Non sto dicendo che riesco costantemente rimanere fedele a questo principio, nel mio lavoro, ma mi sembra che la grossa distinzione fra grande arte e arte mediocre stia nello scopo da cui è mosso il cuore di quell'arte, nei fini che si è proposta la coscienza che sta dietro il testo. Ha qualcosa a che fare con l'amore. Con la disciplina che ti permette di far parlare di te che ama, invece di quella che vuole soltanto essere amata.

David Foster Wallace, Un antidoto contro la solitudine

 

 

 

In occasione dell’anniversario della nascita di Pier Paolo Pasolini, avvenuta un secolo fa, Arabeschi dedica uno spazio tra le sue pagine a Valentina Restivo, illustratrice livornese, classe 1983, che da anni lavora anche sul poeta corsaro e sull’immaginario cinematografico che ci ha lasciato in eredità.

Partendo da frames estrapolati da alcuni film pasoliniani che fanno la storia della cinematografia non solo nostrana, come Teorema, Il Vangelo secondo Matteo e Salò o le 120 giornate di Sodoma, Restivo ricostruisce fotogrammi di memoria in veste grafica, non rinunciando a tradurre i volti e gli sguardi dei personaggi-attori in tutta la loro densa corposità.

Laureata in Cinema e immagine elettronica presso l’Università di Pisa, gli studi di Restivo su Pasolini risalgono proprio agli anni della sua formazione, avvenuta anche presso la Scuola Internazionale di Arte Grafica, e perdurano fino a oggi, condensandosi dentro un milieu visuale da dove l’autrice continua a trarre le trasposizioni figurative dedicate allo scrittore bolognese. La mostra allestita quest’anno a Parigi, presso la Librairie Italienne Tour de Babel, curata da Silvia Pampaloni, ne è un’ulteriore prova.

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Presentato alla 72ª edizione del Festival di Cannes, l’ultimo film di Pedro Almodóvar Dolor y Gloria (2019) rappresenta un suggestivo affresco autobiografico, dove le immagini giocano un ruolo fondamentale per la vocazione artistica del protagonista Salvador. Districandosi tra flashback ed espedienti metatestuali, il presente contributo ripercorre le sequenze del film e ne individua modelli, tematiche salienti, scelte cromatiche. Così, i riferimenti al cinema di Pier Paolo Pasolini, ad esempio, si intrecciano alla dinamica che lega le immagini al desiderio, e la lettura del rapporto tra finzione e realtà si mescola alle rifrazioni di Salvador disseminate tra gli altri personaggi maschili.

Presented at the 72ͭ ͪ edition of the Cannes Film Festival, the last movie of Pedro Almodóvar Dolor y Gloria (2019) represents a suggestive autobiographical picture, where images play a fundamental role for the artistic inspiration of the protagonist Salvador. Extricating itself between flashbacks and metatextual expedients, the article goes back through the sequences of the movie identifying models, topics, chromatic choices. So, references to the cinema of Pier Paolo Paolini, for example, intertwine to dynamic that links images to desire; at the same way, the reading of the relationship between fiction and reality is mixed with Salvador’s refractions disseminated among other male characters.

Il disegno di un bambino che legge curvo su un libro: questo il centro del nuovo film di Pedro Almodóvar, un film che nasce da un’immagine, si costruisce intorno alle immagini, parla della possibilità di salvezza che le immagini contengono. Secondo Pasolini, la prima parola ascoltata risuonare in dialetto friulano, la parola «rosada», era la radice del suo amore per il friulano, per la lingua friulana, ma anche per il corpo dei parlanti, cioè per coloro che usavano una lingua orale per comunicare, una lingua non scritta. Per Mishima, era stata la visione delle gambe di un operaio che trasportava secchi d’acqua a fulminare l’infanzia con la rivelazione dell’amore omosessuale. Per Almodóvar al centro di tutto c’è questo disegno, dove colui che guarda (e disegna) il soggetto è nello stesso tempo oggetto d’amore.

