Mario Martone, Il giovane favoloso

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Da anni Mario Martone si interessa a Leopardi: al 2011 risale il suo allestimento teatrale delle Operette Morali e nel 2013 sono invece iniziate le riprese del film Il giovane favoloso, presentato a settembre alla Mostra del Cinema di Venezia e uscito nelle sale lo scorso ottobre. Per ben due volte, dunque, nell’incontro con il poeta recanatese, il regista ha operato un significativo passaggio dal codice meramente verbale a quello performativo, e da tali transcodificazioni sono scaturiti lavori rigorosi e insieme suggestivi.

La sfida cinematografica, forse ancora più ardua di quella drammaturgica, propone una valida rilettura complessiva della biografia leopardiana, frutto di un accurato lavoro preparatorio condiviso con bravi interpreti, primo tra tutti Elio Germano, davvero eccellente nel ruolo del protagonista.

Il tono complessivo del film è di profondo rispetto verso uno dei più grandi poeti italiani e infatti l’attenzione al Leopardi-uomo dà sì spazio alle sue fragilità e debolezze soprattutto corporee (efficaci i cenni alle idiosincrasie alimentari e igieniche di Giacomo), ma senza mai infierire troppo sulle sue miserie umane. Di contro, Martone, coadiuvato nella sceneggiatura da Ippolita di Majo, mostra di aver ben colto molti nodi cruciali della pur contraddittoria Weltanschauung leopardiana, a cominciare dal netto rifiuto dell’angusta etichetta di ‘pessimismo’ entro cui racchiudere il multiforme pensiero del poeta, sino ad arrivare alla valorizzazione della costante aspirazione all’infinito più volte richiamata nel film. Nelle prime scene è soltanto suggerita attraverso musica e immagini; poi diviene esplicita nella recitazione intimista e sommessa della celebre poesia del 1819 proposta da Germano, fino all’efficace resa filmica della «vertigine cosmica» durante la conclusiva lettura de La ginestra.

Le scelte registiche insistono volentieri sulla componente rivoluzionaria insita nel pensiero del Recanatese (il grido ribelle di Leopardi-Germano: «Odio questa vile prudenza che ci agghiaccia e lega e rende incapaci di ogni grande azione» è già un cult) che si mostra in grado di sfidare i dettami del padre ed è anche capace di superare i suoi stessi limiti fisici quando qualcosa gli sta veramente a cuore (ad esempio trovando la forza di correre incontro a Pietro Giordani al suo arrivo a Recanati).

Nel film il protagonista non nasconde il suo smodato desiderio di gloria e le sue carenze affettive; inoltre, grazie a un’ironia sottile e corrosiva, riesce – da poeta-filosofo – a controbattere finemente alle osservazioni grette di quanti non colgono la profondità del suo pensiero e soprattutto non comprendono le sue profetiche critiche alle «magnifiche sorti e progressive». Un Leopardi, quello di Martone, che si pone insomma come osservatore acuto e spesso sarcastico, dalla finestra del palazzo avito così come dal tavolino di un caffè, di un mondo tanto diverso da quello che gli ha fatto compagnia nelle sue carte e dal quale sa di essere escluso.

Non a caso gli spazi chiusi e oscuri sembrano prevalere, almeno semanticamente, su quelli aperti (spesso osservati solo dalla finestra), in genere espressione di momenti di euforia, come nello splendore della luna piena che rischiara la scrivania di Giacomo intento a comporre La sera del dì di festa, o ancora durante le passeggiate sull’Arno o nei momenti di riposo sulla salubre terrazza di Torre del Greco. Gli interni sono invece legati a scene inquisitoriali che hanno insieme i tratti del teatro e del tribunale: dall’esibizione iniziale dei piccoli fratelli Leopardi in occasione del saggio scolastico in un salone-palcoscenico buio rischiarato solo da alcune candele, all’interrogatorio severo da parte del padre e dello zio Carlo Antici subìto da Leopardi dopo il tentativo di fuga da Recanati, alle discussioni presso il Gabinetto Vieusseux sino alle numerose scene ambientate durante i pasti, particolarmente imbarazzanti per il monofago Giacomo.

Di Antonio Ranieri, interpretato da Michele Riondino, è proposta una rilettura in chiave amicale che insiste ampiamente sul legame complementare e simbiotico con Leopardi, così come campeggia, sin dall’incipit, la figura di Monaldo, resa vigorosamente da Massimo Popolizio, padre sì di limitate vedute, ma sinceramente affezionato al figlio e geloso del legame sin troppo paterno che lega Giacomo a Giordani. Sullo sfondo si agitano poi tante figure femminili: dalle pur importanti Paolina (Leopardi) e Paolina (Ranieri), alla madre anaffettiva (alla quale Martone non concede che poche battute) sino ai delusi amori per Silvia (in un episodio non pienamente riuscito) e per Fanny Targioni Tozzetti, interpretata da Anna Mouglalis.

Pregnanti sono i ‘dispositivi cinetestuali’ utilizzati da Martone nel passaggio dalla parola scritta all’immagine, considerando anche l’inscindibilità in Leopardi di vita e letteratura. Particolarmente riuscite sono le citazioni di scritti leopardiani, ad esempio nel serrato e appassionato dialogo off tra Leopardi e Pietro Giordani (convincente l’interpretazione di Valerio Binasco già diretto da Martone in Noi credevamo) ottenuto con prelievi puntuali dal carteggio tra i due letterati. Vi sono poi dei riferimenti espliciti alla composizione di opere del Recanatese, non facili da rendere nella trasposizione cinematografica, come le traduzioni dai classici compiute dal giovane Giacomo e soprattutto la stesura dello Zibaldone, concepito come «un sistema che introduce uno scetticismo ragionato e dimostrato». Sono infine riscontrabili delle citazioni indirette, generate, ad esempio, dall’introduzione allusiva di dialoghi con un giocatore di pallone o un venditore di almanacchi che vivono da ‘personaggi’ nei testi leopardiani.

