Reinventare lo spazio performativo in tempo di pandemia. Le operazioni-opere di Mario Martone*

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L’impatto della pandemia sullo spettacolo dal vivo ha prodotto uno stato di necessità inedito: garantire la fruizione dei contenuti performativi e mantenere in vita il rapporto con i pubblici nonostante l’impossibilità dell’incontro diretto tra attori e spettatori, della loro relazione in presenza. Per affrontare la crisi di relazionalità spaziale che connota il ‘teatro al tempo del Covid’ si sono moltiplicate le iniziative di meditizzazione e webcasting degli spettacoli, con risultati artistici eterogenei ma un ambito di intervento comune: lo spazio performativo ripensato alla luce del trasloco mediale degli eventi. In questo frangente senza precedenti Mario Martone ha ideato e realizzato due allestimenti per il Teatro dell’Opera di Roma, Il barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini e La traviata di Giuseppe Verdi, che hanno scardinato ogni convenzione formale della messa in scena operistica, reiventandola secondo principi e procedimenti di ordine cinematografico. Le operazioni-opere di Martone, concepite appositamente per essere trasmesse sui canali televisivi e streaming della Rai, risultano esemplari, addirittura paradigmatiche di un netto ripensamento del genere del film d’opera, che il regista napoletano rimodula stilisticamente come opera-film, lavorando sulla cineficazione dello spazio teatrale e delle sue dinamiche attanziali. Il saggio, a partire da una propedeutica ricognizione storiografica del profilo artistico di Martone, analizza e interpreta le reinvenzioni spaziali delle regie liriche sopracitate, secondo due chiavi di lettura divergenti ma complementari: la designazione filmica dello spazio vuoto de Il barbiere, rappresentato e filmato nella sala deserta del Teatro Costanzi per evidenziare l’assenza del pubblico e la finzione scenica, e, all’opposto, l’occultamento cinematografico del vuoto spettatoriale e dell’artificio performativo de La traviata, ottenuto trasformando l’intera platea dell’Opera di Roma in un set realistico e site-specific. La lettura critica dei casi di studio è corroborata da un impianto metodologico che compendia la speculazione di Peter Brook sul valore rivelatorio dell’empty space, le acquisizioni degli Opera Studies sull’astrazione antinaturalistica del teatro musicale, le nozioni di mediatizzazione e cineficazione teatrale segnatamente applicate allo spazio performativo dell’opera lirica. 

The impact of the pandemic on live performance has produced an unprecedented state of necessity: guaranteeing the fruition of performance contents and keeping alive the relationship with audiences despite the impossibility of a direct contact between actors and spectators, of their relationship in presence. In order to tackle the crisis of spatial relationality that characterizes the ‘theatre at the time of Covid’, initiatives for the mediatisation and webcasting of performances have multiplied, with heterogeneous artistic results but a common sphere of intervention: the performance space rethought in the light of the media transfer of events. In this unprecedented juncture Mario Martone conceived and realized two productions for the Teatro dell’Opera di Roma, Il barbiere di Siviglia by Gioachino Rossini and La traviata by Giuseppe Verdi, which broke down all formal conventions of opera staging, reinventing it according to cinematographic principles and procedures. Martone’s opera-operations, conceived specifically to be broadcast on Rai television channels and streaming, are exemplary, even paradigmatic of a net rethinking of the film of opera genre, which the Neapolitan director stylistically remodels as an opera-film, working on the cinefication of the theatrical space and of its actantial dynamics. The essay, starting from a preliminary historiographical survey of Martone’s artistic profile, analyses and interprets the spatial reinventions in the above-mentioned productions, according to two divergent but complementary keys to interpretation: the filmic designation of the empty space in Il barbiere, represented and filmed in the deserted space of Teatro Costanzi to highlight the absence of the audience and the stage fiction, and, at the opposite, the cinematographic occultation of the spectatorial void and the performative artifice in La traviata, obtained by transforming the entire stalls into a realistic and site-specific film set. The critical reading of the case studies is corroborated by a methodological framework that encompasses Peter Brook’s speculation on the revelatory value of empty space, the acquisitions of Opera Studies on the antinaturalistic abstraction of musical theatre, the notions of theatrical mediatisation and cinefication specifically applied to the performance space of opera.

1. Visioni dello spazio nel teatro di Martone

«Quel che cerco è il respiro comune di attori e spettatori. Quale che sia lo spazio, felicemente assembrati in sala o fatalmente divisi da un teleschermo, quello e nient’altro è il teatro».[1] Così Mario Martone descrive la vocazione che muove il suo lavoro registico, la ricerca di una ‘comunione di respiro’ tra attori e spettatori non vincolata al tangibile, alla dinamica fisica fra scena e platea, ma capace di prodursi anche nell’impalpabile, nella reciproca consapevolezza di vivere e di sentire l’esperienza del teatro.

Nel contesto spettacolare dell’epoca Covid sappiamo che il ‘corpo a corpo’ di emittenti e destinatari nello spazio deposto al teatro è entrato radicalmente in crisi, e che il medium teatrale ha dovuto affrontare il più estremo compromesso della sua storia millenaria: l’assenza del pubblico dal vivo. Nella crisi di relazionalità spaziale che connota il presente pandemico una delle più convincenti reinvenzioni dello spazio performativo è arrivata dalla teatralità operistica, ed esattamente dalle due messinscene de Il barbiere di Siviglia e de La traviata prodotte dal Teatro dell’Opera di Roma con la regia di Martone, e trasmesse su Rai3 rispettivamente a dicembre 2020 e ad aprile 2021. Eclettiche reinvenzioni del genere del film d’opera, gli spettacoli realizzati da Martone fanno leva sul versante della spazialità teatrale rimediata cinematograficamente, per superare l’impasse dello spettacolo ‘in carne e ossa’ fisicamente inaccessibile al pubblico.

Mario Martone è uno dei pochi registi che oggi in Italia si esprime sistematicamente e con risultati innovativi in tre campi differenti: teatro, cinema e opera lirica. La sua poetica, in tutti gli ambiti in cui si articola, ha sempre valorizzato la commistione, l’incontro intersemiotico di codici e linguaggi differenti, che hanno arricchito la sua esperienza creativa da vari punti di vista. In un itinerario artistico ormai più che quarantennale (precocemente iniziato a diciassette anni con lo spettacolo Faust e la quadratura del cerchio del 1976), il regista napoletano ha percorso strade diversissime, partendo dall’avanguardia postmoderna e visuale degli allestimenti di Nobili di Rosa e di Falso Movimento,[2] per arrivare al recupero della parola e del testo, all’incontro con la tragedia greca e con Shakespeare, all’approdo al cinema e all’opera lirica, alla costituzione della factory di Teatri Uniti (con Toni Servillo e Antonio Neiwiller e i precedenti compagni di Falso Movimento), all’impegno militante assunto con la direzione del Teatro di Roma tra il ’99 e il 2000, con il lavoro nel comitato artistico del Teatro Mercadante di Napoli, con l’incarico di Direttore del Teatro Stabile di Torino – ricoperto per un decennio dal 2007 al 2017.

