Sinergie intermediali. Shakespeare tragico in tre inaugurazioni di stagione*

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A partire dal riconoscimento dell’importante ruolo drammaturgico che il teatro di William Shakespeare ha avuto da sempre nell’evoluzione dell’opera lirica, il saggio si concentra sulla lettura critica di tre spettacoli inaugurali delle stagioni operistiche in corso: l’Otello musicato da Verdi su libretto di Arrigo Boito, che con la regia di Mario Martone ha debuttato a novembre 2021 al Teatro San Carlo di Napoli; il Macbeth musicato da Verdi su libretto di Francesco Maria Piave, diretto da Davide Livermore a dicembre 2021 al Teatro alla Scala; il  Julius Caesar musicato da Giorgio Battistelli su libretto di Ian Burton, messo in scena da Robert Carsen a novembre 2021 al Teatro dell’Opera di Roma. Dalla puntuale ricognizione dei tratti stilistici e simbolici di queste messinscene, corroborata da mirati confronti con altri spettacoli musicali degli stessi autori, emergono le grandi potenzialità intermediali delle odierne regie dell’opera lirica, capaci di affrontare, rivivere e trasformare temi e testi del passato secondo una sensibilità artistica contemporanea e un’autorialità autenticamente condivisa.

Beginning with the recognition of the important dramaturgical role that William Shakespeare’s theater has always played in the evolution of opera, the essay focuses on the critical reading of three inaugural shows of current opera seasons: Otello set to music by Verdi to a libretto by Arrigo Boito, which under the direction of Mario Martone debuted in November 2021 at the Teatro San Carlo in Naples; Macbeth set to music by Verdi to a libretto by Francesco Maria Piave, directed by Davide Livermore in December 2021 at the Teatro alla Scala; and Julius Caesar set to music by Giorgio Battistelli to a libretto by Ian Burton, staged by Robert Carsen in November 2021 at the Teatro dell’Opera di Roma. From the precise recognition of the stylistic and symbolic traits of these productions, corroborated by targeted comparisons with other musical shows by the same authors, emerges the great intermedial potential of today’s opera directions: capable of addressing, reviving and transforming themes and texts of the past according to a contemporary artistic sensibility and an authorship that is authentically shared.

Le regie d’opera incarnano un campo con enormi potenzialità simboliche: un momento in cui la cultura contemporanea affronta, rivive e trasforma grandi temi e grandi testi del passato, in una sinergia intermediale che è anche autorialità condivisa, autentica opera d’arte totale. L’innesto sempre più massiccio delle nuove tecnologie nella composizione scenografica, e un generale ripensamento dell’equilibrio fra i diversi elementi interartistici (performance canora, movimenti dei cantanti, ritmo della partitura, light e set design), determinano profonde metamorfosi nella prassi realizzativa del repertorio e impongono letture a più ampio raggio, in grado di cogliere i processi di rimediazione senza l’ipoteca della fedeltà all’originale – spesso invocata da critici e musicologi.

Dopo la forzata chiusura dei teatri per effetto della pandemia, l’autunno scorso ha segnato un ritorno dello spettacolo dal vivo che ha offerto una significativa prova della vitalità produttiva degli enti lirici e della necessità di cogliere i fermenti culturali e di senso che germinano attorno a classici di ogni tempo. Nel contesto della stagione 2021-2022 tre teatri hanno scelto opere tratte da tragedie di Shakespeare, il Teatro San Carlo di Napoli, il Teatro dell’Opera di Roma, il Teatro alla Scala di Milano, confermando come la forza poetica del bardo abbia giocato un ruolo importante nella storia dell’opera. I rapporti fra Shakespeare e l’immaginazione melodrammatica seguono in una prima fase percorsi indiretti, attraverso la mediazione del neoclassicismo francese, poi invece divengono modello diretto di una poetica romantica che ricercava la varietà di stili e la potenza emotiva (lo chiarisce un saggio di Fabio Vittorini).[1] In particolare, Shakespeare è stato una presenza costante e quasi ossessiva nell’universo di Giuseppe Verdi, alimentando il suo ideale drammaturgico della parola scenica.

