Il giovane favoloso e l’amicizia in Leopardi

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In occasione dell’uscita dell’ultimo film di Mario Martone Il giovane favoloso (2014), il contributo indaga la valenza poetica e umana del sentimento dell’amicizia in Giacomo Leopardi. Tenendo presente la dialettica tra realtà e illusioni, così peculiare del pensiero leopardiano, il saggio ripercorre le tappe dell’intenso rapporto di amicizia tra lo scrittore e Antonio Ranieri e approfondisce il tema attraverso un puntuale confronto sia con il film di Martone che con il libro di René de Ceccaty Amicizia e passione. Giacomo Leopardi a Napoli. Osservando i diversi punti di vista, emerge così l’orditura di un complesso legame sospeso tra puro sogno e compensazione della realtà.

At the release of the last movie of Mario Martone Il giovane favoloso (2014), the article explores the poetic and human value of friendship in Giacomo Leopardi. Considering the dialectic between reality and illusions, the essay retraces the intense friendship between the author and Antonio Ranieri thorough a detailed comparison with both the movie of Mario Martone and the book of René de Ceccaty Amicizia e passione. Giacomo Leopardi a Napoli. Observing the various points of view, thus emerge the different aspects of a complex relationship suspendend between dream and compensation of reality.

Non so se Mario Martone, al momento in cui con Ippolita di Majo ha scritto la sceneggiatura de Il giovane favoloso, avesse letto il libro di René de Ceccaty Amicizia e passione. Giacomo Leopardi a Napoli uscito in Francia, da Flammarion, nel 2011 (in versione italiana solo nel 2014, a film ormai completato).[1]

È molto probabile di no, sebbene in alcune scene del film sembrano esservi dei richiami diretti. Certo, in Il giovane favoloso la prospettiva sulla vita di Giacomo Leopardi è più ampia e generale rispetto a quella del libro, che come dice il titolo indaga soprattutto, in modo minuzioso, il periodo napoletano. Il film di Martone si divide nettamente in due parti: la prima, straordinariamente riuscita, è ambientata tutta a Recanati; mentre la seconda si svolge prevalentemente a Napoli, ma con sequenze ambientate anche a Roma e a Firenze.

 fotogramma tratto da Il giovane favoloso

Le scene sull’infanzia, sui giochi, sulla vita della famiglia nobiliare al palazzo e sullo studio ‘matto e disperatissimo’ del giovane Leopardi, sono realizzate con una felicità in buona parte dovuta anche al pittoricismo delle inquadrature.

 probabile modello figurativo per Il giovane favoloso

Se pure non pare che vi siano riferimenti diretti a quadri, il film si pone indubbiamente in quella nobile tradizione del cinema italiano che guarda con molta attenzione alle fonti figurative, tradizione della quale Visconti e Pasolini sono gli esponenti più noti, sia pure con metodologie opposte nel riferimento alla storia dell’arte.[2] E Martone in questo film sembrerebbe seguire la linea viscontiana in quanto è la pittura dell’Ottocento, cioè dell’epoca in cui si ambienta la vicenda, a suggerire composizione e colori delle immagini.

 Elio Germano ne Il giovane favoloso

La sfida per l’autore era molto ardua: si trattava di raccontare in un film, rendendola credibile, la vita di un personaggio famosissimo e celebratissimo, studiato nelle scuole, i cui versi mandati a memoria da generazioni di studenti potevano in parte essere elusi, come del resto i grandi scritti filosofici, ma nello stesso tempo andavano anche citati appunto per evocare la dimensione del soggetto protagonista. La soluzione scelta è eccellente: poche poesie recitate dallo stesso Elio Germano che interpreta Leopardi, con visualizzazioni felici e solo apparentemente banali, come nella sequenza relativa a L’infinito o in quella su alcuni versi de La ginestra. In entrambe queste sequenze si ricorre al monologo, recitato dal protagonista Elio Germano, sebbene, come nota Alessandra Mallamo[3] una simile scelta stilistica sembri criticata all’interno del film stesso, quando Leopardi dice all’attrice Maddalena Pelzet (Giorgia Salari), amante di Ranieri, che i soliloqui sulla scena sono innaturali, perché un uomo che pensa non parla ad alta voce.