Osservando la sua storia registica ciò che più colpisce di Martone – rileva giustamente Gianfranco Capitta –, è la «capacità, la più importante per un artista, di sorprendere anche lo spettatore più affezionato (ogni volta, dopo un iniziale spaesamento), la capacità di rinnovarsi, di andare improvvisamente più a fondo in un territorio non consolidato, fuori o altrove rispetto a un successo appena acquisito e universalmente riconosciuto».[3]

Oltre al dato di instancabile mutevolezza espressiva, di cui pure va sottolineata la rilevanza, nella ricerca di Martone emerge anche il rifiuto di un codice formale definito, la spinta, in particolare nel lavoro sul palcoscenico, verso un teatro aperto[4] all’ibridazione col cinema, la musica, la danza, l’architettura; un teatro – scrive Massimo Fusillo – che «invocando la molteplicità, il dinamismo, le possibilità di apertura […] non vuole chiudersi nella gabbia di imperativi etici».[5] La sua assoluta libertà registica si coglie anzitutto nel lavoro sullo spazio performativo, declinato scenograficamente con modalità sempre diverse e personalizzate: dall’utilizzo di ambienti desueti come le segrete del castello di Sant’Elmo per lo spettacolo Otello (1982) e i ruderi della città terremotata di Gibellina per l’Oedipus Rex di Stravinskij (1988),[6] alle scenografie mobili e di taglio cinematografico di Tango glaciale (1982) e di Ritorno ad Alphaville (vincitore del Premio Ubu per la sezione Scenografia nel 1987), alla platea svuotata e semibruciata dell’Edipo re (2000) messo in scena al Teatro Argentina, fino alla serrata dialettica tra esterno e interno dell’Edipo a Colono (2004) allestito al Teatro India – ossia in quello «spazio alternativo all’Argentina, […] nobile e povero»,[7] che Martone ha ricavato da una vecchia fabbrica in disuso sul Lungotevere, realizzando un’operazione esemplare di riqualificazione di archeologia industriale.[8]

Rievocare questi trascorsi dell’attività teatrale di Martone serve a indicare una tensione creativa tanto sfrangiata e poliedrica quanto segnatamente rivolta alla dimensione spaziale e scenografica, che si manifesta in termini originali e inventivi anche e soprattutto nelle sue regie operistiche. Dal primo contatto col repertorio lirico avvenuto con il già ricordato Oedipus Rex, alla progressiva messa in scena della trilogia di Mozart-Da Ponte (Così fan tutte nel 2000, Don Giovanni nel 2002, Nozze di Figaro nel 2006) il regista napoletano ha lavorato ripetutamente con libretti e partiture, e i suoi spettacoli operistici sono stati allestiti nelle sedi più prestigiose del teatro musicale contemporaneo: Covent Garden a Londra e il Théâtre des Champs-Elysées a Parigi, in Italia La Scala, il Rossini Opera Festival, il Teatro San Carlo di Napoli, il Maggio Musicale Fiorentino, il Massimo di Palermo.

Benché nate in contesti molto diversi fra loro, le opere portate in scena da Martone sono sempre caratterizzate da uno stretto rapporto tra la materia rappresentata e lo spazio per cui sono state concepite, articolato – spiega il regista – secondo due principi guida: «un certo lavoro di essenzializzazione del linguaggio scenico [e] sempre e comunque una scena unica, resa viva e sfaccettata dal ruolo dei cantanti attori».[9] Il concetto di scena unica, in particolare, è ribadito in un pregnante intervento di Martone, scritto in occasione della laurea magistrale honoris causa in ‘Linguaggi dello spettacolo, del cinema e dei media’ che gli è stata assegnata nel 2012 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria. Racconta il regista:

Pur avendo affrontato autori e libretti molto diversi uno dall’altro facendo scelte stilistiche e interpretative anche lontane, alcuni elementi di fondo rimangono per me dei punti di partenza costanti: tra questi, fondamentale, la presenza di una scena unica basata su una visione dello spazio che ho bisogno di creare personalmente perché ne scaturisca la regia.[10]

Da questa dichiarazione si traggono due informazioni fondamentali: la prima è che per Martone la regia di uno spettacolo operistico scaturisce dalla visione dello spazio in cui esso avrò luogo – e che dev’essere creata da lui personalmente; la seconda è che il punto di partenza del suo lavoro compositivo è la definizione di una scena unica. Tale concetto inoltre, secondo Fusillo, può essere interpretato come una specifica declinazione della categoria wagneriana di opera d’arte totale, la quale rispecchia ciò che il regista fa nelle sue regie liriche in termini di «un dinamismo degli spazi che si proietta continuamente verso la platea e verso il pubblico, per creare quella comunione totalizzante che è il modo con cui Martone rilegge il concetto di Gesamtkunstwerk».[11]

Mario Martone, prove de La traviata, © Fabrizio Sansoni, Teatro dell’Opera di Roma, 2021

Acquisite queste propedeutiche premesse concettuali e stilistiche possiamo guardare con contezza alle ultime reinvenzioni dello spazio performativo che Martone ha realizzato nel teatro musicale, in cui i principi base dell’essenzialità e dell’unicità scenica, su impulso della crisi di relazionalità spaziale dello spettacolo dell’epoca Covid, appaiono rilanciati e amplificati, spinti in una direzione oggettivamente radicale e pregnantemente simbolica.

 

 

2. La mediatizzazione dello spettacolo teatrale

È chiaro che l’avvento del virus ha determinato, e sta continuando a determinare, un mutamento della forma tradizionale dello spettacolo dal vivo, una trasformazione delle sue procedure materiali ed evenemenziali verso quella «fenomenologia dello streaming» che appare ormai come la più «ardua sfida del presente: trovare il modo di fare pervenire al pubblico il teatro per musica rinunciando alle storiche modalità correlate agli spazi di tradizione».[12]

Sulla complessa questione della cosiddetta ‘Netflix del teatro’ occorre delineare un netto distinguo: un conto sono le trasmissioni su piattaforme online o canali televisivi (come Rai5 in Italia e Arte nella televisione franco-tedesca) di registrazioni audiovisive di spettacoli teatrali, che evidentemente costituiscono un documento indiretto di ciò che è accaduto sul palcoscenico, ossia ‘soltanto’ una testimonianza artistica in differita che in alcun modo lo può sostituire. Tutt’altro conto invece sono quei lavori, esattamente come gli spettacoli realizzati da Martone, in cui le produzioni trasmesse via televisione o Internet non sono la documentazione video di una messinscena ma opere audiovisive vere e proprie, con altri principi, strutture, economie. I numerosi esperimenti di mediatizzazione[13] di contenuti teatrali che sono stati compiuti nell’ultimo anno e mezzo, seppure non sempre artisticamente riusciti, hanno ridisegnato la fisionomia produttiva, distributiva e fruitiva delle performing arts, stimolando «una riflessione diffusa sul [loro] rapporto con le tecnologie e le culture digitali».[14] In questo contesto, nota opportunamente Laura Gemini, «la mediatizzazione della presenza teatrale si è resa osservabile attraverso la sperimentazione sui diversi gradienti di liveness digitale. La ridefinizione del senso dell’hic et nunc ha assunto molteplici forme, che non si esauriscono nella semplice constatazione della centralità culturale assunta dal live streaming in questi mesi».[15]

Se ormai da oltre un decennio si assiste allo sviluppo del webcasting[16] (live e non) di eventi teatrali, ed esiste un’ampia letteratura critica che si è occupata del fenomeno specie nel mondo anglosassone,[17] è evidente lo spread prodotto dalla pandemia sulla produzione e il consumo di spettacolo digitale, tant’è che secondo un recente studio americano non è giusto parlare di un ‘before and after quanto piuttosto di un ‘before and faster’: l’emergenza pandemica ha accelerato delle modifiche già in atto da tempo, e in questo senso durante il lockdown i contenuti teatrali mediatizzati sembrano avere svolto un ruolo importante nel mantenere attivo il contatto con il pubblico e nel sostenere il suo benessere nonostante la crisi.[18] La tensione verso il webcasting delle arti performative incrementata negli ultimi mesi non è priva di problematiche, sia relative alla disuguaglianza tra chi ha potuto investire nella sfida tecnologica e chi per ragioni di disponibilità economica è rimasto escluso da questa possibilità (le Fondazioni lirico-sinfoniche italiane hanno beneficiato di una congiuntura ottimale: i maggiori finanziamenti pubblici erogati attraverso il FUS – il Fondo Unico per lo Spettacolo –, e una drastica riduzione dei costi); sia concernenti la sostanziale modificazione della condizione di liveness,[19] del senso di ‘dal vivo’, che la fenomenologia dello streaming sta specificatamente ri-declinando come digital liveness – soprattutto nel caso di quelle performance che usano piattaforme per web conferencing, Vimeo, YouTube, etc.