La dirompente forza espressiva del trittico shakespeariano ha spinto chi scrive a tentare una lettura in parallelo di regie molto diverse per impianto e codici performativi ma in grado di riattivare un confronto fra due capolavori di Verdi, Otello e Macbeth, e una novità composta per l’occasione da Giorgio Battistelli, Julius Caesar.

Il San Carlo di Napoli ha puntato sul capolavoro della maturità di Verdi, quell’Otello composto dopo la lunga crisi creativa rievocata dal bel romanzo di Franz Werfel, frutto di una collaborazione stretta con Arrigo Boito. La regia è stata affidata a Mario Martone, autore squisitamente intermediale che, come a suo tempo Luchino Visconti, lavora sistematicamente intrecciando cinema, teatro e opera lirica. La figura di Otello ha scandito momenti importanti nella ricerca di Martone, come ribadisce lui stesso in occasione del debutto napoletano:

È un ripensamento e una ricollocazione contemporanea della struttura narrativa, stavolta integrale, di Otello, mia vecchia conoscenza in quanto fonte di una scrittura scenica degli anni 80 che ha girato il mondo per tre anni, ma anche capolavoro ottocentesco di cui ho poi curato una regia lirica vera e propria nel 2009 a Tokyo.[2]

Nel 1982, nel pieno del passaggio dal mediateatro della Nuova Spettacolarità al recupero della drammaturgia, Martone mette in scena, nello spazio labirintico del Castel Sant’Elmo di Napoli, un Otello di Verdi totalmente riscritto da Peter Gordon, con una contaminazione fra rock, jazz, e musica etnica; nello spettacolo spiccava una Desdemona sensuale e atipica, mentre il finale di amore e morte era giocato fra Otello e Jago (Alessandro Serpieri ha valorizzato la dinamica maschile latentemente omoerotica come fulcro della tragedia shakespeariana).[3]

Nel 2009, invece, Martone mette in scena l’Otello di Verdi all’Opera di Tokyo, ambientandolo interamente in una Venezia scomposta in spazi multipli, grazie alle soluzioni sceniche di Margherita Palli,[4] mentre nel primo film della sua trilogia sull’Ottocento, Noi credevamo (2010), un brano orchestrale tratto dalla vicenda interiore di Otello scandisce vari momenti di un film corale sul Risorgimento tradito, ricco anche di citazioni iconografiche dall’Ottocento italiano, a significare la persistenza di risonanze verdiane che si riconnettono intimamente allo spirito tragico elisabettiano e per analogia alle atmosfere evocate nel testo.

Il recupero delle vicende del Moro avviene adesso in una mutata ottica temporale e atmosferica, di cui il regista esplicita portata e valenza:

Il tempo che è trascorso induce a vedere una prospettiva in evoluzione nel corso dei decenni: non poteva non colpirmi che questa è un'opera in cui un uomo uccide una donna che ama. Mi rendo conto meglio che le partiture verdiane hanno la capacità di raccontare le spinte, i temi conflittuali maschili e femminili, e oggi importa meno che Otello sia nero di pelle, integrato o no a Venezia, il tema risaltante è l’aspetto umano dei rapporti tra uomo e donna, per cui, restando nel tempo più resistenti le figure di Otello e Iago, bisogna provare a guardare Desdemona in modo diverso.[5]
Otello, regia Mario Martone, © Luciano Romano, Teatro San Carlo di Napoli, 2021Otello, regia Mario Martone, © Luciano Romano, Teatro San Carlo di Napoli, 2021

Tentando di rileggere l’opera contro «l’archetipo della manipolazione», Martone ricombina il rapporto fra etica e consapevolezza e orchestra gli elementi della scena e della performance secondo una visione rinnovata, che punta sul dinamismo degli esecutori e su una specifica densità del femminile.

