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A partire dal riconoscimento dell’importante ruolo drammaturgico che il teatro di William Shakespeare ha avuto da sempre nell’evoluzione dell’opera lirica, il saggio si concentra sulla lettura critica di tre spettacoli inaugurali delle stagioni operistiche in corso: l’Otello musicato da Verdi su libretto di Arrigo Boito, che con la regia di Mario Martone ha debuttato a novembre 2021 al Teatro San Carlo di Napoli; il Macbeth musicato da Verdi su libretto di Francesco Maria Piave, diretto da Davide Livermore a dicembre 2021 al Teatro alla Scala; il  Julius Caesar musicato da Giorgio Battistelli su libretto di Ian Burton, messo in scena da Robert Carsen a novembre 2021 al Teatro dell’Opera di Roma. Dalla puntuale ricognizione dei tratti stilistici e simbolici di queste messinscene, corroborata da mirati confronti con altri spettacoli musicali degli stessi autori, emergono le grandi potenzialità intermediali delle odierne regie dell’opera lirica, capaci di affrontare, rivivere e trasformare temi e testi del passato secondo una sensibilità artistica contemporanea e un’autorialità autenticamente condivisa.

Beginning with the recognition of the important dramaturgical role that William Shakespeare’s theater has always played in the evolution of opera, the essay focuses on the critical reading of three inaugural shows of current opera seasons: Otello set to music by Verdi to a libretto by Arrigo Boito, which under the direction of Mario Martone debuted in November 2021 at the Teatro San Carlo in Naples; Macbeth set to music by Verdi to a libretto by Francesco Maria Piave, directed by Davide Livermore in December 2021 at the Teatro alla Scala; and Julius Caesar set to music by Giorgio Battistelli to a libretto by Ian Burton, staged by Robert Carsen in November 2021 at the Teatro dell’Opera di Roma. From the precise recognition of the stylistic and symbolic traits of these productions, corroborated by targeted comparisons with other musical shows by the same authors, emerges the great intermedial potential of today’s opera directions: capable of addressing, reviving and transforming themes and texts of the past according to a contemporary artistic sensibility and an authorship that is authentically shared.

Dopo la forzata chiusura dei teatri per effetto della pandemia, l’autunno scorso ha segnato un ritorno dello spettacolo dal vivo che ha offerto una significativa prova della vitalità produttiva degli enti lirici e della necessità di cogliere i fermenti culturali e di senso che germinano attorno a classici di ogni tempo. Nel contesto della stagione 2021-2022 tre teatri hanno scelto opere tratte da tragedie di Shakespeare, il Teatro San Carlo di Napoli, il Teatro dell’Opera di Roma, il Teatro alla Scala di Milano, confermando come la forza poetica del bardo abbia giocato un ruolo importante nella storia dell’opera. I rapporti fra Shakespeare e l’immaginazione melodrammatica seguono in una prima fase percorsi indiretti, attraverso la mediazione del neoclassicismo francese, poi invece divengono modello diretto di una poetica romantica che ricercava la varietà di stili e la potenza emotiva (lo chiarisce un saggio di Fabio Vittorini).[1] In particolare, Shakespeare è stato una presenza costante e quasi ossessiva nell’universo di Giuseppe Verdi, alimentando il suo ideale drammaturgico della parola scenica.

La dirompente forza espressiva del trittico shakespeariano ha spinto chi scrive a tentare una lettura in parallelo di regie molto diverse per impianto e codici performativi ma in grado di riattivare un confronto fra due capolavori di Verdi, Otello e Macbeth, e una novità composta per l’occasione da Giorgio Battistelli, Julius Caesar.