Nella traiettoria di quest’ultimo aspetto, che è il più incandescente e ha generato posizioni alquanto polarizzate tra chi è pro e chi è contro la mediatizzazione in corso, Martone ha cercato e trovato delle soluzioni realmente innovative. Non ha messo in scena dei ‘surrogati’ temporanei e digitali dell’esperienza spettacolare, ma ha esplorato veri e propri percorsi di rimediazione cinematografica dell’evento performativo, sfruttando la specifica contingenza del «Theatre of empty seats» per lavorare «on reconstructing a sense of place, [on] the theatre that returns to extra-domestic spaces but is forced to meet the audience outside the canonical relationship between the stage and the stalls. The physical theatre space thus returns to be a functional place for performances».[20]

Prove de Il barbiere di Siviglia, regia e installazione di Mario Martone, © Yasuko Kageyama, Teatro dell’Opera di Roma, 2021

 

 

3. Il barbiere di Siviglia nel teatro svuotato

Lo spettacolo Il barbiere di Siviglia, basato sull’opera buffa del 1816 di Gioachino Rossini, libretto di Cesare Sterbini, è la terza produzione pensata in chiave anti-Covid dal Teatro dell’Opera di Roma, arrivata dopo il Rigoletto di Verdi diretto da Damiano Michieletto al Circo Massimo nel giugno 2020, e la Zaide di Mozart diretta da Graham Vick al Teatro Costanzi lo scorso ottobre. Seppure concepiti appositamente per le restrizioni imposte dalla pandemia, il Rigoletto e la Zaide sono stati comunque messi in scena con il pubblico in presenza (e anche trasmessi su Rai5, uno in diretta, l’altro in differita), prima della sospensione ministeriale degli spettacoli dal vivo. Diversamente la messinscena di Martone ha inaugurato la stagione 2020-2021 del Teatro dell’Opera durante la seconda fase più critica, dopo il primo lockdown, del «mondo flagellato dal Covid», ovvero quando «le restrizioni scattate alla fine di ottobre hanno svuotato i teatri non solo in Italia, […] generando un benefico effetto di stimolo alla creatività in rapporto […] alle modalità di comunicazione di un linguaggio scenico inevitabilmente molto diverso da quello abituale».[21] Trasmesso ‘in debutto’ su Rai3 il 5 dicembre 2020, e in replica su Rai5 il 31 dicembre 2020,[22] Il barbiere martoniano ha raggiunto complessivamente oltre 680.000 telespettatori, ottenendo consensi così entusiastici dalla stampa e dalla critica al punto da ricevere il 40° Premio Franco Abbiati per il ‘migliore spettacolo del 2020’, il prestigioso riconoscimento conferito annualmente dall’Associazione nazionale critici musicali.

Il cimento del regista napoletano, iper-concentrato in meno di un mese, ha riguardato sia la regia teatrale che quella televisiva, e, esplicando con convinzione e coerenza le linee di sperimentazione libertaria del suo fare artistico, è stato orientato a una decisa rottura delle convenzioni formali dello spazio performativo, per reagire alla chiusura imposta dall’emergenza pandemica.

Ponendosi al di là di ogni etichetta o consuetudine espressiva, l’operazione-opera concepita e realizzata da Martone richiede un’osservazione analitica scevra da implicazioni teoriche dettate dal genere del film d’opera,[23] al quale tecnicamente pertiene, pur configurandosi come un evento estetico autonomo che non coincide, nella sua esecuzione fattuale, con quel modello cui strutturalmente si rifà. Tale evento estetico, in primo luogo, è un film registrato e rimontato,[24] che mette in scena integralmente e fedelmente l’opera di Rossini, utilizzando sia lo spazio interno del Teatro Costanzi, disabitato per la coatta assenza di pubblico, che luoghi esterni ad esso. L’estrema nudità dell’interno, del tutto privo di scenografia, radicalizza quel principio di essenzialità scenica seguito pervicacemente da Martone sin dai primissimi lavori,[25] per cui soltanto i costumi dei cantanti indicano il contesto storico dell’Ottocento rossiniano. All’assoluta spoliazione degli elementi scenografici fa da contraltare un uso totalizzante, pienamente a 360°, di tutti gli spazi interni all’edificio, per cui la scena diventa il teatro stesso, o meglio i suoi luoghi-simbolo: il palco reale, evidenziato da una doratura di luce, funge da balcone di Rosina; i palchi di primo ordine dispongono geometricamente, uno per ciascuno, le singole unità della forza militare interpretata dal coro; la platea rappresenta tutti gli ambienti della casa di Don Bartolo – appare in sovraimpressione anche una didascalia che lo esplicita, recitando appunto «Casa di Bartolo».

L’utilizzo integrale dei luoghi del teatro non è una novità per Martone, poiché già la sua Lulu del 2001 presentava un inserto video in cui il regista – come ricorda egli stesso – aveva «messo in scena tutto il Teatro Massimo di Palermo, avendo girato con i cantanti nella sua antica soffitta, nei suoi sontuosi palchetti, nei suoi giganteschi sottofondi».[26] Ciò che complica la drammaturgia degli spazi, in questo caso, è l’estensione dell’azione filmata ben oltre il perimetro del Costanzi: dal palcoscenico alla platea e dalle quinte al foyer lo sguardo delle telecamere si prolunga fino a Piazza Beniamino Gigli, ossia il piazzale antistante al Teatro dell’Opera, e persino alle trafficatissime strade della Capitale (di una «Roma città gialla» come recita qui la didascalia, dal colore dell’etichetta sanitaria assegnata al Lazio al momento delle riprese), che diventano il set en plein air di una lunga corsa in moto, filmata zigzagando tra le automobili durante l’esuberante cavatina di Figaro ‘Largo al factotum’. I due biker protagonisti di questa scena esilarante, di questo «coup de théâtre [che] avviene in video anziché in teatro»,[27] sono il direttore musicale Daniele Gatti, alla guida della moto, e come passeggero il baritono Andrzej Filończyk che interpreta Figaro, il quale al termine della corsa approda in teatro e nel foyer, prima di entrare in sala, aiutato dalle sarte e già iniziando a cantare indossa il costume del suo personaggio. La sequenza extra-diegetica rispetto alla trama rossiniana raccorda l’ingresso nell’edificio del factotum con l’incipit del racconto operistico – già avviato in scena da Fiorello, dal Conte e da Rosina –, ma soprattutto crea una spiazzante dialettica tra il dentro-vuoto e il fuori-pieno del teatro, ottenuta con uno slancio extra-diegetico di carattere cinematografico.

Da quanto abbiamo descritto possiamo trarre delle considerazioni formali. Innanzitutto che lo spettacolo di Martone non è un’opera live videotrasmessa, poiché non tenta di replicare in forma mediatizzata l’esperienza dal vivo, anzi non presenta alcuna traccia di liveness teatrale, è tutto un accurato lavoro di riprese e montaggio. D’altro canto non è nemmeno un film d’opera tradizionale in cui il piano teatrale è interamente tradotto in un piano mimetico cinematografico, giacché viene meno – in pratica è del tutto negata – l’illusione filmica, laddove le riprese non restituiscono soltanto la messinscena ma esorbitano da essa, e si estendono in altri spazi e contesti sia ‘meta’ che ‘extra’ teatrali. In questo senso Il barbiere di Martone costituisce un unicum, è un’operazione del tutto nuova di cui non si hanno precedenti nella lunga storia del film d’opera.