Già nell’Otello di Falso Movimento facevamo affidamento su una libertà del corpo di Licia Maglietta, sottraendola all’immagine di una vittima sacrificale, perché fosse una donna padrona di sé. Adesso scavo ancora di più quest’aspetto nell’opera, e mutando radicalmente lo scenario, inserendo truppe dell’Occidente che occupano una sorta di Medioriente con armi moderne, tende, e ospedale da campo, creo una parità tra militari e soldatesse. Il fazzoletto rivelatore non è ricamato, ma un fazzoletto da esercito che si porta al collo. Cambia tutto il contesto, e qui, in un paesaggio che fa di Cipro un deserto dei Tartari dove Iago può istigare nella mente di Otello ancora più fantasmi, qui Desdemona porta la divisa, è una combattente di valore, suscita invidia e odio in Iago. Una tesi sposata dagli ottimi protagonisti d’adesso, diretti musicalmente da Michele Mariotti.[6]
Otello, regia Mario Martone, © Luciano Romano, Teatro San Carlo di Napoli, 2021Otello, regia Mario Martone, © Luciano Romano, Teatro San Carlo di Napoli, 2021

Desdemona viene quindi dis-angelicata (anche grazie alla straordinaria forza scenica e vocale di Maria Agresta), mentre il finale romantico è abilmente decostruito: il corpo della protagonista viene portato via dal personale militare dell’accampamento mentre il monologo finale è così cantato da Otello in solitudine totale (la stessa solitudine iper-tragica in cui Martone ha gettato Violetta nel film-opera La traviata),[7] separato dal mondo da un muro di lamiera che è un Leitmotiv dello spettacolo. È il monologo allucinato di un nevrotico, splendidamente impersonato da un Jonas Kaufmann privo dell’enfasi di altre prove (l’edizione diretta da Pappano), e potenziato dalla tagliente sottigliezza della direzione di Michele Mariotti.

Come ha messo in luce Bruno Roberti recensendo lo spettacolo su «Fata Morgana Web»,[8] si tratta di una regia che possiede marcati tratti cinematografici: dalla profondità di campo della tempesta iniziale proiettata in video al tema onnipresente del miraggio. Questo non significa che questa direzione, come quella di altri spettacoli lirici di Martone, non si focalizzi primariamente sul rapporto con i cantanti, e sulla ricerca di un dinamismo scenico in un genere tendenzialmente statico. Sulla base della sua prima fase di regista di mediateatro, legato alla Nuova Spettacolarità postmoderna, ci si sarebbe potuti aspettare regie molto visive, focalizzate sulla scenografia e sull’ambientazione, un po’ come è successo per Ronconi; e in effetti il debutto in questo campo sono state le scenografie per una famosa edizione della Vedova allegra (1985), con la regia di Mauro Bolognini. Dopo alcune esperienze sull’opera del Novecento (notevole la Lulu di Berg al Massimo Palermo nel 2001, che coinvolgeva e moltiplicava tutti gli spazi del teatro), quando ha iniziato a lavorare sistematicamente nel repertorio più canonico ha invece spiazzato le attese: è infatti partito dalla staticità dell’opera, per compensarla e trasformarla attraverso un lavoro intensissimo sui cantanti, che punta al loro dinamismo, a ottenere movimento, scioltezza, fisicità, sensualità, mentre in parallelo l’azione si proietta spesso dalla scena verso la platea, diramandosi anche nei palchi di proscenio. Lo spettacolo lirico non è dunque concepito come un insieme statico e pittorico, ma come un flusso continuo e vitale, che coinvolge lo spettatore fino a creare un senso di fusione comunitaria, come, fra i tantissimi esempi possibili, nella trilogia di Da Ponte-Mozart sempre al San Carlo di Napoli – Così fan tutte (1999, spettacolo scelto poi da Claudio Abbado a Ferrara nel 2000 e ripreso nel 2004), Don Giovanni (2002), Le nozze di Figaro (2006) –, in alcune memorabili regie rossiniane, o nel Ballo in maschera al Covent Garden di Londra (2005), che Martone ambienta in un’America arcaica e barbarica, fra antri, rovine e discariche, utilizzando nel finale un ampio specchio, una sorta di doppio della buca dell’orchestra, che si alza e crea uno schermo a 45° attraverso cui lo spettatore vede tutta la festa tragica. Un magnifico colpo di teatro, un effetto cinematografico, con cui il regista e lo scenografo Sergio Tramonti creano una wellesiana profondità di campo. Tratti simili si ritrovano anche nei due Falstaff (Parigi 2008, Berlino 2018): il primo più onirico e fiabesco, il secondo più amaro e corrosivo, entrambi giocati su piani spaziali molteplici, che visualizzano le metamorfosi e le finzioni del plot di Shakespeare.