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L’impatto della pandemia sullo spettacolo dal vivo ha prodotto uno stato di necessità inedito: garantire la fruizione dei contenuti performativi e mantenere in vita il rapporto con i pubblici nonostante l’impossibilità dell’incontro diretto tra attori e spettatori, della loro relazione in presenza. Per affrontare la crisi di relazionalità spaziale che connota il ‘teatro al tempo del Covid’ si sono moltiplicate le iniziative di meditizzazione e webcasting degli spettacoli, con risultati artistici eterogenei ma un ambito di intervento comune: lo spazio performativo ripensato alla luce del trasloco mediale degli eventi. In questo frangente senza precedenti Mario Martone ha ideato e realizzato due allestimenti per il Teatro dell’Opera di Roma, Il barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini e La traviata di Giuseppe Verdi, che hanno scardinato ogni convenzione formale della messa in scena operistica, reiventandola secondo principi e procedimenti di ordine cinematografico. Le operazioni-opere di Martone, concepite appositamente per essere trasmesse sui canali televisivi e streaming della Rai, risultano esemplari, addirittura paradigmatiche di un netto ripensamento del genere del film d’opera, che il regista napoletano rimodula stilisticamente come opera-film, lavorando sulla cineficazione dello spazio teatrale e delle sue dinamiche attanziali. Il saggio, a partire da una propedeutica ricognizione storiografica del profilo artistico di Martone, analizza e interpreta le reinvenzioni spaziali delle regie liriche sopracitate, secondo due chiavi di lettura divergenti ma complementari: la designazione filmica dello spazio vuoto de Il barbiere, rappresentato e filmato nella sala deserta del Teatro Costanzi per evidenziare l’assenza del pubblico e la finzione scenica, e, all’opposto, l’occultamento cinematografico del vuoto spettatoriale e dell’artificio performativo de La traviata, ottenuto trasformando l’intera platea dell’Opera di Roma in un set realistico e site-specific. La lettura critica dei casi di studio è corroborata da un impianto metodologico che compendia la speculazione di Peter Brook sul valore rivelatorio dell’empty space, le acquisizioni degli Opera Studies sull’astrazione antinaturalistica del teatro musicale, le nozioni di mediatizzazione e cineficazione teatrale segnatamente applicate allo spazio performativo dell’opera lirica. 

The impact of the pandemic on live performance has produced an unprecedented state of necessity: guaranteeing the fruition of performance contents and keeping alive the relationship with audiences despite the impossibility of a direct contact between actors and spectators, of their relationship in presence. In order to tackle the crisis of spatial relationality that characterizes the ‘theatre at the time of Covid’, initiatives for the mediatisation and webcasting of performances have multiplied, with heterogeneous artistic results but a common sphere of intervention: the performance space rethought in the light of the media transfer of events. In this unprecedented juncture Mario Martone conceived and realized two productions for the Teatro dell’Opera di Roma, Il barbiere di Siviglia by Gioachino Rossini and La traviata by Giuseppe Verdi, which broke down all formal conventions of opera staging, reinventing it according to cinematographic principles and procedures. Martone’s opera-operations, conceived specifically to be broadcast on Rai television channels and streaming, are exemplary, even paradigmatic of a net rethinking of the film of opera genre, which the Neapolitan director stylistically remodels as an opera-film, working on the cinefication of the theatrical space and of its actantial dynamics. The essay, starting from a preliminary historiographical survey of Martone’s artistic profile, analyses and interprets the spatial reinventions in the above-mentioned productions, according to two divergent but complementary keys to interpretation: the filmic designation of the empty space in Il barbiere, represented and filmed in the deserted space of Teatro Costanzi to highlight the absence of the audience and the stage fiction, and, at the opposite, the cinematographic occultation of the spectatorial void and the performative artifice in La traviata, obtained by transforming the entire stalls into a realistic and site-specific film set. The critical reading of the case studies is corroborated by a methodological framework that encompasses Peter Brook’s speculation on the revelatory value of empty space, the acquisitions of Opera Studies on the antinaturalistic abstraction of musical theatre, the notions of theatrical mediatisation and cinefication specifically applied to the performance space of opera.

1. Visioni dello spazio nel teatro di Martone

«Quel che cerco è il respiro comune di attori e spettatori. Quale che sia lo spazio, felicemente assembrati in sala o fatalmente divisi da un teleschermo, quello e nient’altro è il teatro».[1] Così Mario Martone descrive la vocazione che muove il suo lavoro registico, la ricerca di una ‘comunione di respiro’ tra attori e spettatori non vincolata al tangibile, alla dinamica fisica fra scena e platea, ma capace di prodursi anche nell’impalpabile, nella reciproca consapevolezza di vivere e di sentire l’esperienza del teatro.