L’inedita riscrittura dei codici convenzionali del genere, sia quelli drammaturgici che quelli cinematografici, si incardina con forza su un elemento, su quel nerbo fattuale da cui scaturisce l’intera reinvenzione martoniana: lo spazio teatrale vuoto, eccezionalmente connotato dall’assenza di pubblico. Ogni aspetto della messa in scena e della sua ripresa televisiva è volto a evidenziare questa aporia, questa straniante contraddizione rispetto allo «specifico semiologico dello spettacolo teatrale, […] lo spazio comune agli spettatori e agli attori».[28]

Il barbiere di Siviglia, regia e installazione di Mario Martone, © Yasuko Kageyama, Teatro dell’Opera di Roma, 2021Il barbiere di Siviglia, regia e installazione di Mario Martone, © Yasuko Kageyama, Teatro dell’Opera di Roma, 2021Il barbiere di Siviglia, regia e installazione di Mario Martone, © Yasuko Kageyama, Teatro dell’Opera di Roma, 2021

Dalla regia di Martone il vuoto spettatoriale emerge ovunque: la macchina da presa svela la desolazione della platea e dei palchi, ma anche del foyer, delle entrate e delle uscite, degli ambienti di passaggio come i corridoi e le scale; riprende le maestranze, il personale del retroscena – sarte, macchinisti, rumoristi, assistenti – mentre lavora dietro le quinte o segue il cast durante la recita, in una patente ‘rivelazione’ delle mansioni tecniche normalmente celate agli spettatori.[29] A ciò si aggiunge che la luce in sala è mantenuta costantemente accesa, e che i movimenti dei cantanti, in mancanza del pubblico a occupare il proprio spazio, sono del tutto liberi, quasi anarchici, per cui li si vede sparpagliarsi fra le poltrone – addirittura camminare sopra di esse – o scendere nella buca dell’orchestra per interagire con il direttore. L’insieme di queste dinamiche spaziali, tuttavia, probabilmente non avrebbe la stessa forza comunicativa senza l’apporto di quell’unico segno visivo, di quell’installazione ideata dallo stesso regista, che da sola (ri)semantizza l’intero spazio performativo: una maxi-ragnatela di corde che attraversa tutta la sala dal basso all’alto, come una tensostruttura che la ingabbia e che talvolta, in base a come è posizionata la macchina da presa, impedisce lo sguardo, ossia ostacola una visuale a tutto campo ai telespettatori. Una presenza tanto ‘trasparente’ quanto potente a livello concettuale e simbolico. È chiaro infatti che visualizzare la platea, che ricordiamo rappresenta la casa di Don Bartolo, come un fitto ordito di cavi in tensione indica la ‘gabbia’ da cui Rosina dovrà fuggire per coronare il suo amore con il Conte di Almaviva; ma questa stessa rete che imbriglia la pupilla dell’anziano tutore imbraca anche il teatro, e dunque simboleggia con ancora più vigore il ‘giogo’ della pandemia che ‘intrappola’ lo spettacolo dal vivo, non consentendogli di incontrare materialmente il suo pubblico.

Tutta la costruzione scenica e la ripresa filmica sono pertanto volte a mostrare lo spazio vuoto di spettatori, la scomparsa di quei referenti fisici a cui la performance dovrebbe rivolgersi in quanto evento pubblico, rituale e collettivo. Volutamente rappresentato e filmato su un palcoscenico nudo, come di solito è frequentato solo dagli addetti ai lavori, e in una sala deserta, la cui platea e i cui palchi sono abitati dai personaggi dell’opera invece che occupati dal suo pubblico, Il barbiere di Siviglia di Martone materializza un vero parossismo del concetto di ‘spazio vuoto’ formulato da Peter Brook. Per l’importante regista e teorico inglese spazio vuoto significa «l’essenza dell’accadere teatrale»;[30] scrive infatti Brook: «Posso scegliere uno spazio vuoto qualsiasi e decidere che è un palcoscenico spoglio. Un uomo lo attraversa e un altro lo osserva: è sufficiente a dare inizio a un’azione teatrale».[31] Sulla scorta di questa riflessione (che per lui è di ascendenza elisabettiana, e segnatamente shakespeariana) Brook ha sviluppato un densissimo ciclo di ‘teatro nello spazio vuoto’, attraverso una collana di spettacoli[32] caratterizzati da uno stile povero, tra scabra essenzialità e ascetico rigore: pochissimi oggetti, uno spazio d’azione pressoché disadorno, luci fisse e niente trucchi scenici. Senza addentrarci nel lavoro del regista inglese, nelle sue «forme di teatro […] svuotate di spettacolarità»,[33] ci basta qui ricordare – con Franco Perrelli – che la sua ricerca ‘povera’ si basava su un’idea di «Teatro-dell’Invisibile-Reso-Visibile»,[34] vale a dire, con le esatte parole di Brook, un teatro «che non si limita a presentare l’invisibile, ma crea anche le condizioni per renderne possibile la percezione».[35]

Torniamo a Martone: giacché la scelta dell’autore – che è una precisa scelta concettuale ed estetica – è proprio quella di filmare lo spazio vuoto, e di più, come abbiamo detto, di articolare tutta la composizione scenica e la ripresa televisiva al fine di esplicitare, di evidenziare drammaturgicamente il vacuum spettatoriale (come ha scritto Francesco Ceraolo, al punto che «l’assenza fisica dello spettatore diventa il vero centro nevralgico dello spettacolo»),[36] ecco allora che l’operazione di Martone si pone in stretta risonanza con l’estetica dello spazio vuoto di Brook. Il principio espressivo che informa la spazialità scenica è la designazione, resa ancora più semanticamente pregnante perché compiuta attraverso il linguaggio cinematografico, il punto di vista ‘onni-scopico’ dell’occhio ubiquo delle telecamere, della rottura della relazione teatrale, del «confronto vivo»,[37] del «rapporto guardante-guardato su cui si fonda lo spettacolo»;[38] e dunque la designazione di un diffuso senso di vuoto, spaziale e relazionale, attraverso cui per contrasto (si tratta proprio di un’antifrasi) emerge lampante agli occhi dei telespettatori l’essenza ontologica del teatro, o quantomeno dell’idea fenomenica di teatro: la co-presenza in un luogo che li pone in contatto a livello fisico ed emotivo di artisti e fruitori. Mettendo in scena e traducendo in immagini filmiche il contingente svuotamento dell’arena teatrale, sulla scia teorica dello spazio vuoto di Brook possiamo dire che Martone ha reso visibile l’invisibilità del pubblico, ha creato le condizioni espressive per ‘fare vedere’ e quindi fare prendere coscienza, per rendere i telespettatori ‘testimoni oculari’ dell’impatto della pandemia sulla dialettica fondante la pratica teatrale.[39]

Se dalla speculazione di Brook, invece, spostiamo lo sguardo alla contemporanea ‘anamnesi’ del teatro musicale ‘post-operatorio’ proposta dagli intellettuali e artisti Nicholas Till e Kandis Cook leggiamo che, in effetti, «non esiste qualcosa come uno spazio vuoto. Gli spazi sono sempre connotati socialmente».[40] Riconoscere il portato politico del luogo-teatro non collide affatto con l’estetica dello spazio vuoto teorizzata e praticata da Brook e riletta e rilanciata da Martone, al contrario la conferma e rafforza: la messinscena de Il barbiere di Siviglia evidenzia il valore socioculturale del luogo teatrale proprio mostrandone l’attuale svuotamento, designando l’assenza del pubblico con un «effetto cinema»[41] talmente spiccato da far sì che questa diventi presenza, e quasi la vera protagonista dell’opera, come una sorta di ‘platea fantasma’ invisibile ma ‘lì’, oggettivata dal suo stesso vuoto. Tale platea, inoltre, la si percepisce imprigionata, chiusa dentro la «cupola di corde»[42] che sovrasta l’aria sopra le poltrone sgombre – visivamente icastica ma soprattutto indicativa poiché non potrebbe esserci se i sedili fossero occupati: già la sua presenza, quindi, è segno di un’assenza. Solo gli ultimi minuti delle riprese regalano agli occhi dell’‘altra platea’, quella dell’audience televisiva, una simbolica liberazione, quando tutti – cantanti, orchestrali, maestranze – sulle trascinanti note del concertato conclusivo tagliano con delle cesoie i cavi che imbracano lo spazio, affidando a un corale e bellissimo «colpo di scena finale»[43] la catarsi collettiva ancora possibile dell’evento-teatro.