L’amore di Leopardi per il teatro, testimoniato nell’epistolario da alcune lettere al fratello Carlo, non è certo una forzatura di Martone, notoriamente anche e soprattutto regista teatrale. Pare piuttosto (e ricordiamo la bella scena in cui Leopardi assiste ad un’opera di Rossini e sorride) un primo accostamento a quello che è il tema più importante del film e di tutta la vita di Giacomo Leopardi: il tema dell’amicizia con Antonio Ranieri.

Anche lo spettacolo infatti, come l’amore, come i sentimenti, è illusorio, è finzione, eppure dà gioia.

C’è, a tale proposito, un’apparente contraddizione all’interno del pensiero leopardiano. Lo notavo già nel mio libro sull’amicizia virile, in cui parlavo anche di Leopardi.[4] Nei Pensieri e nello Zibaldone si vede l’amicizia come una delle tante illusioni degli uomini: se non la si cerca per utilità o per interesse si è destinati ad essere delusi, perché chi cerca amore, chi antepone per amore gli interessi degli altri ai propri sarà sconfitto. «Colle donne e cogli uomini riesce sempre a nulla, o certo è malissimo fortunato, chi gli ama d’amore non finto e non tiepido, e chi antepone gl’interessi loro ai propri. E il mondo è, come le donne, di chi lo seduce, gode di lui, e lo calpesta».[5]

L’amicizia tra due pari, che vivano una vita normale, dura poco. L’uomo di lettere poi, l’intellettuale, che si crede famoso e rispettato nel mondo, «si trova o lasciato da un canto o schernito ogni volta che si abbatte in compagnia di genti frivole, del qual genere sono tre quarti del mondo».[6]

Certo, dice Leopardi in un altro pensiero, un’amicizia moderata, non paragonabile a quella tra Pilade e Oreste, è possibile che possa esistere: basta che non ci si metta di mezzo l’interesse.

Chi non è mai uscito di luoghi piccoli, dove regnano piccole ambizioni ed avarizia volgare, con un odio intenso di ciascuno contro ciascuno, come ha per favola i grandi vizi, così le sincere e solide virtù sociali. E nel particolare dell’amicizia, la crede cosa appartenente ai poemi ed alle storie, non alla vita. E s’inganna. Non dico Piladi o Piritoi, ma buoni amici e cordiali, si trovano veramente nel mondo, e non sono rari. I servigi che si possono aspettare o richiedere da tali amici, dico da quelli che dà veramente il mondo, sono, o di parole, che spesso riescono utilissime, o anco di fatti qualche volta: di roba, troppo di rado; e l’uomo savio e prudente non ne dee richiedere di sì fatti.[7]

Ma se si passa a leggere il Leopardi più personale ed intimo, quello dell’epistolario, l’amicizia, prima per il più anziano Giordani e poi, soprattutto, per il più giovane Antonio Ranieri, appare sentimento vero e profondo, totalizzante, tale da diventare persino oggetto di invidia.

Povero Ranieri mio! se gli uomini ti deridono per mia cagione, mi consola almeno che certamente deridono per tua cagione anche me, che sempre a tuo riguardo mi sono mostrato e mostrerò più che bambino. Il mondo ride sempre di quelle cose che, se non ridesse, sarebbe costretto ad ammirare; e biasima sempre, come la volpe, quello che invidia. Oh Ranieri mio! quando ti recupererò? Finché non avrò ottenuto questo immenso bene, starò tremando che la cosa non possa esser vera. Addio infinite volte. Non ti stancare di amarmi.[8]

Giacomo Leopardi incontrò Antonio Ranieri proprio nel giorno del suo trentesimo compleanno, il 28 giugno 1828; Ranieri aveva ventidue anni, era bello e amato dalle donne. Al contrario dunque di Leopardi, che, come si sa, era invece sempre respinto, amava senza speranza. Su questo punto però De Ceccaty scrive una cosa abbastanza sorprendente ed insolita: afferma che non vi è alcuna realtà storica nelle figure femminili di cui il poeta parla come oggetto del suo amor. Silvia, Nerina, Aspasia, sarebbero soltanto delle icone, delle idee.

Ne Il giovane favoloso si racconta, con discrezione poetica, il sentimento per Silvia (Gloria Ghergo) e la morte prematura della ragazza, che abita proprio di fronte al palazzo dei Leopardi a Recanati. E si mostra, in molte scene, l’amore e la disperazione, dopo il rifiuto e la constatazione che la nobildonna è l’amante di Ranieri, per Fanny Targioni Tozzetti (Anna Mouglalis), che sarebbe stata Aspasia.