A parti più didascaliche, se ne aggiungono altre visionarie che ben si attagliano alla definizione, coniata da Emiliano Morreale a proposito di precedenti lavori di Martone, di «cinema saggistico, cinema di fantasmi». E così dalla sequenza del sogno del furto dei pettini a Napoli (con un cammeo di Iaia Forte) alle veloci drammatizzazioni del Consalvo e soprattutto del Dialogo della Natura e di un Islandese, lo spettatore si trova talvolta proiettato, in modo spesso repentino e non sempre esplicitamente motivato, verso sequenze poste su un altro piano rispetto al realismo prevalente della storia. Grazie a questi scarti si ha una temporanea sospensione del prevalente piano della verosimiglianza per dar vita a episodi in cui Leopardi da scrittore diviene attore e interprete dei suoi stessi personaggi (di Consalvo come dell’Islandese). Solo sul piano dell’immaginazione, qui coincidente con quello della letteratura, diventa possibile appagare desideri destinati a rimanere frustrati nella realtà: così, esclusivamente entro uno scenario cavalleresco, Giacomo può ricevere un bacio da una guerriera (prima velata dall’elmo come la Clorinda dell’amato Tasso) che ha il volto di Fanny, e riesce ad avere, nei panni dell’Islandese, un serrato e rabbioso confronto con la madre-Natura raffigurata come una statua gigantesca, «di volto mezzo tra bello e terribile».

Nel film vi sono molti riferimenti alle arti figurative e, in genere, alle antichità, valorizzate dalle belle inquadrature degli interni di palazzi nobiliari. Basti pensare ai discorsi tra Leopardi, Giordani e Fanny generati dalla visione della pregevole statua di Tenerani raffigurante Psiche («Amava ad occhi chiusi, senza vedere chi fosse l’amato… Non c’è favola più bella di Amore e Psiche» – sussurra nel film Giacomo a Fanny che riproporrà in giardino un gioco galante ispirato a questo mito classico) e ancora alle iscrizioni lapidee a Loreto fatte contemplare (e toccare) da Giordani a Leopardi, sino a giungere alla passeggiata tra i reperti archeologici di Pompei.

Evidente appare l’intento di avvicinare lo spettatore odierno a Leopardi (con qualche ‘strizzatina d’occhio’ al pubblico più giovane e forse in minima parte anche a quello delle fiction), dalla scelta accattivante del titolo mutuata da uno scritto di Anna Maria Ortese, alla contaminatio realizzata nella colonna sonora tra musica classica e moderna. Si passa così dal Beethoven iniziale delle prime scene al Rossini delle esperienze teatrali leopardiane sino ai riferimenti mozartiani suggeriti anche dalla figura dominante del padre morbosamente legato al suo enfant prodige e poi ancora dal ruolo di Leporello assunto da Giacomo. Questi richiami sono saldamente intrecciati, in una sorta di pastiche sonoro, agli arrangiamenti elettro-pop del musicista tedesco Sascha Ring, noto come Apparat.

Il film si dipana essenzialmente tra quattro città – Recanati, Firenze, Roma, Napoli – ma la vera polarità oppositiva è tra Recanati e Napoli.

Dall’universo freddo e claustrofobico di Palazzo Leopardi (e anche i mattoni monocromatici della città sono – secondo Martone – proiezione all’esterno dello spazio librario) al ‘ventre’ del film nella sezione napoletana; il soddisfacimento delle pulsioni è comunque sempre negato a Leopardi, come risulta sancito inesorabilmente nell’inserzione straniante dell’episodio del postribolo (ispirato a un passo di Partitura di Enzo Moscato) con un fugace riferimento queer.

Non trascurabile è la valenza ctonia della parte finale del film ambientata a Napoli (in particolar modo nella città notturna), una vera e propria catabasi di un Leopardi flâneur dove si fondono eros e thànatos, il piacere del gioco e quello dei sensi, la pulitura dei teschi e l’erompere del colera insieme ad una ‘spettacolarizzata’ eruzione del Vesuvio che giganteggia sulla debolezza del corpo malato del poeta.

Tra inizio e fine del film vi è una circolarità quasi perfetta con diverse corrispondenze e simmetrie: la triade composta da Giacomo e dai fratelli Carlo e Paolina (i cui giochi infantili sono rievocati fugacemente attraverso flash-back) nell’epilogo si ricompone col trio Leopardi, Antonio e Paolina Ranieri; i passi controversi in lingua greca da decriptare negli esercizi di traduzione (a proposito della resa del termine omphalòs con «umbilico») si ripresentano in chiave antifrastica non tanto nella figura del padrone di casa di origine greca, quanto soprattutto nella ripetizione ecoica e irridente dell’espressione «s’agapò» da parte di prostitute e scugnizzi napoletani.

Per Mario Martone l’insistere sull’erratica flânerie di Leopardi nei luoghi partenopei è un ritorno alle origini, un ritorno a una città amata e più volte decantata nelle sue opere sino alla recente regia teatrale della Carmen, riscritta da Moscato e ambientata a Napoli, che ha debuttato felicemente nel mese di febbraio. La particolare ‘focalizzazione’ napoletana operata dal regista in molti suoi lavori ci porta infine ad osservare come persino il passo dell’Ortese da cui è tratto il titolo del film abbia proprio a che fare con un Pellegrinaggio alla tomba di Leopardi nel capoluogo campano: «Così ho pensato di andare verso la Grotta, in fondo alla quale, in un paese di luce, dorme da cento anni il giovane favoloso».

© Mario Spada