Il bambino si chiama Salvador (non a caso: è colui che deve essere salvato, ma anche colui che salva) e vive in una cueva cioè in una grotta platonica dentro la quale avviene la scoperta di una vocazione artistica e nello stesso tempo privata, proprio come per Mishima, di fronte al corpo nudo di un giovane operaio analfabeta. Sarà questo operaio, Edoardo, a ritrarre Salvador mentre legge, illuminato dall’alto da un’apertura che consente di guardare il cielo (Almodóvar si ricorda benissimo di Cosa sono le nuvole?, il film platonico e filosofico di Pasolini). Salvador è un bambino istruito, sa leggere e scrivere, ed è lui che insegna all’operaio a scrivere dicendogli, in modo semplice, che tracciare le lettere è come disegnare, dal momento che ogni lettera è un’immagine. Scrittura e immagini: Almodóvar stringe così, senza esitazione, il nodo che sta alla base della sua vocazione artistica.

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  • [Smarginature] Pelle e pellicola. I corpi delle donne nel cinema italiano →

Uno speciale del 1978, curato da Ruggero Miti per la Rai, è probabilmente la prima presentazione al grande pubblico di Gianna Nannini. Le inquadrature iniziali sono iterati, lunghi dettagli: mani sulla tastiera del pianoforte, un ciuffo che cade a coprire il volto, una testa di Beethoven. Scelta singolare, quasi si voglia nascondere il soggetto, ma non per svelarlo con un coup de théâtre, piuttosto per circospezione, indecisione nel maneggiarlo visivamente [fig. 1]. Soggetto strano, evidentemente: potrebbe suonare forse perturbante, specie se accostato alle tipologie di cantanti e donne di spettacolo che hanno popolato il set audiovisivo italiano, che pure ne ha viste di Ê»ragazzacceʼ (pensiamo ai programmi televisivi e ai musicarelli con Caterina Caselli, Rita Pavone). Ma Nannini, che debutta come cantautrice femminista, non è ascrivibile alla categoria giocosa del comme un garçon. È una novità di cui si avverte l’irregolarità, fatta di assenza di compiacimento, spigolosità epidermica, ruvidezza vocale (riflessa in quella testuale); anomalia che proseguirà lungo i capitoli della narrazione visiva della cantautrice, segnati da una produzione originale, che dopo il crescendo degli anni Ottanta si è assestata in una posizione di eccellenza. La storia audiovisiva di Nannini si offre per esplorare un femminile già fisicamente eccentrico, di difficile trattamento visivo, che si è imposto senza abdicare all’anomalia, ma addirittura amplificandola con i mezzi della comunicazione più popolare. La lettura delle origini della sua immagine diventa in questo modo il tramite per cogliere meccanismi di affermazione di sensibilità nuove, difficilmente chiosabili, che il dispositivo promozionale ha immesso in un discorso più ampio. L’utilizzo, per definire la Ê»superficieʼ Nannini, di termini quali stranezza, eccentricità, diversità, suggerisce, pur con la cautela del caso, il termine queer.

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  • [Smarginature] Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano →

Nel 1964, ad un anno dall’uscita della celebre hit musicale La partita di pallone, il nome di Rita Pavone compare tra le pagine del testo Apocalittici e integrati. Umberto Eco sottolinea e analizza il fascino ambiguo esercitato da Rita Pavone, la «prima diva della canzone che non fosse donna; ma non era neppure bambina», una «ragazza che camminava verso il pubblico con l’aria di domandare un gelato, e [dalla cui bocca uscivano] parole di passione» (Eco 2016).

Negli anni in cui la canzone leggera italiana si popola prima di personaggi, e solo in un secondo momento di canzoni, Rita Pavone si afferma immediatamente come idolo dei giovanissimi, mito in grado di incarnare gioie e affanni di un’intera generazione.

«Io non sarò mai una vamp», afferma la cantante torinese nel corso di un’intervista rilasciata a Radiocorriere TV nel 1966, «a ventun anni suonati non arrivo a un metro e mezzo in punta dei piedi. Quarantadue chili con le scarpe, sono tutta un triangolo. Non mi viene una curva neanche per scommessa. Pensi che vergogna: alla Rinascente mi vesto ancora nel reparto bambini!». Sul suo aspetto minuto, sulle sue movenze esagitate e a tratti scomposte, e su quei lineamenti riconducibili a una androginia infantile si è scritto molto, e in tanti si sono cimentati nella ricerca di epiteti che cogliessero appieno l’essenza della cantante.