 

 

4. La traviata nel teatro come un set

Di segno opposto a quello de Il barbiere è il trattamento dello spazio performativo che Martone sperimenta nella messinscena de La traviata, opere seria di Giuseppe Verdi del 1853, libretto di Francesco Maria Piave, andata in onda su Rai3 il 9 aprile 2021 con quasi 1 milione di telespettatori.[44] Lo scarto col lavoro precedente non concerne l’impianto formale, che appunto rimane lo stesso: anche questa non è un’opera live videotrasmessa in tempo reale, né una ripresa sic et simpliciter proiettata in differita, ma la medesima ‘nuova formula’ del primo esperimento scandita in tre passaggi: messa in scena, tournage, montaggio. La differenza rispetto a Il barbiere sta tutta nella drammaturgia degli spazi; qui, infatti, pur restando invariata la dimensione del teatro vissuto come spazio vuoto, ancora negato al pubblico in presenza, la platea non è lasciata simbolicamente deserta ma è trasformata in un vero e proprio set cinematografico, reinventata nel segno di una concezione squisitamente filmica della scena teatrale e delle sue dinamiche.

Per riassumere la cifra estetica di questa operazione-opera vale la suggestiva sintesi del regista, il quale l’ha definita: «teatro che si scioglie in cinema, cambia il suo stato fisico e diventa fluido, penetrando nelle pieghe della partitura, cogliendone ogni elemento drammaturgico. Quindi scene girate in cinque giorni, fuori dall’ordine cronologico e poi rimontate, ma con interpreti e orchestra che eseguono tutto dal vivo. E nella totale assenza di pubblico».[45] Martone ha poi aggiunto: «Privati del teatro, ci siamo impossessati del teatro intero. Così, scesi dal palco, i personaggi vivono il dramma fra platea e palchetti, lungo scale, corridoi e saloni di tutta l’Opera di Roma».[46]

L’uso totalizzante degli interni del teatro anche qui si accompagna a mirate esterne di stampo cinematografico. Il ballo del primo Atto in parte è eseguito nella Sala Grigia del Costanzi; i palchi e i corridoi sono resi gli ambienti dell’abitazione parigina di Violetta; il loggione rappresenta il balcone della casa di Flora, e alcuni cruciali «snodi esterni»[47] – quando Alfredo si reca a Parigi e quando sfida a duello il barone Duphol – sono girati alle Terme di Caracalla, altri – la sfilata del corteo carnevalesco – nella strada attigua al teatro, tra coriandoli e automobili parcheggiate.

La traviata, regia e scene di Mario Martone, © Fabrizio Sansoni, Teatro dell’Opera di Roma, 2021La traviata, regia e scene di Mario Martone, © Fabrizio Sansoni, Teatro dell’Opera di Roma, 2021La traviata, regia e scene di Mario Martone, © Fabrizio Sansoni, Teatro dell’Opera di Roma, 2021

Se l’intermittenza tra interni ed esterni è un punto di continuità con Il barbiere, il passo in avanti nella reinvenzione spaziale de La traviata consiste nel fatto che la platea vuota è convertita in scena filmica, ossia è utilizzata come setting finzionale delle riprese.

Interamente smantellata (tutte le poltrone sono state rimosse e vendute ad altri teatri e privati; poi sostituite con nuove realizzate su disegno di quelle del 1926) la storica platea del Costanzi è stata coperta da una piattaforma di legno rivestita da moquette nera, diventando così il salone delle feste in cui si svolgono gli eventi del primo e del secondo Atto. Solo tre elementi scenografici dominano l’intero set – palcoscenico più platea –, nel segno di una ‘sfarzosità essenziale’ volta a identificare con poco il contesto dell’opera: l’enorme, monumentale (sei metri di diametro e tre metri e mezzo di altezza) lampadario di cristallo boemo che nel primo Atto, calato dall’alto ad altezza d’uomo, sovrasta l’intera platea, soluzione resa possibile dall’assenza di pubblico e legata alla lussuosa eleganza propria del Costanzi (non si tratta infatti di un elemento scenografico in senso stretto ma di un vero arredo del teatro); il letto di Violetta posto al centro del palcoscenico, simbolo della sua vita privata ‘messa in piazza’, della sua intimità violata e abusata (come indicano anche i tanti cappotti lanciati su di esso con noncuranza e sprezzo dagli invitati alla festa); e il lungo tavolo da brindisi del ricevimento, che nel secondo Atto diventa tavolo da gioco d’azzardo, perno attorno a cui si crea «un clima morboso e dionisiaco».[48] Come anticipato, il minimalismo scenografico da sempre caro a Martone qui raggiunge una radicale stilizzazione simbolica, laddove la poca e selezionata mobilia acquista valenza di vero e proprio senhal della vita dei personaggi, specie all’interno dello spazio del palco: a tutti gli effetti una scena unica fatta esclusivamente del letto della protagonista. Se il «rifiuto di una scenografia-contenitore e l’assunzione di un solo segno visivo»[49] tornano dalle passate regie martoniane, configurando l’oggetto-letto come il simbolo per eccellenza della sua poetica scenografica,[50] è nell’altro spazio performativamente attivo, quello ricavato dalla platea smantellata, che si compie il superamento delle precedenti invenzioni.

La traviata, regia e scene di Mario Martone, © Fabrizio Sansoni, Teatro dell’Opera di Roma, 2021

Il processo di cineficazione spaziale[51] messo in atto dal regista funziona in una doppia direzione: il tournage si muove senza soluzione di continuità tra il palcoscenico, i saloni, gli anditi del teatro, e la platea trasformata in ambiente diegetico della fabula dettata dal libretto. Si compie così uno spostamento fondamentale rispetto all’operazione de Il barbiere: dalla patente designazione dell’assenza di pubblico, del vuoto spettatoriale e della finzione rappresentativa si passa qui al loro mimetico occultamento, dilatando la performance drammatica e musicale nell’intero spazio fisico del Costanzi, e soprattutto impiegando la platea come un set che, nota bene Francesco Ceraolo, «risponde a leggi interamente realistiche e diegetiche».[52] Ciò significa che la finzione teatrale non viene filmata e così resa visibile, non è designata anti-realisticamente, bensì è occultata dalla costruzione di un’illusione mimetica cinematografica, anzitutto attraverso l’uso dello spazio e poi tramite il découpage – per cui l’‘Addio del passato’ del terzo Atto addirittura è realizzato con un flashback interno alla diegesi, che fa rivedere ai telespettatori l’incontro tra Violetta e Alfredo avvenuto all’inizio dell’opera.

Aprendo uno sguardo à rebours sulla teatrologia di Martone vediamo che l’idea di una platea-scena si era già manifestata oltre vent’anni fa: ne I sette contro Tebe allestito al Teatro Nuovo di Napoli nel 1996 lo spazio era «diviso in tre parti: i corridoi dei palchi, privati di pareti divisorie, dove si trovano gli spettatori; la platea, immaginata come l’agorà, dove vive il coro, […] il palcoscenico immaginato come il palazzo dove vivono i potenti».[53] L’allestimento prevedeva che il pubblico attraversasse la platea per prendere posto nei corridoi, così da ottenere «la rottura di ogni diaframma attore-spettatore», di mettere quest’ultimo «a strettissimo contatto con l’evento ed il personaggio».[54] Rispetto a questa caduta dell’impalcatura finzionale della tragedia de I sette, la platea-scena de La traviata risponde a una logica opposta: nel tentativo di compensare lo «strettissimo contatto» tra spettacolo e spettatore lo sguardo della macchina da presa coincide con quello del pubblico, ma nello stesso tempo va oltre la visione teatrale, si fa occhio mimetico cinematografico. Il piano filmico, infatti, ingloba l’azione drammatica; l’ópsis impersonale del cinema satura quella personale e soggettiva del teatro, e ciò passa dal trattamento dello spazio performativo attraverso due détournement delle convenzioni spaziali del luogo-teatro. La prima: la platea negata come tale e trasformata in spazio d’azione annichilisce la dimensione spettatoriale, e laddove non c’è pubblico è possibile l’illusione – giacché la stessa presenza degli astanti (o la loro assenza sottolineata come nel caso de Il barbiere) evidentemente denuncia la finzione scenica. La seconda: lo spazio cineficato dall’occhio delle telecamere diventa primus strutturale che sussume dentro di sé la simulazione della scena: la finzione performativa è inghiottita da un «cinema espanso»[55] teatralmente.