Tra i registi che più spingono in direzione di una consapevole intelaiatura visuale, di ispirazione cinematografica, con esplicite figurazioni intermediali c’è Davide Livermore che alla sua quarta inaugurazione scaligera, e nel pieno di una iperproduttività non sempre convincente, realizza uno dei suoi allestimenti più riusciti, grazie a una consonanza fra la visionarietà sublime del Macbeth e la sua poetica tecnologica e distopica. Avvezzo a spiazzare pubblico e critici con dichiarazioni pungenti, anche in questa occasione Livermore rivendica l’azzardo registico del Macbeth esplicitando come fulcro ispiratore delle sue creazioni il modello dell’esperienza videoludica:

Sullo schermo un piano sequenza straordinario ci consentirà di visitare e attraversare un mondo. Ci troveremo in luoghi non canonici per il teatro, viaggiando in auto, attraversando lande desolate, esplorando una città che ha dimensioni nuove e inaspettate; e la scalata al potere, al centro del testo, sarà un'esperienza “fisica”, fino all'implosione. Una vertigine a cui gli appassionati di videogame sono abituati.[9]

Come sempre i video di D-Wok moltiplicano lo spazio, creando effetti onirici che ricordano il film Inception, e imbastendo una complessa dialettica fra gli esterni metropolitani e gli interni modellati sugli anni Venti (come anche i magnifici costumi di Gianluca Falaschi). Il fulcro di questa mobilità incessante e vertiginosa è un ascensore: simbolo polivalente che visualizza l’ascesa al potere della coppia protagonista, ma anche la gabbia oppressiva del destino (a cui si aggrappa disperato Macbeth). La dimensione soprannaturale, che produce in Verdi una sorta di sublime grottesco, è trascritta sugli schermi e nei moduli dell’immaginario contemporaneo: il primo piano del volto di Banquo giganteggia minaccioso nella scena del banchetto, mentre le streghe hanno una femminilità sofisticata e inquietante. Anche in questo caso lo spettacolo si alimenta della sinergia fra parte visiva e parte performativa: Luca Salsi conferma, oltre alle impressionanti doti canore, le sue qualità di attore tragico in grado di scavare a fondo nella drammaturgia della psiche, mentre Anna Netrebko dà vita a una Lady che oscilla fra diva hollywoodiana e signora della criminalità internazionale. Di grande impatto la scena della follia, in cui la protagonista cammina sull’orlo di un muro, sovrastata da un gruppo scultoreo di grande bellezza, esplicitando così il suicidio solo adombrato da Shakespeare: un momento in cui potenza vocale e qualità attoriale sono fuse alla perfezione.

Il Macbeth è una tragedia basata sull’empatia negativa, in cui i personaggi positivi non hanno grande spessore, mentre è assente la dinamica amorosa, in modo anomalo rispetto all’estetica del melodramma. Nell’edizione della Scala la figura del tenore, Macduff, brilla di luce insolita grazie alla bravura eccezionale di Francesco Meli; quanto alla dinamica della coppia, l’eros, già assente nella tragedia di Shakespeare, è sostituito da una sessualità rapida e nevrotica, consumata in ascensore. Questa edizione, come quella sempre diretta da Chailly con la regia di Emma Dante, segue la seconda versione dell’opera, che termina con un coro di liberazione dall’oppressore, ma ingloba anche il primo finale, la morte in scena del protagonista, soluzione più empatica e tragica. La fusione delle due versioni (che connotava già un altro mitico Macbeth scaligero, quello diretto da Abbado) trova una realizzazione efficace ancora una volta grazie all’interazione fra la ‘spettralità’ dei video e la plasticità della performance. In questo complesso quadro di insieme trova senso la scommessa di una regia televisiva votata verso un ulteriore potenziamento dello sguardo e dell’esperienza, secondo una precisa poetica della contaminazione:

Fondamentale è ibridare. Forza del teatro e tecnologia avanzata. L'uso del ledwall, quindi una superficie virtuale, con elementi architettonici reali. Microcamere che si insinuano all'interno della scenografia, nelle sue pieghe, in qualche modo mostrano il rovescio del visibile.[10]

L’ultimo segmento di questa indagine sulle rifrazioni operistiche delle tragedie shakespeariane riguarda l’inaugurazione della stagione del Teatro dell’Opera di Roma, segnata da una scelta sicuramente coraggiosa: proporre un titolo contemporaneo, affidato a un musicista con grande esperienza nel teatro musicale e capace di una forza comunicativa insolita nella musica odierna.