Nel contesto spettacolare dell’epoca Covid sappiamo che il ‘corpo a corpo’ di emittenti e destinatari nello spazio deposto al teatro è entrato radicalmente in crisi, e che il medium teatrale ha dovuto affrontare il più estremo compromesso della sua storia millenaria: l’assenza del pubblico dal vivo. Nella crisi di relazionalità spaziale che connota il presente pandemico una delle più convincenti reinvenzioni dello spazio performativo è arrivata dalla teatralità operistica, ed esattamente dalle due messinscene de Il barbiere di Siviglia e de La traviata prodotte dal Teatro dell’Opera di Roma con la regia di Martone, e trasmesse su Rai3 rispettivamente a dicembre 2020 e ad aprile 2021. Eclettiche reinvenzioni del genere del film d’opera, gli spettacoli realizzati da Martone fanno leva sul versante della spazialità teatrale rimediata cinematograficamente, per superare l’impasse dello spettacolo ‘in carne e ossa’ fisicamente inaccessibile al pubblico.

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Nell’introdurre il progetto di questa nuova rubrica della rivista, non posso che esprimere immensa gratitudine alla redazione di Arabeschi, che molti anni fa (era il 2013) accolse con entusiasmo la proposta, ora concretizzatasi in questa prima ‘conversazione’, di ospitare una serie di interventi che dessero voce ad artisti ‘della luce’, nello specifico creatori di luci per la scena, ma con possibili sconfinamenti nelle arti vicine. Sono passati parecchi anni ma forse non è un caso che il progetto avvii il suo corso ora. Negli ultimi tempi infatti l’interesse per la luce in scena, territorio pressoché misconosciuto dagli studi teatrali, sta acquisendo un suo spazio. Uno spazio che ‘risuona’ di voci e prospettive differenti, e che ci sembra segnato proprio da una vicinanza e un dialogo particolari tra studiosi e professionisti della luce, tra riflessioni teoriche, indagini storiche e pratiche artistiche (cosa che succede anche in altri ambiti – evidentemente un segno del tempo). Se questo dialogo si è ormai affermato anche per gli altri ‘linguaggi’ delle arti performative, com’è ovvio in un panorama di studi mutato rispetto a qualche decennio fa, nel caso della luce il desiderio di un confronto sembra farsi più urgente. Forse per la complessità della materia dal punto di vista tecnico e tecnologico, forse per la mancanza di un panorama di studi di riferimento consolidato come per altri coefficienti scenici. Ogni conversazione – che ci piace pensare come una ‘passeggiata’, evocando dei pensieri in movimento e la condivisione fisica di uno spazio di confronto – tenderà ad evidenziare temi e motivi propri dell’interlocutore/interlocutrice. Tuttavia si cercherà anche di ritornare sulle medesime tematiche al fine di dare forma ad un prisma, man mano che si procede nel cammino e ci si addentra nei diversi paesaggi, che rischiari di luce diversa questioni centrali nelle pratiche dell’illuminazione. In tal senso materia, colore, buio, spazio, architettura, percezione, relazione con le altre arti saranno delle coordinate ricorrenti.

While introducing the project for this new part of the magazine, I would like to express my deep gratitude to the editorial staff of Arabeschi, which many years ago (since 2013) enthusiastically welcomed the proposal, now concretized in this first ‘dialogue’, to host a series of conversations aiming to give voice to 'light' artists, specifically light designers for the stage, but with possible incursions into the nearby arts. Several years have passed since the proposal, but perhaps it is not by chance that the project is starting its course right now. In recent times, in fact, the interest in lighting on stage, a territory almost unknown to theatrical studies, is acquiring its own space. A space that echoes different voices and perspectives, that seems to be marked by a particular affinity and dialogue between scholars and lighting professionals, between theoretical reflections, historical investigations and artistic practices (something that also happens in other fields –  a sign of the time). This dialogue has now also established for other ‘languages’ in the Performing Arts, on a backdrop of studies that has changed since a few decades ago, in the case of light the need for comparison seems to become more pressing. Maybe because of the complexity of the subject from a technical and technological point of view; maybe because of the lack of a consolidated panorama of reference studies (as it is for other languages of the performance). Each conversation – which we like to think of as a ‘walk’, evoking thoughts in motion and the physical sharing of a space of exchange – will attempt to highlight topics and subjects that are specific to the artist interviewed. However, we will also try to revisit the same themes in order to give shape to a prism, proceeding along the path and exploring the different landscapes, that will illuminate different central issues in lighting practices. In this sense matter, colour, darkness, space, architecture, perception, relationship with other arts will be recurring references.

