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  • Barbablù. Il mito al crocevia delle arti e delle letterature →

 

 

Bluebeard è il dodicesimo romanzo di Vonnegut, uno tra gli ultimi (saranno quattordici in tutto). Esce nel 1987 (anche se, nel consueto mondo paradossale in cui abita la fantasia vonnegutiana, racconta la vita di un personaggio che nasce nel 1916 e muore nel 1988) e riceve un’accoglienza tiepida da parte della critica, alla quale sembra ormai esaurita la vena del grande ventennio che intercorre tra Mother Night (1962) e Deadeye Dick (1982), con al centro Slaughetrhouse Five (1969), l’opera che dischiude all’autore americano le porte della fama e del successo [fig. 1]. In questa generale disattenzione sembra che chi si è occupato del romanzo si sia poco curato di metterne in relazione il titolo alla storia (Mustazza 1994, p. 287 segg.), forse dando il collegamento per scontato, e assecondato in questo dallo stesso Vonnegut con le sue dichiarazioni, come ad esempio in una lettera del 20 gennaio 1987 a Peter Reed, in cui afferma di essere sul punto di concludere un nuovo romanzo «su un pittore dell’espressionismo astratto che a settant’anni passati ripensa alla fondazione di quella scuola di radicale non-rappresentazione. S’intitola Barbablù perché il protagonista tiene un dipinto chiuso a chiave che nessuno dovrà guardare finché lui non sarà morto» (Vonnegut 2012, p. 315).

In effetti vi è un macro-livello nella storia in cui il riferimento a Barbablù è esplicito: Rabo Karabekian, il pittore che ne è protagonista, tiene nascosto qualcosa nel suo patataio e vieta l’ingresso in quello spazio di cui custodisce gelosamente la chiave a chiunque, in particolare a Circe Berman, non propriamente sua moglie ma una vedova che Rabo, anziano e vedovo lui stesso, invita a vivere in casa con lui a East Hampton, dopo averla incontrata in spiaggia. A lei che gli chiede per la prima volta e con insistenza che cosa contenga il capannone, Rabo risponde: «Senta, pensi a qualcos’altro, a qualsiasi altra cosa. Io sono Barbablù e quello studio è la mia stanza proibita per quanto la riguarda» (Vonnegut 2007, p. 48).

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  • [Smarginature] Pelle e pellicola. I corpi delle donne nel cinema italiano →

1. La metafora animale

Tutto il cinema di Ferreri può essere letto come una sorta di grande bestiario grottesco sulle disavventure del corpo nello scenario della contemporaneità; i suoi film sembrano illustrazioni quasi ‘fumettistiche’ (per la loro paradossalità e paradigmaticità) delle teorie sul potere biopolitico che Foucault elabora soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni settanta. I dispositivi economico-sociali-tecnologici-culturali vengono indicati come strumenti alla base dell’assoggettamento, della subordinazione e della disciplina dei corpi, senza distinzioni di genere. Per Ferreri le dinamiche della storia comportano l’allontanamento dell’essere umano dalla propria costituzione animale, la costrizione e la perdita progressiva della dimensione corporea, identificata come l’unico luogo autentico di una conoscenza strettamente connessa all’esperienza e al suo tessuto multiforme di materie, bisogni, desideri, sogni.

Nel configurare le devastazioni operate dalla storia sul corpo, l’autore rappresenta il soggetto maschile come un’entità instabile e disperata. Se, da una parte, l’uomo continua a forgiare il corpo della donna in quanto superficie di segni perfettamente rispondente all’esigenza di un controllo e di una dominazione – facendone di volta in volta una macchina feticistica, un manichino (Marcia nuziale, 1966), una cosa inerte (Dillinger è morto, 1969), un simulacro sostitutivo (I Love You, 1986), una carne di consumo (La carne, 1991) – dall’altra è anch’egli vittima del sistema che autorizza il suo ruolo di carnefice; è, in definitiva, un soggetto sopraffattore e allo stesso tempo sopraffatto dagli stessi dispositivi di relazioni e di dominio che tenta di amministrare.