Ma in una lettera del 20 gennaio 1838 ad Antonio Ranieri, che De Ceccaty riporta, Fanny rifiuta di essere lei il modello di Aspasia e dice di non avere mai illuso Leopardi. Troviamo le parole della lettera, quasi identiche, in un dialogo, nel film, tra Fanny e Antonio (Michele Riondino), il suo amante. In più, lo studioso francese riporta un giudizio che secondo Francesco Flora la Targioni Tozzetti avrebbe dato, a proposito di Leopardi, a Matilde Serao, che glielo avrebbe riferito: «Mia cara, puzzava».

La disperazione di Leopardi in realtà, il suo pessimismo potenziato, anche se certo non causato da vicende come questa, va più sfumato rispetto a quanto normalmente si creda (e per quanto riguarda i Canti la cosa è ancora più evidente, con il contrasto tra l’affermazione che la vita è male e l’incanto suscitato nei suoi versi da una notte di luna piena o dal risveglio della natura a primavera).

Razionalmente i sentimenti sono ‘inganni’, illusioni, come già abbiamo detto a proposito della concezione dell’amicizia, e vanno dunque respinti in quanto falsi; ma, nota De Ceccaty, le illusioni sono in Leopardi anche un’indubbia sorgente di vitalità.[9]

Se, come lui scrive, la felicità non può consistere in ciò che è reale, l’irreale, e cioè i sogni, le ombre, in definitiva le illusioni, restano l’unica soluzione.

E qui sta, secondo De Ceccaty, la risposta al quesito sul mistero del rapporto tra Leopardi e Ranieri: questi fu tanto importante per il poeta filosofo perché fu un compromesso tra irrealtà e realtà.

L’amore carnale era certezza di delusione; nel sogno invece, nel sentimento senza sesso, si poteva trovare qualcosa di durevole, persino di eterno.

Non è infatti neppure concepibile un rapporto omosessuale con Ranieri. Leopardi definisce la pederastia, nello Zibaldone, «vizio antinaturale», «inclinazione che il solo eccesso di libidine snaturante il gusto e l’inclinazioni degli uomini può produrre»; però prima ha affermato anche che tutta la poesia e la cultura greca vertono sulla pederastia, dovuta forse ad una «esuberanza di vita».[10]

Se confrontiamo le lettere di Leopardi a Fanny con quelle a Ranieri, notiamo una differenza abissale nel tono: solo amichevoli quelle alla donna, appassionate quelle all’amico. È vero, come il film racconta, che Leopardi raccoglieva autografi di persone famose per farne dono a Fanny Targioni Tozzetti, nobildonna intellettuale e letterata. Ma, nelle lettere, sembrano entrambi soprattutto preoccupati di Ranieri e del suo amore per Maddalena Pelzet.

È un fatto, nota De Ceccaty, che a un certo punto anche Antonio Ranieri si allontana dalle donne e si dedica tutto a Leopardi. Il libro sulla loro amicizia, durata sette anni, egli lo pubblicò solo nel 1880, quando lui aveva settantaquattro anni e Leopardi era morto da ben quarantatrè. Lì Ranieri scrive, in modo esplicito, che il suo amico se ne era andato, trentanovenne, puro come quando era nato, «un angelo».

Il sogno della vita di Giacomo Leopardi sarebbe stato dunque l’unione-fusione amicale, casta, con Antonio Ranieri al quale scrive il 15 gennaio 1833: «Oh Ranieri mio, quanto vorrei soffrire io stesso in tua vece! Se tu non hai che me, tu mi hai però tutto e per sempre; vivine sicuro più che dell’esistenza dei corpi. Io sono sempre a’ tuoi cenni quanto al riunirmi teco».[11]

 Elio Germano nei panni di Leopardi

Il corpo, nota acutamente De Ceccaty, è allo stesso tempo troppo presente e troppo assente nella vita di Leopardi. Troppo presente in effetti per tutte le malattie, per il dolore, per la deformità di cui il poeta ha sofferto. È un aspetto che in Il giovane favoloso sia la regia di Martone che l’interpretazione di Elio Germano mettono molto in evidenza; nella parte finale in maniera persino un po’ eccessiva, tanto da rendere il personaggio quasi mostruoso, una specie di Quasimodo da Notre Dame de Paris.

E d’altronde, se il sesso non è mai citato, è invece testimoniata da più fonti la golosità di Leopardi, il suo gusto per i dolci e soprattutto, a Napoli, per i gelati e per tutto quanto il cuoco di casa cucinava, di cui De Ceccaty dà conto.