In un numero dei Quaderni di Teatro del 1980 dedicato al teatro materiale (che ai più sembrava all’epoca lontano dalla ‘Storia’ del teatro) ritroviamo uno tra i pochissimi (brevi e dimenticati) momenti di attenzione al fenomeno dell’illuminazione scenica nell’ambito degli studi teatrali. Eugenia Casini Ropa vi intervistava Guido Baroni e lo introduceva rinunciando a tracciare qualsivoglia profilo biografico, data la vastità delle sue esperienze. Orizzonti diversi – dopo quasi mezzo secolo – ma mi piace qui evocare quel momento isolato di attenzione ai professionisti della luce in scena, nella volontà di renderli parte integrante e oggetto di indagine degli studi teatrali e mettermi in una posizione analoga.

Mi limito dunque a ricordare gli esordi dell’attività di Pasquale Mari, cofondatore insieme a Mario Martone, Angelo Curti, Andrea Renzi, di Falso Movimento, sodale di Martone e colleghi/colleghe nella successiva compagine di Teatri Uniti, con una ricchissima esperienza tanto nel teatro che nel cinema (tra le sue numerosissime collaborazioni: con i registi Amelio, Archibugi, Bellocchio, Binasco, Cecchi, Cirillo, De Rosa, Dini, Ozpetek, Servillo, Sorrentino), ma anche nella danza e in prestigiose produzioni nell’opera lirica.

Per tutto quanto riguarda le sue creazioni rinvio dunque al suo sito http://www.pasqualemari.it/about/.

Mi preme invece ricordare che negli ultimi anni la frenetica attività dalle scene ai set si accompagna a quella didattica presso l’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico nonché a occasioni di riflessione, dove momento cardine è il tema della condivisione dello spazio e dove anche al cinema è rivendicata la qualità di ‘arte vivente’ – e ciò in larga parte proprio grazie al ruolo che vi svolge il fattore luminoso.

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La sfida è fare nuova luce su una forma Ê»acquisitaʼ di spettacolarità, molto discussa ma solo in parte storicizzata, ancora non riconosciuta adeguatamente nella sua reale portata pionieristica. Muovendo da tale sfida, il testo di Jennifer Malvezzi Remedi-Action. Dieci anni di videoteatro italiano (Milano, Posmedia Books, 2015) va nella direzione di un’utile riscoperta di quelle esperienze sceniche liminali che, mescolando efficacemente linguaggi diversi, diedero vita al singolare fenomeno del videoteatro italiano all’altezza degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso.

L’intento è insieme arduo e ambizioso, giacché riportare in superficie e analizzare criticamente un Ê»oggettoʼ ondivago, multiforme e rizomatico quale fu il videoteatro italiano apre una serie di interrogativi non indifferenti riguardo la sua origine, la sua (dis)articolata evoluzione, le diverse ragioni del suo prematuro declino.

Malvezzi allora fa un passo indietro nella storia, guarda all’oggetto della sua indagine con gli occhi del Ê»cronistaʼ in praesentia, recupera recensioni e dichiarazioni dell’epoca per restituirci il più possibile quello che fu lo spirito del tempo, lo stato d’animo corrente, l’euforica sensazione d’apertura sperimentale che permeò il nostro teatro trent’anni fa, sull’onda di un’intensa ibridazione tra la scena e i dispositivi testuali e linguistici introdotti dai media audiovisivi.

Per inquadrare i fermenti della stagione videoteatrale italiana nella giusta prospettiva storico-critica, evidenziandone il ruolo di primo piano nello sviluppo di una spettacolarità intertestuale, strettamente connessa alla cultura mediatica e precorritrice dell’ampia produzione tecnologica odierna, Malvezzi dà alla sua indagine un taglio cronologico ben preciso, circoscrivendola al decennio 1978-1988, quando «il fenomeno non si era ancora sclerotizzato in forme manieristiche, bensì si poneva come momento di rottura sia rispetto alla tradizione che alle ricerche di marca poverista».

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Catania/Napoli, luglio 2015

Mario Spada, nato a Napoli, classe 1971, entra nel mondo della fotografia nel 1986. È un reporter che ama la sua terra e la sa raccontare. Nel 2007 lavora come fotografo di scena al film Gomorra di Matteo Garrone e nel 2009 pubblica il suo primo libro personale Gomorra on set. Mario Martone lo chiama quando decide di far rivivere sul grande schermo, con Il giovane favoloso, l’immensa anima del poeta di Recanati, Giacomo Leopardi. Il 3 luglio di quest’anno, in occasione del compleanno di Giacomo Leopardi, gli scatti inediti del set del film sono stati esposti a Recanati in occasione della mostra Il giovane favoloso outdoor. Ecco cosa ci ha raccontato Mario Spada di entrambe le esperienze.