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Il 12 ottobre del 2016, nel corso della diciassettesima puntata di Gazebo Social News, lo show condotto da Diego Bianchi, il vignettista e autore Makkoz disegna un personaggio proveniente da Napoli. Lo rappresenta con una caricatura di Genny Savastano, uno dei protagonisti di Gomorra - La serie, con tre frasi che contornano il personaggio [fig. 1]: «Stai senza pensieri», «Two Fritturs» e «Come to take the forgiveness». Ci sono una serie di cortocircuiti linguistici e mediatici che vanno in scena all’interno di questa immagine, una serie di immaginari che vengono convocati. Siamo all’interno di una trasmissione televisiva in un certo senso di nicchia, come Gazebo, ma a cui il preserale ha dato una più vasta popolarità. Le frasi, forse oscure ai più, arrivano dalla serie tv di Gomorra, ma rimodellate dal gruppo satirico The Jackal, autore di una fortunata web serie parodica, Gli effetti di GOMORRA LA SERIE sulla gente (d’ora in poi, Gli effetti). Alcune poi sono in inglese perché la web serie ha avuto un piccolo spin-off, Impara l’inglese con GOMORRA, dove i tormentoni vengono tradotti in inglese. Web, TV, ma anche cinema: il Genny Savastano disegnato da Makkoz rimanda molto più marcatamente al De Niro di Taxi Driver di quanto non lo faccia il personaggio della serie – che pure sempre da lì attinge parte del proprio stile e mise. Può sembrare strano partire da questa immagine per parlare di un aspetto del mondo Gomorra, ma proprio immagini come questa fanno vedere quando questo sia entrato nella cultura popolare, e lo abbia fatto ibridando una serie di linguaggi e media diversi.

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La sfida è fare nuova luce su una forma Ê»acquisitaʼ di spettacolarità, molto discussa ma solo in parte storicizzata, ancora non riconosciuta adeguatamente nella sua reale portata pionieristica. Muovendo da tale sfida, il testo di Jennifer Malvezzi Remedi-Action. Dieci anni di videoteatro italiano (Milano, Posmedia Books, 2015) va nella direzione di un’utile riscoperta di quelle esperienze sceniche liminali che, mescolando efficacemente linguaggi diversi, diedero vita al singolare fenomeno del videoteatro italiano all’altezza degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso.

L’intento è insieme arduo e ambizioso, giacché riportare in superficie e analizzare criticamente un Ê»oggettoʼ ondivago, multiforme e rizomatico quale fu il videoteatro italiano apre una serie di interrogativi non indifferenti riguardo la sua origine, la sua (dis)articolata evoluzione, le diverse ragioni del suo prematuro declino.

Malvezzi allora fa un passo indietro nella storia, guarda all’oggetto della sua indagine con gli occhi del Ê»cronistaʼ in praesentia, recupera recensioni e dichiarazioni dell’epoca per restituirci il più possibile quello che fu lo spirito del tempo, lo stato d’animo corrente, l’euforica sensazione d’apertura sperimentale che permeò il nostro teatro trent’anni fa, sull’onda di un’intensa ibridazione tra la scena e i dispositivi testuali e linguistici introdotti dai media audiovisivi.

Per inquadrare i fermenti della stagione videoteatrale italiana nella giusta prospettiva storico-critica, evidenziandone il ruolo di primo piano nello sviluppo di una spettacolarità intertestuale, strettamente connessa alla cultura mediatica e precorritrice dell’ampia produzione tecnologica odierna, Malvezzi dà alla sua indagine un taglio cronologico ben preciso, circoscrivendola al decennio 1978-1988, quando «il fenomeno non si era ancora sclerotizzato in forme manieristiche, bensì si poneva come momento di rottura sia rispetto alla tradizione che alle ricerche di marca poverista».

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