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  • [Smarginature] Pelle e pellicola. I corpi delle donne nel cinema italiano →

Uno speciale del 1978, curato da Ruggero Miti per la Rai, è probabilmente la prima presentazione al grande pubblico di Gianna Nannini. Le inquadrature iniziali sono iterati, lunghi dettagli: mani sulla tastiera del pianoforte, un ciuffo che cade a coprire il volto, una testa di Beethoven. Scelta singolare, quasi si voglia nascondere il soggetto, ma non per svelarlo con un coup de théâtre, piuttosto per circospezione, indecisione nel maneggiarlo visivamente [fig. 1]. Soggetto strano, evidentemente: potrebbe suonare forse perturbante, specie se accostato alle tipologie di cantanti e donne di spettacolo che hanno popolato il set audiovisivo italiano, che pure ne ha viste di Ê»ragazzacceʼ (pensiamo ai programmi televisivi e ai musicarelli con Caterina Caselli, Rita Pavone). Ma Nannini, che debutta come cantautrice femminista, non è ascrivibile alla categoria giocosa del comme un garçon. È una novità di cui si avverte l’irregolarità, fatta di assenza di compiacimento, spigolosità epidermica, ruvidezza vocale (riflessa in quella testuale); anomalia che proseguirà lungo i capitoli della narrazione visiva della cantautrice, segnati da una produzione originale, che dopo il crescendo degli anni Ottanta si è assestata in una posizione di eccellenza. La storia audiovisiva di Nannini si offre per esplorare un femminile già fisicamente eccentrico, di difficile trattamento visivo, che si è imposto senza abdicare all’anomalia, ma addirittura amplificandola con i mezzi della comunicazione più popolare. La lettura delle origini della sua immagine diventa in questo modo il tramite per cogliere meccanismi di affermazione di sensibilità nuove, difficilmente chiosabili, che il dispositivo promozionale ha immesso in un discorso più ampio. L’utilizzo, per definire la Ê»superficieʼ Nannini, di termini quali stranezza, eccentricità, diversità, suggerisce, pur con la cautela del caso, il termine queer.

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Già nel 1967, con il suo Films and Feelings (Faber & Faber), Raymond Durgnat coglieva uno dei nessi cruciali del rapporto fra estetica filmica, sociologia e divismo: «Le star sono un riflesso nel quale gli spettatori scrutano e adeguano la propria immagine di se stessi [...]. La storia sociale di una nazione può essere scritta alla luce delle sue star cinematografiche» (pp. 137-138). Su questa scia Reich e O’Rawe orientano lo studio dedicato ai divi nostrani (Divi. La mascolinità nel cinema italiano, Donzelli 2015), un testo che offre una galleria di ritratti agili ma rigorosi, posti dentro una cornice marcatamente teorica. La doppia matrice del discorso, divulgativa e accademica a un tempo, lungi dal disperdere il denso patrimonio di storie e riflessioni di cui il volume si compone, offre invece un appiglio sicuro agli studiosi di cinema e un viaggio a occhi aperti nel variegato mondo delle stelle made in Italy ai curiosi di costume e ai fan di ogni età.

La prima parte del testo, articolata in quattro sezioni (I. Mascolinità all’italiana, II. Divismo, divi e storia italiana, III. L’italianità del divismo italiano, IV. Star studies, interpretazione, celebrità e nuovi media), chiarisce le premesse metodologiche dello studio mettendo in campo le diverse implicazioni che il tema porta con sé. Le autrici dichiarano immediatamente di voler analizzare la «mascolinità all’italiana» attraverso tre componenti essenziali – divismo, italiano, maschile – declinate però in ordine inverso: si parte da questioni relative al genere, si inquadra poi «la celebrità in una prospettiva storica» per giungere infine all’esplicitazione del concetto di «italianità» (p. 5). L’esito di tale ‘pedinamento’ è l’individuazione di alcuni caratteri peculiari della mascolinità italiana: l’importanza della sfera pubblica come spazio identitario, l’ossessione per «la bella figura» (p. 6), la relazione dialettica con i codici della castità femminile, da cui discende la rilevante reputazione del maschio, nonché la protezione del suo onore. Se l’esibizione della virilità in pubblico rappresenta per l’uomo mediterraneo una sorta di imperativo, i culti della mascolinità richiedono «“costante vigilanza e difesa” contro le minacce della femminilizzazione, della sessualità femminile e dell’omosessualità» (p. 7). Fin qui, in poche ma incisive battute, la premessa di genere del discorso, che lascia fuori campo l’attualità del dibattito intorno alle politics of queers[1] ma insiste efficacemente sulla dialettica tipicamente italiana fra maschile e femminile. Rispetto a tale quadro – da intendersi come realtà in divenire – il cinema è stato in grado di rappresentare e (de)codificare le oscillazioni economiche, sociali, politiche e culturali dell’Italia del XX e del XXI secolo, dando corpo a figure del desiderio dai tratti mossi, ambigui, e per questo tanto più affascinanti anche se spesso (come nel caso del divismo maschile) rimaste in ombra, almeno sul versante degli studi di settore. A fronte di un cospicuo dibattito sulle star italiane (si pensi alla popolarità nazionale e internazionale di Sophia Loren), è mancata finora una riflessione attenta sulle funzioni culturali e artistiche del divismo maschile, ed è proprio da questa mancanza che prende le mosse il discorso di Reich e O’Rawe.

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