marisa, che tocca la sorte migliore, quella di lasciare il banco della sartina e diventare un’indossatrice [fig. 3]. Il film è un esempio significativo del rapporto che si instaura tra il sistema moda e il divismo nazionale e internazionale nel secondo dopoguerra. La scelta di cast ne è la prova: il corpo, prima ancora del volto di Lucia Bosè, occupa grande spazio nei rotocalchi popolari femminili e in quelli specializzati.

Come già accennato, l’obiettivo della moda italiana in questo momento storico è quello di intercettare il mercato americano. E non solo le Fontana si fanno pubblicità attraverso le star ma portano negli Stati Uniti tre indossatrici della casa, con una doppia finalità: il lancio del film di Emmer e la pubblicità delle loro collezioni. Tra le tre indossatrici vestite con i colori della bandiera italiana, che presentano l’atelier e il film, c’è anche l’ancora sconosciuta al grande schermo Elsa Martinelli; è proprio grazie alle foto che appaiono sulle riviste di moda statunitensi che pochi anni dopo Kirk Duglas vorrà la Martinelli al suo fianco per il western Il cacciatore di indiani, e getterà le basi per la carriera internazionale dell’attrice.

Le ragazze di piazza di spagna ha anche il merito di mostrarci il modus operandi delle Sorelle Fontana nell’atelier. Vediamo infatti Zoe costruire l’abito da gran sera che Marisa indosserà durante un defilé in ogni passaggio. Dapprima il corpetto, poi la sottoveste e infine la gonna ampia. Si tratta di un lavoro di stratificazione di stoffe effettuato sul corpo, dove il progetto iniziale, quello disegnato sui bozzetti, assume esclusivamente il ruolo di suggestione, di spunto [figg. 4-5].

Il disegno di moda è spesso un disegno di progetto, ma in molti casi è un lavoro a posteriori dedicato all’illustrazione per le riviste di moda o per i rivenditori.

Il disegno di progetto è raramente conservato negli archivi perché il più delle volte è stato distrutto in fase di realizzazione. I bozzetti conservati negli archivi sono più frequentemente quelli realizzati per la pubblicazione. Sono elaborati da abili mani formatesi spesso nelle Accademie d’arte. Comunicano le informazioni essenziali sulla struttura dell’abito con un’attenzione particolare ai colori e alla linea. Questi disegni propongono una forma convenzionale, quella tipica, allungata, ricurva, assottigliata dei corpi, che siamo soliti chiamare figurini. I disegnatori sono dunque facilmente riconoscibili nel loro tratto e questo testimonia, se avessimo un dubbio al riguardo, che gli atelier come quello delle Fontana sono delle imprese e come tali si servono di progettisti esterni nella gran parte dei casi.

Ci è possibile dunque, in funzione di un’analisi dell’abito indossato da Lucia Bosé nel film di Emmer, identificare una serie di bozzetti, destinati alla pubblicazione, che richiamano da vicino quello effettivamente costruito sul corpo di Lucia Bosé. I bozzetti presi in esame sono conservati nell’archivio CSAC di Parma, donati dalle Sorelle Fontana. Due sono gli autori di questi disegni: Renato Balestra e Antonio Pascali. Renato Balestra stilizza la figura femminile che si allunga fino a diventare sottilissima, quasi un manichino incorporeo, privilegiando quasi esclusivamente la presenza dell’abito [figg. 6-7]. Usa due prospettive diverse: il busto della donna sembra quasi ruotare, la testa è girata rispetto a chi guarda, l’abito invece, dal corpetto in giù è visto quasi frontalmente. Antonio Pascali (il disegnatore più produttivo all’interno dell’atelier) definisce invece volto del figurino, la postura è fiera, esprime una forte personalità femminile [fig. 8].

La costruzione dell’abito d’alta moda ad opera delle Sorelle Fontana, come ci mostra il film di Emmer, attraversa diversi passaggi. La stoffa gessata sul tavolo, poi tagliata, è la parte iniziale, e il bozzetto è l’equivalente di uno schizzo, di un’idea progettuale posata sul tavolo della sarta. La trasformazione avviene dopo, per gradi e sul corpo esile e fiero della mannequin che assume un ruolo determinante nel percorso creativo dello stilista. Il disegno di moda rappresenta dunque, in una certa misura, la testimonianza, la conferma di questo processo di lavorazione dove i ricami sapienti, le fodere di garza, velluti e rasi intagliati, tulle e trine, nastri e intarsi, si alternano e si stratificano con misurata eleganza.

Un elemento in particolare, in conclusione, emerge dall’analisi del lavoro di questo atelier che fa del rapporto con le dive del cinema il suo elemento strategico: la predilezione per il modello\divo è strumentale a legare l’immaginario femminile a un universo, quello del cinema, molto più trasversale e vasto di qualsiasi altra convenzione sociale legata agli abiti, garanzia di una visione sublime e nel contempo familiare. Divo e vestito di moda sono un’accoppiata pragmaticamente più efficace del manichino o della modella, più adatti di questi a una sfilata. Nell’immaginario collettivo il divo gode di una seconda vita in immagine, omogenea, in ipotesi, allo statuto dell’abito tout court. L’abito, infatti, come ci dice Hans Belting nel suo Antropologia delle immagini, «nasconde un corpo con lo scopo ultimo di mostrare su di esso ciò che esso stesso non potrebbe mettere in mostra e farne così un’immagine».

 

 

Bibliografia

H. Belting, Antropologia delle immagini, Roma, Carocci, 2013.

G. Bianchino, R. Bossaglia (a cura di), Sorelle Fontana, catalogo della mostra, Parma, Salone delle Scuderie in Pilotta, 1984, Parma 1984 (CSAC, Università di Parma, Quaderni 63).

G. Bianchino (a cura di), Italian Fashion Designing. 1945-1980, catalogo della mostra, Parma, Salone delle Scuderie in Pilotta, 1987, Parma 1987 (CSAC, Università di Parma, Quaderni 69).

G. Bianchino, A.C. Quintavalle (a cura di), Nove100 Arte, fotografia, architettura, moda, design, catalogo della mostra, Palazzo del Governatore, Galleria S. Ludovico, Salone delle Scuderie, Parma 16 Gennaio-25 Aprile 2010, Milano, Skira, 2010.

I. Danelli, ‘Sorelle Fontana’, in G. Bianchino, A.C. Quintavalle (a cura di) Il Rosso e il nero. Figure e ideologie in Italia 1945-1980, catalogo della mostra, Parma, Salone delle Scuderie in Pilotta, 1999-2000, Milano 1999, pp. 200-203.

Annabella, 7, 13 febbraio 1949.

Annabella, 37, 11 settembre 1949.

Annabella, 36, 5 febbraio 1948.

Bellezza, 10, ottobre 1950.