Ranieri, ventisettenne quando tornò a Napoli con l’amico insieme al quale viveva da tre anni, aveva un passato rivoluzionario, di cui si parla anche nel film. Così come si accenna al giudizio positivo di Leopardi su Alessandro Manzoni, che il poeta di Recanati aveva incontrato una volta a Firenze e del cui romanzo parla bene (sia pure brevemente) in una lettera, sebbene le sue Operette morali fossero state un po’ eclissate, nel 1827, dal successo de I promessi sposi.

A proposito della fortuna letteraria e delle ostilità incontrate anche a tale proposito da Leopardi nel corso della sua vita, il film dà qualche notizia, riportando persino l’espressione di Niccolò Tommaseo secondo il quale nel Ventesimo secolo, cioè nel secolo successivo, di Leopardi non si sarebbe ricordata neanche la gobba. Che tale giudizio dovesse essere clamorosamente smentito dalle vicende storiche e che Leopardi si sia trasformato in un grande della cultura a livello nazionale e internazionale, è stato anche dovuto, afferma De Ceccaty, all’impegno di Antonio Ranieri, che nel 1845, quindi alcuni anni dopo la morte dell’amico, riuscì a pubblicarne tutte le opere, gran parte delle quali ancora inedite.

Con Ranieri non è che Leopardi condividesse ogni idea; tuttavia erano in sintonia anche su alcuni punti fondamentali, come ad esempio sull’ateismo, sull’idea che quella di Dio come bontà assoluta era solo la più grande delle illusioni costruite, in quanto consolatorie, dall’umanità. Ne venivano di conseguenza l’idea della natura matrigna e distruttrice (nel film Martone ha voluto opportunamente inserire una scena-incubo relativa al Dialogo della Natura e di un Islandese ripresa dalla sua precedente messa in scena teatrale delle Operette morali) e l’idea della mancanza di un senso nella Storia.

Dopo la morte di Leopardi, Ranieri ebbe sia un’attività politica, di deputato e senatore nei parlamenti prima napoletano e poi italiano, sia un’attività di docente universitario di Storia. Pubblicò anche un romanzo, il cui contenuto sociale gli procurò grossi guai. Come del resto molto discusso fu il libro sui sette anni di convivenza con Leopardi, al quale comunque egli restò fedele tutta la vita: il ricordo e l’amicizia col grande uomo che aveva avuto la fortuna di incontrare, osserva De Ceccaty, non furono mai smentiti, neppure nelle parti apparentemente più critiche del libro, quelle sui capricci e sulle stranezze del suo ospite.

Certo, le motivazioni di quel rapporto restano in larga parte misteriose, come del resto accade sempre, o molto spesso, quando si indagano i rapporti umani («perché ero io; perché era lui», scrive Montaigne come unica risposta quando si interroga sul perché della sua grande amicizia col signor De La Boétie).

Ma naturalmente sia il film di Martone che il libro di De Ceccaty si pongono il problema e cercano di dare delle risposte. Del libro abbiamo in parte detto.

In Il giovane favoloso troviamo una scena in cui Giacomo guarda Antonio che fa il bagno in casa in una tinozza e la nuda bellezza del giovane sembra turbare il poeta. O almeno tale pare essere il senso di questa scena, efficacemente priva di dialogo.

Che Ranieri fosse bello è testimoniato da tutte le fonti, ma soprattutto dal dandy tedesco August von Platen, esteta omosessuale che diventò il modello dell’Aschenbach di Morte a Venezia e che morì di colera pur essendo fuggito da Napoli allo scoppiare dell’epidemia. Definisce nel suo diario Ranieri «un bel giovane dai grandi occhi blu». Si incontravano a Napoli e facevano insieme i bagni, racconta De Ceccaty, aggiungendo che il giovane rivoluzionario gli aveva mostrato le ferite ricevute a Parigi durante i moti del 1830. Lo aveva portato anche a conoscere Leopardi, che Von Platen giudica «qualcosa di orribile a vedersi».[12]

Non si può comunque affermare che fosse l’aspetto fisico di Antonio Ranieri la causa prima dell’attaccamento da parte di Leopardi: pur grande estimatore della bellezza, come ben dimostrano i suoi versi, per lui la bellezza era soprattutto femminile. E non condivideva il concetto affermato dai Greci sul legame tra bellezza e virtù, altra pura illusione, come afferma.