 

D: In che modo la fotografia è intervenuta nella ri-costruzione degli ambienti de Il giovane favoloso?

R: La ricostruzione degli ambienti del film è dovuta allo studio dello scenografo e di Mario Martone. Quello che deve fare il fotografo di scena, cioè io, è scattare delle fotografie che possano servire all’ufficio stampa che però, il più delle volte, ha un’idea della fotografia molto ‘classica’ (per esempio i posati fuori dalla scena), e quindi spesso le foto pubblicate o quelle scelte dall’ufficio stampa non corrispondono sempre a quello che avrei scelto io. Il fotografo di scena, nel mondo del cinema, è considerato ‘superato’, inutile alla produzione del film, perché non fa di certo IL FILM. Quando però il fotografo di scena ha un occhio particolare, tutto suo, può creare una storia all’interno del film che può essere d’aiuto per la distribuzione dell’opera, per la sua pubblicità. La cosa buona che qui è successa è che le foto de Il giovane favoloso le ho scelte insieme a Martone. Mario ha voluto che partecipassi a questo film dopo una prima collaborazione per lo spettacolo teatrale La serata a Colono tratto da Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante, con Carlo Cecchi e le musiche di Nicola Piovani. Non voleva il classico fotografo di scena e con lui abbiamo fatto una selezione di foto interessanti che poi ha anche utilizzato nel libro sulla sceneggiatura pubblicato per Mondadori. In più il manifesto del film, realizzato da Patrizio Esposito, è costruito a partire da una mia foto: rovesciando l’immagine Esposito rafforza l’idea di un Leopardi ribelle, non più triste e pessimista. In questo caso l’idea-guida del film nasce da un corto circuito di sguardi.

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La sfida cinematografica, forse ancora più ardua di quella drammaturgica, propone una valida rilettura complessiva della biografia leopardiana, frutto di un accurato lavoro preparatorio condiviso con bravi interpreti, primo tra tutti Elio Germano, davvero eccellente nel ruolo del protagonista.

Il tono complessivo del film è di profondo rispetto verso uno dei più grandi poeti italiani e infatti l’attenzione al Leopardi-uomo dà sì spazio alle sue fragilità e debolezze soprattutto corporee (efficaci i cenni alle idiosincrasie alimentari e igieniche di Giacomo), ma senza mai infierire troppo sulle sue miserie umane. Di contro, Martone, coadiuvato nella sceneggiatura da Ippolita di Majo, mostra di aver ben colto molti nodi cruciali della pur contraddittoria Weltanschauung leopardiana, a cominciare dal netto rifiuto dell’angusta etichetta di ‘pessimismo’ entro cui racchiudere il multiforme pensiero del poeta, sino ad arrivare alla valorizzazione della costante aspirazione all’infinito più volte richiamata nel film. Nelle prime scene è soltanto suggerita attraverso musica e immagini; poi diviene esplicita nella recitazione intimista e sommessa della celebre poesia del 1819 proposta da Germano, fino all’efficace resa filmica della «vertigine cosmica» durante la conclusiva lettura de La ginestra.

Le scelte registiche insistono volentieri sulla componente rivoluzionaria insita nel pensiero del Recanatese (il grido ribelle di Leopardi-Germano: «Odio questa vile prudenza che ci agghiaccia e lega e rende incapaci di ogni grande azione» è già un cult) che si mostra in grado di sfidare i dettami del padre ed è anche capace di superare i suoi stessi limiti fisici quando qualcosa gli sta veramente a cuore (ad esempio trovando la forza di correre incontro a Pietro Giordani al suo arrivo a Recanati).

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In occasione dell’uscita dell’ultimo film di Mario Martone Il giovane favoloso (2014), il contributo indaga la valenza poetica e umana del sentimento dell’amicizia in Giacomo Leopardi. Tenendo presente la dialettica tra realtà e illusioni, così peculiare del pensiero leopardiano, il saggio ripercorre le tappe dell’intenso rapporto di amicizia tra lo scrittore e Antonio Ranieri e approfondisce il tema attraverso un puntuale confronto sia con il film di Martone che con il libro di René de Ceccaty Amicizia e passione. Giacomo Leopardi a Napoli. Osservando i diversi punti di vista, emerge così l’orditura di un complesso legame sospeso tra puro sogno e compensazione della realtà.