Il duplice occultamento filmico dell’artificio teatrale consente a Martone – notiamo ancora con Ceraolo – di risolvere quell’annosa contraddizione, quel «paradosso su cui si basa tutta la tradizione del film d’opera, è cioè quello di rendere realistica un’azione anti-realistica per statuto, come quella musicale operistica».[56]

L’opera in musica – ricorda appunto Paolo Gallarati – «poggia su un’idea follemente antinaturalistica: rappresentare un dramma con personaggi che, invece di parlare, cantano».[57] Specialmente nell’opera per numeri chiusi,[58] che caratterizza la drammaturgia musicale italiana dalle origini sino a Puccini, il tempo della rappresentazione e quello rappresentato non coincidono ma si divaricano; tale fenomeno, per cui il melodramma «fluttua continuamente tra accelerazione e rallentamento, scorrevolezza e staticità»,[59] rende la rappresentazione surreale e astratta, efficace sul piano emotivo ma del tutto priva di verosimiglianza mimetica. È il cinema che, «per mezzo della sua diretta esposizione fenomenica […] si pone necessariamente come illusoria e ieratica creazione di una natura seconda», di certo mediata dall’autore, dal «contributo culturale che è in atto nella sintesi artistica».[60] Martone, «nella maniera in cui inserisce il regime della rappresentazione in quello della narrazione filmica»,[61] dissimula artificio e astrazione del teatro musicale e dà loro un valore mimetico, ossia sostituisce il ‘patto di incredibilità’ su cui poggia l’azione cantata con un ‘patto di plausibilità’ reso possibile dall’illusione del cinema, dalla sua costruzione visiva per mezzo del découpage: l’inserto di eventi extra-scenici, fuori campo, i movimenti di macchina, dal campo lungo al piano medio al primo piano. In tal modo la regia crea una sovrastruttura narrativo-mimetica che dà unità percettiva, che offre ai telespettatori un’esperienza totale, davvero vicina all’ideale wagneriano del Gesamtkunstwerk, in cui «l’“arte della transizione” […], cioè una serie di trapassi graduali, realisticamente raccordati»[62] esclude le variazioni di tempo e ‘amalgama’ astrazione e realismo, fiction dell’‘agire cantando’ e mimesis drammatica delle situazioni e dei personaggi.

A tal proposito va detto che La traviata è particolarmente funzionale a questo procedimento cinematografico e di impronta wagneriana, poiché, «pur presentando le scansioni formali tipiche del melodramma ottocentesco, si presta a venire esposta in quanto seguito di eventi agiti da personaggi drammaturgicamente individuati, quasi come una commedia».[63] Facendo leva sull’affinità tra la drammaturgia de La traviata e quella del teatro recitato, e avvalendosi della grammatica del linguaggio filmico, Martone risolve in modo realistico e mimetico la contraddizione fondativa del genere del film d’opera, e reinventa la platea svuotata di pubblico come una location narrativa il cui «naturalismo dilatato a misura d’opera»[64] si accorda perfettamente al teatro musicale di Verdi.[65] Il risultato è un’opera-film totale, a livello spaziale e drammaturgico, e strettamente site-specific, che assimila i codici operistici e cinematografici per reagire al distanziamento sociale della pandemic era e ri-mediare l’incontro teatrale in forma mediatizzata, trasformando il ‘vuoto’ del teatro a chiusura forzata nel ‘pieno’ acustico e visivo, musicale e scenico, realisticamente drammatico e astrattamente canoro di un intenso set en plein théâtre.

 

*Questo articolo nasce nell’ambito del progetto di ricerca A.R.I.E. – Audience, Remediation, Iconography, Environment in Contemporary Opera (redatto all’interno del “PIAno di InCEntivi per la RIcerca di Ateneo - PIA.CE.RI. 2020/2022” linea 2) coordinato dalla Professoressa Stefania Rimini (Università degli Studi di Catania).


1 M. Martone, in A. Bandettini, ‘Mario Martone: “Lavoriamo perché il teatro sia molto più bello della tv”’, la Repubblica, 28 dicembre 2020, < https://www.repubblica.it/spettacoli/2020/12/28/news/mario_martone_lavoriamo_perche_il_teatro_sia_molto_piu_bello_della_tv-301048479/[accessed 30 september 2021].

2 Rispettivamente fondati da Martone nel ’77 e nel ’79. Con questi due gruppi il regista ha avviato la sua ricerca espressiva nell’area della cosiddetta Nuova Spettacolarità, lavorando sull’ibridazione postmoderna dei linguaggi e raggiungendo il grande successo internazionale con Tango glaciale (1982).

3 G. Capitta, ‘Prefazione’, in A. d’Adamo (a cura di), Mario Martone. Chiaroscuri, scritti tra cinema e teatro, Milano, Bompiani, 2004, p. 8.

4 Vero e proprio Leitmotiv lessicale di Martone, l’espressione ‘teatro aperto’ ricorre spesso nelle sue interviste per descrivere la sua idea di teatro.

5 M. Fusillo, ‘Premessa’, in A. Orsini, Città e conflitto. Mario Martone regista della tragedia greca, Roma, Bulzoni, 2005, p. 13.

6 Cfr. M. Fusillo, ‘Oedipus rex sulla scena’, Kleos, 1, Bari, Levante, 1994, pp. 41-45.

7 M. Martone, ‘Editoriale’, La porta aperta, n. 1, Roma, minimum fax, 1999. Su questo cfr. anche F. Perrelli, Storia della scenografia. Dall’antichità al XXI secolo, Roma, Carocci, 2013, p. 204, e A. Lastella, ‘L’India di Martone teatro nobile e povero’, la Repubblica, 7 settembre 1999.

8 Cfr. F. Bevilacqua, Teatri di Roma 1980-2008, Roma, Gangemi, 2016, pp. 24-26.

9 M. Martone, ‘Musica e scena’, in A. d’Adamo (a cura di), Mario Martone. Chiaroscuri, scritti tra cinema e teatro, pp. 186 e 188.

10 M. Martone, ‘Autoscatti’, in R. De Gaetano, B. Roberti (a cura di), Mario Martone. La scena e lo schermo, Roma, Donzelli, 2013, p. XXV.

11 M. Fusillo, Spostamenti progressivi di linguaggi. Mario Martone e l’opera d’arte totale’, in R. De Gaetano, B. Roberti (a cura di), Mario Martone. La scena e lo schermo, p. 29.

12 C. Galla, ‘Opera lirica: fenomenologia dello streaming’, Doppiozero, 12 dicembre 2020, < https://www.doppiozero.com/materiali/opera-lirica-fenomenologia-dello-streaming > [accessed 30 september 2021].

13 Il concetto di meditizzazione, elaborato nella recente letteratura dei media studies, applicato al teatro riguarda la sua progressiva assimilazione di formati e linguaggi mediali, ma anche «le dinamiche di costruzione sociale della realtà come sempre più influenzate dai media, intesi sia come tecnologie, sia come processi di sense-making che riguardano l’agency individuale» (L. Gemini, S. Brilli, F. Giuliani, ‘Il dispositivo teatrale alla prova del Covid-19. Mediatizzazione, liveness e pubblici’, Mediascapes journal, 15, 2020, p. 47).