Piuttosto, sembra giusta l’osservazione di De Ceccaty che in parte la risposta alle ragioni di questo legame, indubbiamente molto forte, si possa trovare nella grande vitalità del suo giovane amico, vitalità che certo a lui mancava[13] e che faceva parte di quell’aspetto di ‘realtà’ in cui i sogni trovavano parziale compensazione.

Per quanto invece riguarda Ranieri, che si dichiarò in una lettera «indivisibile» da Leopardi, definendolo suo «angelico amico»,[14] l’attaccamento andò come abbiamo detto ben oltre la morte del poeta-filosofo, del quale molto contribuì a costruire il mito. Senza contare che quando era ancora in vita, negli anni a Napoli, Leopardi fu praticamente mantenuto da Ranieri e dalla sua famiglia.

Secondo De Ceccaty proprio la grande differenza di personalità tra i due sarebbe uno dei motivi della loro amicizia, un problema di compensazioni. Ma poi torna sull’idea forse più convincente del libro: essendo l’amore il regno dell’immaginazione, proprio nella dialettica tra realtà e sogno starebbe la motivazione primaria del sentimento di Leopardi, che in tal senso, pur non razionalizzando il concetto, prefigurerebbe Proust.[15]

Per Marcel Proust infatti, com’è noto, l’amore nasce sempre da una stimolazione dell’immaginario, è una costruzione totalmente soggettiva e come tale causa di un’inevitabile sconfitta di chi ama, che mai potrà trovare corrispondenza coi suoi sogni nell’oggetto d’amore.

In verità, nel caso di Leopardi, la corrispondenza pare vi sia stata; e dunque risulta un po’ forzata, anacronistica, l’interpretazione che vede analogie col grande romanzo di Proust, inevitabilmente un po’ vicino alla cultura della psicanalisi.

Certo, appare evidente dalle lettere la gelosia di Leopardi nei confronti della Pelzet, per la quale la passione di Ranieri durò un intero anno; ma, anche qui, la cosa non è esplicita, potrebbe trattarsi della normale preoccupazione destata dalle sofferenze dell’amico. E anche nelle lettere a Fanny egli ne parla in modo piuttosto pacato. Vediamo ad esempio la lettera inviata da Firenze a Livorno, dove Fanny si trovava, il 16 agosto 1832.

Cara Fanny, Vi scrivo dunque benché siate prossima a tornare; non più per dimandarvi le vostre nuove, ma per ringraziarvi della gentile vostra di lunedì. Che abbiate gradito il mio desiderio di sentire della vostra salute, è conseguenza della vostra bontà. Mi avete rallegrato molto dicendomi che state bene, e che i bagni vi giovano, e così alle bambine, io ne stava un poco in pensiero, perché i bagni di mare non mi paiono senza qualche pericolo.
Ranieri è sempre a Bologna, e sempre occupato in quel suo amore, che lo fa per più lati infelice. E pure certamente l’amore e la morte sono le sole cose belle che ha il mondo, e le sole solissime degne di essere desiderate.[16]

Siamo nel ’32; nel ’33 il tono è diverso, Leopardi, ancora a Firenze, ha preso la sua decisione irrevocabile. Vediamo questa lettera del 2 aprile: «Ranieri mio. Ti troverà questa ancora a Napoli? Ti avviso ch’io non posso più vivere senza te, che mi ha preso un’impazienza morbosa di rivederti, e che mi par certo che se tu tardi anche un poco, io morrò di malinconia prima di averti riveduto. Addio addio».[17]

Nel film richiama questa lettera, o altre analoghe, la scena in cui Giacomo, sofferente e in difficoltà, viene preso in braccio da Antonio per fargli salire una scala e gli dice appunto che non potrebbe vivere senza di lui.

Un punto sul quale Il giovane favoloso concorda con le lettere di Leopardi, mentre ne diverge il libro di De Ceccaty, è il rapporto col padre Monaldo (Massimo Popolizio nel film). Per quanto notoriamente reazionario e lontano dalle idee del figlio, non pare essere stato l’individuo freddo e un po’ mostruoso dipinto dallo studioso francese. Nelle lettere a Monaldo traspare in Giacomo deferenza sì, ma anche affetto (non a caso lui scrive sempre soltanto al padre e ai fratelli; solo una volta, quasi costretto, alla madre).

 Massimo Popolizio in una scena del film Il giovane favoloso

Martone, molto ben coadiuvato in tal caso da Popolizio, (ma anche la Paolina di Isabella Ragonese risulta convincente) riesce a rendere con efficacia l’ambiguità di questo rapporto.