At the release of the last movie of Mario Martone Il giovane favoloso (2014), the article explores the poetic and human value of friendship in Giacomo Leopardi. Considering the dialectic between reality and illusions, the essay retraces the intense friendship between the author and Antonio Ranieri thorough a detailed comparison with both the movie of Mario Martone and the book of René de Ceccaty Amicizia e passione. Giacomo Leopardi a Napoli. Observing the various points of view, thus emerge the different aspects of a complex relationship suspendend between dream and compensation of reality.

Non so se Mario Martone, al momento in cui con Ippolita di Majo ha scritto la sceneggiatura de Il giovane favoloso, avesse letto il libro di René de Ceccaty Amicizia e passione. Giacomo Leopardi a Napoli uscito in Francia, da Flammarion, nel 2011 (in versione italiana solo nel 2014, a film ormai completato).[1]

È molto probabile di no, sebbene in alcune scene del film sembrano esservi dei richiami diretti. Certo, in Il giovane favoloso la prospettiva sulla vita di Giacomo Leopardi è più ampia e generale rispetto a quella del libro, che come dice il titolo indaga soprattutto, in modo minuzioso, il periodo napoletano. Il film di Martone si divide nettamente in due parti: la prima, straordinariamente riuscita, è ambientata tutta a Recanati; mentre la seconda si svolge prevalentemente a Napoli, ma con sequenze ambientate anche a Roma e a Firenze.

Le scene sull’infanzia, sui giochi, sulla vita della famiglia nobiliare al palazzo e sullo studio ‘matto e disperatissimo’ del giovane Leopardi, sono realizzate con una felicità in buona parte dovuta anche al pittoricismo delle inquadrature.

Se pure non pare che vi siano riferimenti diretti a quadri, il film si pone indubbiamente in quella nobile tradizione del cinema italiano che guarda con molta attenzione alle fonti figurative, tradizione della quale Visconti e Pasolini sono gli esponenti più noti, sia pure con metodologie opposte nel riferimento alla storia dell’arte.[2] E Martone in questo film sembrerebbe seguire la linea viscontiana in quanto è la pittura dell’Ottocento, cioè dell’epoca in cui si ambienta la vicenda, a suggerire composizione e colori delle immagini.

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La stagione cinematografica si è aperta nel segno della letteratura con due film dedicati a Pasolini e Leopardi, che tanto hanno fatto discutere data la peculiarità dei personaggi e il punto di vista attraverso cui la loro opera (e il loro destino) vengono raccontati. A distanza di qualche mese, ma ancora nel vivo del dibattito, dedichiamo ai film di Ferrara e Martone una serie di zoom nel tentativo di ‘distillare’ la temperatura emotiva e le direzioni di sguardo di due opere controverse ed espressive.

 

Il ricordo più lontano nel tempo che conservo di Mario Martone risale alla seconda metà degli anni Settanta del Novecento: un ragazzetto napoletano con la testa gremita di ricci neri che, nell’antro buio e materno del Beat 72 (una delle più ospitali ‘cantine’ teatrali romane), giocava a scacchi con una ragazza nuda, in una performance che evidentemente intendeva richiamare quella celebre di Marcel Duchamp. Ebbi la percezione netta di un tipo che sapeva il fatto suo. Uno degli aspetti che maggiormente colpiva in lui era l’affabilità e la schiettezza con cui sapeva cogliere i pregi dei suoi colleghi, cosa non scontata né frequente tra colleghi teatranti, specie se giovani. Col tempo questa sarebbe diventata una sua grande qualità artistico-organizzativa: la generosità nel non chiudersi mai in un suo proprio giardino ma nel coinvolgere, contagiare e farsi contagiare, aggregare tensioni artistiche che sentiva affini.

Il suo primo capolavoro fu la composizione stessa della sua prima compagnia (allora si diceva ‘gruppo’), «Falso Movimento»: ogni componente era portatore di specifiche qualità: propriamente attoriali nel caso di Licia Maglietta e Andrea Renzi; in grado di accordare l’imprenditorialità artistica con la formazione in una delle gallerie più note al mondo (quella di Lucio Amelio) con Thomas Arana; già collegate a un interesse per lo sguardo ‘fotografico’, per la prospettiva pittorico/scenografica, per la dimensione sonora e musicale rispettivamente con Lino Fiorito, Pasquale Mari, Daghi Rondanini; e infine marcate dallo sguardo progettuale nel caso di Angelo Curti.

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