14 Ivi, p. 50. Su questo tema si vedano anche C. Cannella (a cura di), ‘Dossier: il teatro ai tempi del Coronavirus’, Hystrio, XXXIII, 2, 2020 (in particolare G. Montemagno, ‘Dalla poltrona in platea al divano di casa, l’opera lirica ai tempi della pandemia’); F. Ceraolo, ‘Sipari virtuali’, Fata Morgana Web, 19 aprile 2020; G. Boccia Artieri, L. Gemini, ‘Per una live dei corpi a distanza’, Doppiozero, 1° maggio 2020; C. Galla, ‘Covid. Lo spazio del melodramma’, Doppiozero, 21 luglio 2020; R. Sacchettini, ‘Il teatro al tempo del coronavirus’, gli asini, 23 settembre 2020; R. Pedrotti, ‘Le 1010 giornate dello streaming’, L’Ape musicale, 4 febbraio 2021; A. Rotondi, E. Sartor (a cura di), ‘Digital (Emergency and Humanities) – Artistic Practices in COVID-19 time’, Mise en Abyme. International Journal of Comparative Literature and Arts, vol. VIII (1), January-June 2021, < https://www.journalabyme.com/current-issue > [accessed 30 september 2021].

15 Ivi, p. 51.

16 Con webcasting si identifica l’architettura di trasmissione di contenuti tipica del broadcasting (da uno a molti) erogata attraverso le reti digitali. Cfr. J. Whittaker, The Cyberspace Handbook, London, Routledge, 2004.

17 Tra i contributi più recenti si veda l’analisi promossa dall’Art Council of England nel 2016: B. K. Reidy, B. Schutt, D. Abramson, A. Durski, From Live-to-Digital: Understanding the Impact of Digital Developments in Theatre on Audiences, Production and Distribution, London, AEA Consulting for Arts Council England, UK Theatre and Society of London Theatre, 2016, consultabile al sito: < https://www.artscouncil.org.uk/sites/default/files/download-file/From_Live_to_Digital_OCT2016.pdf > [accessed 30 september 2021]; B. Walmsley, Audience Engagement in the Performing Arts. A Critical Analysis, Basingstoke-New York, Palgrave Macmillan, 2019; E. Sullivan, ‘Live to your living room: Streamed theatre, audience experience, and the Globe’s A Midsummer Night’s Dream’, Participations Journal of Audience & Reception Studies, 17 (1), 2020, pp. 92-119.

18 Cfr. K. Edelman, B. Hurley, N. Gangopadhyay, Digital media trends survey, 14th edition, a cura di Deloitte’s Technology, Media & Telecommunications practice, consultabile al sito: < https://www2.deloitte.com/lu/en/pages/technology-media-and-telecommunications/articles/digital-media-trends-survey.html > [accessed 30 september 2021].

19 Su questo concetto cfr. soprattutto E. Senici, ‘Il video d’opera “dal vivo”. Testualizzazione e liveness nell’era digitale’, Il Saggiatore musicale, XVI (2), 2009, pp. 273-312; P. Auslander, Liveness. Performance in a Mediatized Culture, London and New York, Routledge, 1999; Id., ‘Digital liveness: a historico-philosophical perspective’, PAJ: A Journal of Performance and Art, 34 (3), 2012; C. Georgi, Liveness on Stage: Intermedial Challenges in Contemporary British Theatre and Performance, Berlin-Boston, De Gruyter, 2014; L. Gemini, ‘Liveness: le logiche mediali nella comunicazione dal vivo’, Sociologia della Comunicazione, 51 (1), 2016, pp. 43-63.

20 G. Boccia Artieri, L. Gemini, S. Brilli, F. Giuliani, The reinvention of theatre space during Covid-19: Analysis of the Italian case, articolo gentilmente concesso dagli autori in anteprima, attualmente in corso di pubblicazione negli atti del simposio internazionale “Borštnikovo srečanje 2021” a cura di Tomaž Krpič.

21 C. Galla, ‘Opera lirica: fenomenologia dello streaming’.

22 Attualmente è disponibile sulla piattaforma streaming RaiPlay. Lo spettacolo, infatti, è una coproduzione dell’ente lirico romano e di Rai Cultura.

23 Pur non essendo possibile ripercorrere qui la lunga storia del film d’opera, e dunque la genealogia dei rapporti tra la forma melodrammatica e quella cinematografica, va almeno ricordato che la sua nascita risale a quella del cinema stesso, quando all’epoca del muto venne introdotto un supporto musicale dal vivo o registrato e sincronizzato alle immagini che scorrevano sullo schermo. Tra gli anni ’30 e ’50 poi, grazie all’introduzione del sonoro e alla complicità di cineasti appassionati al teatro musicale (come Carmine Gallone, Mario Costa, Clemente Fracassi), il film d’opera fece un salto di qualità, diventando uno dei generi più praticati e popolari dal secondo dopoguerra in avanti. Per approfondire cfr. M. Veilleux, ‘L’opera dal teatro allo schermo televisivo’, in J.-J. Nattiez (a cura di), Storia della musica europea, Torino, Einaudi, 2004, pp. 849-870, e F. Ceraolo, ‘Opera’, in R. De Gaetano (a cura di), Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, II, Milano, Mimesis, 2015, pp. 361-427.

24 Esattamente (citiamo dai titoli di coda) si tratta di un’«esecuzione in presa diretta» con la «ripresa televisiva realizzata dalla direzione produzione TV della Rai».

25 Già il primo spettacolo di Nobili di Rosa, Avventure al di là di Thule (1977), era estremamente indicativo dell’essenzialità scenica martoniana. Così, infatti, lo ricorda il regista: «Era un lavoro sul vuoto, sulla ricerca di un’essenza teatrale, elementare: gli elementi erano pochissimi, i rapporti tra di essi minimali. Quello che cercavo era un senso teatrale, il senso di uno zero teatrale» (M. Martone, ‘Conversazione con Mario Martone’, in O. Ponte di Pino, Il nuovo teatro italiano 1975-1988. La ricerca dei gruppi: materiali e documenti, Firenze, La casa Usher, 1988).

26 M. Martone, ‘Musica e scena’, in A. d’Adamo (a cura di), Mario Martone. Chiaroscuri, scritti tra cinema e teatro, p. 188.

27 F. Forestieri, ‘Il barbiere nel teatro svuotato, colpisce la metafora di Martone’, Teatro e Critica, 9 dicembre 2020, < https://www.teatroecritica.net/2020/12/il-barbiere-nel-teatro-svuotato-colpisce-la-metafora-di-martone/ > [accessed 30 september 2021].

28 P. C. Rivoltella, ‘La differenza comunicativa del teatro. Aspetti teorici e implicazioni educative’, in A. Cascetta, L. Peja (a cura di), Ingresso a teatro. Guida all’analisi della drammaturgia, Firenze, Le Lettere, 2003, p. 39.

29 Dal coinvolgimento delle maestranze nelle dinamiche performative dello spettacolo scaturisce il dato di più spiazzante meta-teatralità, di radicale abbattimento della quarta parete per consentire al ‘mondo del fuori scena’ di accedere alla ribalta. In tal modo si rende omaggio ai lavoratori dello spettacolo, una delle categorie più colpite dall’emergenza sanitaria in corso. Su questo si legga la dichiarazione di Carlo Fuortes, il sovrintendente dell’Opera di Roma: < https://www.operaroma.it/news/ascolti-straordinari-per-il-barbiere-di-siviglia-su-rai-3/ > [accessed 30 september 2021].

30 F. Perrelli, I maestri della ricerca teatrale. Il Living, Grotowski, Barba e Brook, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 89.

31 P. Brook, Lo spazio vuoto [1968], Roma, Bulzoni, 1998, p. 21.

32 I principali: Timone d’Atene (1974), Les Ik (1975), Ubu aux Bouffes (1977), La Cerisaie (Il giardino dei ciliegi) (1981), La Tragédie de Carmen (1981), Le Mahabharata (1985), Don Giovanni (1998), Un flauto magico (2011).