Il Julius Caesar di Giorgio Battistelli, su libretto di Ian Burton, fa parte di una trilogia che ha già visto la creazione di Richard III (2007) e che si concluderà con un testo particolarmente arduo, il Pericles, toccando così le tre fasi della produzione shakespeariana, e alcuni dei suoi vertici nell’analisi spietata dell’insensatezza del potere. Anche in questo caso, come nell’opera precedente, Burton ha sfoltito l’opulenza figurale del testo di Shakespeare, mentre la musica di Battistelli ne ha scandito gli snodi drammaturgici con una serie di figurazioni ritmiche. Il regista Robert Carsen ha scelto un’ambientazione contemporanea di essenzialità geometrica, che allude a un’eternità dei meccanismi del potere, e ha sottolineato il cortocircuito fra antico e moderno proprio della drammaturgia shakespeariana che la sua regia tende a sublimare con accenti assoluti.

Sembra quasi impossibile che l’unica opera integrale su Giulio Cesare sia il capolavoro di Händel scritto quasi trecento anni fa – spiega. Ma questa opera è ambientata in Egitto. Mettere in scena il nuovo lavoro di Giorgio Battistelli e Ian Burton (è la terza volta che lavoriamo tutti insieme dopo Riccardo III e Co2), non è solo un onore, ma anche una sfida particolare, dal momento che l’opera debutta in prima assoluta a Roma, dove l’azione del dramma di Shakespeare si svolge. La comprensione di Shakespeare della politica personale e pubblica – e il percorso e la distruzione che possono creare – è forse ancora più rilevante oggi rispetto a quando l’opera fu scritta più di quattrocento anni fa.[11]

La tragedia storica di Shakespeare più ricca di memorie teatrali e cinematografiche (da Mankiewicz ai Taviani) assume così una nuova configurazione stilizzata e straniata, fortemente focalizzata sull’assassinio di Cesare come atto sostanzialmente vacuo.

 

*Questo articolo nasce nell’ambito del progetto di ricerca A.R.I.E. – Audience, Remediation, Iconography, Environment in Contemporary Opera (redatto all’interno del “PIAno di InCEntivi per la RIcerca di Ateneo - PIA.CE.RI. 2020/2022” linea 2) coordinato dalla Professoressa Stefania Rimini (Università degli Studi di Catania).

 

Per le fotografie dello spettacolo "Otello" si ringrazia la Fondazione Teatro di San Carlo e Dinko Fabris, Direttore scintifico del Dipartimento di Ricerca, Editoria e Comunicazione MeMus. 


1 F. Vittorini, Shakespeare e il melodramma romantico, Firenze, La nuova Italia, 2000.

2 R. Di Gianmarco, ‘Mario Martone: “Torno a Otello ma Desdemona non è più una vittima”’, la Repubblica, 20 novembre 2021.

3 Cfr. A. Serpieri, L’eros negato [1978], Napoli, Liguori, 2003.

4 Lo spettacolo viene ripreso poi nella stagione 2016-2017, confermandosi come operazione autentica e di lunga durata.

5 Ibidem.

6 Ibidem.

7 Su questi spettacoli si rimanda al contributo di Laura Pernice contenuto all’interno del focus: < http://www.arabeschi.it/reinventare-lo-spazio-performativo-in-tempo-di-pandemia-le-operazioni-opere-mario-martone/ >.

8 Cfr. B. Roberti, ‘Il miraggio, il deserto, la guerra’, Fata Morgana Web, 22 novembre 2021, < https://www.fatamorganaweb.it/otello-giuseppe-verdi-regia-mario-martone/ > [accessed 10 january 2022].

9 P. Di Paolo, ‘Davide Livermore: “Porto Macbeth in un videogame”’, la Repubblica, 26 novembre 2021.

10 Ibidem.

11 R. Carsen, Note di regia, Teatro dell’Opera di Roma, < https://www.operaroma.it/news/il-20-novembre-la-prima-assoluta-di-julius-caesar-di-giorgio-battistelli-apre-la-nuova-stagione/ > [accessed 10 january 2022].