C’è tuttavia, nella seconda parte del film, un’idea che non pare trovare, al contrario di tutto il resto, un supporto storicamente fondato.

Si tratta del significato che assumono, nel film di Martone, la città e la cultura di Napoli. Se pure nelle sue memorie Ranieri scrive che Napoli attirava Leopardi come la stella attira il pianeta,[18] sorge il sospetto, alla visione del film, che lo sceneggiatore-regista abbia un po’ esasperato questo aspetto, arrivando quasi, in certe scene, a presentare Leopardi come se fosse Pasolini, per il quale, com’è notorio, Napoli aveva un significato particolare, era una «sacca storica» immutabile.

D’accordo che la città diventa per il poeta «tragica e vitalistica insieme»,[19] ma non bastano i versi sul «vincitore del pallone» a giustificare scene come quella coi giocatori della pelota o del rapporto coi ragazzi, specie con quello che lo accompagna a Pompei e a proposito del quale c’è anche una breve discussione con Ranieri (impensabile, a giudicare dalle lettere ).

Ma se queste sequenze di per sé non sono criticabili, non ledono la qualità alta del film, altrettanto non si può dire invece per la famosa, discussa scena del bordello, con il corpo ermafrodito rifiutato, che risulta inaccettabile. E inaccettabile non tanto perché sia di per sé una scena infelice (anche se Il giovane favoloso resta comunque opera esemplare, senza dubbio uno dei migliori film della stagione, insieme a Torneranno i prati di Ermanno Olmi), ma proprio in quanto contraddittoria rispetto all’assunto che è alla base dell’interpretazione tanto documentata dal libro di De Ceccaty su questa straordinaria storia di amicizia (interpretazione, a dire il vero, anche da me condivisa nel mio libro prima che fosse uscito quello del francese, sulla base soltanto dell’epistolario leopardiano). Il rapporto tra Leopardi e Ranieri è stato certamente una spiritualizzazione dell’amicizia piuttosto che un turbamento sessuale represso.

Per cui, a parte le condizioni precarie di salute di Leopardi, appare ben dubbio che Ranieri potesse spingere l’amico verso la «suprema e infida promessa di piacere».[20] Come del resto lui, «tutto e per sempre» legato al suo amico, non sentiva certo il bisogno di un’esperienza troppo reale e troppo lontana da quel sogno che, pur illusorio forse, costituiva tuttavia il sentimento più forte della sua vita infelice.

 

 fotogramma tratto da Il giovane favoloso

© Mario Spada


1 R. de Ceccaty, Amicizia e passione. Giacomo Leopardi a Napoli, Milano, Archinto, 2014.

2 Ho affrontato questo problema , parlando del rapporto tra cinema e pittura nel cinema italiano, in Il fantasma del bello. Iconologia del cinema italiano, Venezia, Marsilio, 1994.

3 Cfr. A. Mallamo, ‘Di ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere’, Cineforum, 540, dicembre 2014, pp. 12-14.

4 Cfr. R. Campari, L’amicizia virile in Occidente da Omero al cinema, Venezia, Marsilio, 2013, pp. 16-20.

5 G. Leopardi, Pensieri, in Id., Opere di Giacomo Leopardi, a cura di G. Getto, Milano, Mursia, 1967, pensiero LXXV, p. 507.

6 Ivi, pensiero XCIII, p. 515.

7 Ivi, pensiero XCIV, p. 516.

8 G. Leopardi, Lettere, a cura di F. Flora, Milano, Mondadori, 1949, lettera 856, p. 1071.

9 Cfr. R. de Ceccaty, Amicizia e passione, p. 213.

10 G. Leopardi, Zibaldone, a cura di R. Damiani, Milano, Mondadori, 1997, tomo I, pp. 1260-1261.

11 G. Leopardi, Lettere, lettera 860, p. 1073.

12 R. de Ceccaty, Amicizia e passione, p. 105.

13 Ivi, p. 140.

14 Ivi, p. 106.

15 Ivi, p. 125.

16 G. Leopardi, Lettere, lettera 831, pp. 1052-53.

17 R. de Ceccaty, Amicizia e passione, p. 185.

18 T. Masoni, ‘Il tempo di Leopardi è anche il nostro’, Cineforum, 540, dicembre 2014, pp. 5-8.

19 Ivi, p. 6.

20 Ibidem.