33 F. Perrelli, I maestri della ricerca teatrale. Il Living, Grotowski, Barba e Brook, p. 174.

34 Ivi, p. 89.

35 P. Brook, Lo spazio vuoto, p. 66.

36 F. Ceraolo, ‘Il teatro vuoto’, Fata Morgana Web, 7 dicembre 2020, < https://www.fatamorganaweb.it/il-barbiere-di-siviglia-rossini-martone-opera-di-roma/ > [accessed 30 september 2021].

37 P. Brook, Lo spazio vuoto, p. 108. Come tutti i maestri della ricerca teatrale del Novecento anche Brook ha sottolineato in più occasioni il punto di specificità socio-antropologica del teatro rispetto alle altre forme di comunicazione. Ad esempio con queste parole: «Il teatro è un’arena in cui può prodursi un confronto vivo. La concentrazione di un grande numero di persone crea un’intensità unica che consente di isolare e di percepire con maggiore chiarezza forze che sono sempre in azione e che regolano la vita quotidiana di ogni individuo (Ibidem).

38 M. Rocco, ‘Per una ermeneutica della rappresentazione scenica: la lettura simbolica’, in A. Cascetta, L. Peja (a cura di), Ingresso a teatro. Guida all’analisi della drammaturgia, p. 355.

39 È Alain Badiou che parla di ‘dialettica del teatro’ in riferimento alla relazione che si instaura tra scena e platea. Nell’ontologia dell’evento teatrale elaborata dal filosofo e drammaturgo francese è proprio dalla dinamica tra attori e spettatori che scaturisce il valore politico e veritativo del teatro, giacché quest’ultimo solo «nella circostanza evenemenziale della sua sfida (dialettica) può produrre verità» (A. Badiou, ‘Teatro e politica nella commedia’, in Id., Rapsodia per il teatro. Arte politica evento, a cura di F. Ceraolo, Cosenza, Pellegrini, 2015).

40 Citiamo dal testo tradotto pubblicato da Francesco Ceraolo: K. Till, N. Cook, Manifesto, in F. Ceraolo, Registi all’opera, Roma, Bulzoni, 2017, p. 66.

41 Cfr. P. Sorlin, Sociologia del cinema, Milano, Garzanti, 1979, p. 306.

42 M. Martone in G. Capitta, ‘Il barbiere di Siviglia beffa l’ordine costituito’, Il manifesto, 4 dicembre 2020, < https://ilmanifesto.it/il-barbiere-di-siviglia-beffa-lordine-costituito/ > [accessed 30 september 2021].

43 Ibidem.

44 Co-prodotta, come Il barbiere, dal Teatro dell’Opera di Roma e Rai Cultura, adesso è inserita nel catalogo video di RaiPlay.

45 M. Martone in P. Scotti, ‘La traviata come un set. Martone: “È il teatro che si scioglie in cinema”’, il Giornale, 8 aprile 2021, < https://www.ilgiornale.it/news/spettacoli/traviata-set-martone-teatro-che-si-scioglie-cinema-1937034.html > [accessed 30 september 2021]. L’immagine usata dal regista («teatro che si scioglie in cinema, […] e diventa fluido») richiama l’attenta riflessione di Giulia Carluccio e Stefania Rimini «intorno alle questioni che riguardano la scena lirica contemporanea, ovvero, in sintesi, […] l’impatto delle nuove tecnologie nella costruzione scenica e nella visualizzazione dell’opera; la fluidificazione delle estetiche e dei linguaggi; il rapporto tra filologia musicale e invenzione registica; i cambiamenti nelle pratiche di ricezione del pubblico» (G. Carluccio, S. Rimini, ‘La trasversalità dei linguaggi nella regia d’opera contemporanea. Il caso Davide Livermore’, in L. Bandirali, D. Castaldo, F. Ceraolo (a cura di), Re-directing. La regia nello spettacolo del XXI secolo, Lecce, UniSalento University Press, 2020, p. 12).

46 Ibidem.

47 M. Martone in P. Scotti, ‘La traviata come un set. Martone: “È il teatro che si scioglie in cinema”’.

48 M. Martone in R. di Giammarco, ‘Mario Martone torna all’Opera con “Traviata”: il grande teatro diventa cinema’, la Repubblica, 24 marzo 2021, < https://www.repubblica.it/spettacoli/2021/03/24/news/mario_martone_traviata-301053731/ > [accessed 30 september 2021].

49 M. Martone, ‘Musica e scena’, in A. d’Adamo (a cura di), Mario Martone. Chiaroscuri, scritti tra cinema e teatro, p. 184.

50 Ci riferiamo soprattutto ai suoi spettacoli mozartiani, in cui non vi erano fondali né cambi di scena, «solo due letti nel teatro nudo». Spiegava infatti Martone (quasi in modo predittivo rispetto alle sue ultime operazioni) che «questa scelta così radicale tendeva a far emergere […] la teatralità racchiusa nella musica di Mozart alla quale, come nei versi di Shakespeare, può bastare uno spazio vuoto per creare degli interi universi nella mente degli spettatori» (Ivi, pp. 184-185).

51 Usiamo il termine cineficazione secondo l’accezione data dallo studioso Mario Verdone il quale, in riferimento alle regie di Erwin Piscator, di Leopoldo Fregoli e dei futuristi ne parlò come dell’assimilazione linguistica da parte del teatro di principi propriamente cinematografici; cfr. M. Verdone, ‘Teatro e cinema: interazioni’, in C. Vicentini (a cura di), Il teatro nella società dello spettacolo, Bologna, Il Mulino, 1983, pp. 51-62. Sulla cineficazione del medium teatrale si veda anche A.M. Monteverdi, Nuovi media, nuovo teatro. Teorie e pratiche tra teatro e digitalità, Milano, FrancoAngeli, 2011, pp. 91-113.

52 F. Ceraolo, ‘Addio del passato’, Fata Morgana Web, 11 aprile 2021, < https://www.fatamorganaweb.it/traviata-giuseppe-verdi-regia-martone-direzione-gatti/ > [accessed 30 september 2021].

53 M. Martone, in A. d’Adamo (a cura di), Mario Martone. Chiaroscuri, scritti tra cinema e teatro, pp. 154-155.

54 A. Orsini, Città e conflitto. Mario Martone regista della tragedia greca, pp. 87-88.

55 M. Martone in R. di Giammarco, ‘Mario Martone torna all’Opera con “Traviata”: il grande teatro diventa cinema’.

56 F. Ceraolo, ‘Addio del passato’.

57 P. Gallarati, ‘Valore formativo del melodramma. Lectio magistralis di congedo dall’Università di Torino’, Musica Docta. Rivista digitale di Pedagogia e Didattica della musica, IX, 2019, p. 129.

58 Quel modello di teatro lirico, alternativo al dramma musicale wagneriano, in cui la melodia infinita e del declamato aperto coesiste con la struttura tradizionale dell’opera, fatta di recitativi, arie, duetti, cori e concertati (statici o d’azione).

59 P. Gallarati, ‘Mimesi e astrazione nella regia del teatro musicale’, in R. Alonge (a cura di), La regia teatrale: specchio delle brame della modernità, Bari, Edizioni di Pagina, 2007, p. 178.

60 F. Ceraolo, Registi all’opera, p. 98.

61 Ibidem.

62 P. Gallarati, ‘Mimesi e astrazione nella regia del teatro musicale’, p. 184.

63 G. Guccini, ‘Direzione scenica e regìa’, in L. Bianconi, G. Pestelli (a cura di), Storia dell’opera italiana, vol. V (La spettacolarità), Torino, EDT, 1988, p. 161.

64 Ibidem.

65 Il primo compositore che reputò importante e che curò personalmente l’identità estetica del dramma musicale, sia sul piano attorico-interpretativo sia su quello dello spazio scenico. Su questo si veda G. Guccini, ‘Verdi regista: una drammaturgia fra scrittura e azione’, in J.-J. Nattiez (a cura di), Enciclopedia della musica, vol. 5, Torino, Einaudi, 2001, pp. 937-950.