Il ricordo più lontano nel tempo che conservo di Mario Martone risale alla seconda metà degli anni Settanta del Novecento: un ragazzetto napoletano con la testa gremita di ricci neri che, nell’antro buio e materno del Beat 72 (una delle più ospitali ‘cantine’ teatrali romane), giocava a scacchi con una ragazza nuda, in una performance che evidentemente intendeva richiamare quella celebre di Marcel Duchamp. Ebbi la percezione netta di un tipo che sapeva il fatto suo. Uno degli aspetti che maggiormente colpiva in lui era l’affabilità e la schiettezza con cui sapeva cogliere i pregi dei suoi colleghi, cosa non scontata né frequente tra colleghi teatranti, specie se giovani. Col tempo questa sarebbe diventata una sua grande qualità artistico-organizzativa: la generosità nel non chiudersi mai in un suo proprio giardino ma nel coinvolgere, contagiare e farsi contagiare, aggregare tensioni artistiche che sentiva affini.
Il suo primo capolavoro fu la composizione stessa della sua prima compagnia (allora si diceva ‘gruppo’), «Falso Movimento»: ogni componente era portatore di specifiche qualità: propriamente attoriali nel caso di Licia Maglietta e Andrea Renzi; in grado di accordare l’imprenditorialità artistica con la formazione in una delle gallerie più note al mondo (quella di Lucio Amelio) con Thomas Arana; già collegate a un interesse per lo sguardo ‘fotografico’, per la prospettiva pittorico/scenografica, per la dimensione sonora e musicale rispettivamente con Lino Fiorito, Pasquale Mari, Daghi Rondanini; e infine marcate dallo sguardo progettuale nel caso di Angelo Curti.
Su questa linea di geniale inventore di accorpamenti inediti e imprevisti, Martone riunisce nel 1987 il meglio del teatro sperimentale campano sotto la sigla di «Teatri Uniti», creando una sinergia proficuamente relazionale tra «Falso Movimento», il «Teatro Studio di Caserta» di Toni Servillo e il «Teatro dei Mutamenti» di Antonio Neiwiller. Un vero e proprio laboratorio lanciato a intersecare il teatro con la musica, la drammaturgia con le arti visive, il cinema con lo studio e il recupero dei classici.
Senza dimenticare la riuscita di alcuni spettacoli diventati ‘storici’, come Tango glaciale per la fase di «Falso Movimento», o Rasoi per quella di Teatri Uniti, Mario Martone è da ricordare anche per la gestione di grande creatività del Teatro di Roma, con l’apertura di uno spazio straordinario come il Teatro India. A differenza di molti registi che, una volta divenuti direttori di Teatri Stabili, rastrellano tutte le risorse per i propri spettacoli, Martone a Roma, e poi a Torino, ha utilizzato e utilizza l’agorà costituita da uno Stabile per offrire opportunità e spazi a registi, attori e compagnie selezionati secondo una prospettiva e una progettualità culturali ben precise.
Frattanto, dopo anni di un teatro in cui il linguaggio cinematografico interagiva con quello scenico, Martone era approdato al cinema. Anche qui, al di là dei singoli risultati, colpisce la novità di un regista che, ricollegandosi alla grande tradizione del cinema italiano degli anni Sessanta, attinge i suoi attori principalmente dal teatro, così come avviene in Francia, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti.
Sono legione gli attori teatrali cui Martone ha dato spazio nel suo cinema: Marco Baliani, Toni Bertorelli, Valerio Binasco, Anna Bonaiuto, Gianni Caiafa, Renato Carpentieri, Carlo Cecchi, Roberto De Francesco, Raffaella Giordano, Angela Luce, Iaia Forte, Paolo Graziosi, Peppe Lanzetta, Marco Manchisi, Licia Maglietta, Enzo Moscato, Antonio Neiwiller, Massimo Popolizio, Andrea Renzi, Alfonso Santagata, Toni Servillo…
In tal modo, il cinema di Martone diventa ‘anche’ il luogo in cui i risultati di una intera generazione di sperimentatori teatrali trova spazio per affermarsi.
La sceneggiatura del Giovane favoloso è firmata, insieme a Martone, da Ippolita Di Majo. Il suo nome evoca, nella mia geografia emotiva, il triangolo Milano-Firenze-Napoli. Se Mario, napoletano, l’ho incontrato a Roma, Ippolita, non meno napoletana di lui, la conobbi a Milano. Viveva, credo – o forse era soltanto in visita quel pomeriggio piovosissimo? – nell’appartamento labirintico e suggestivamente inquietante dei fratelli Agosti (in ordine alfabetico Barbara, Giacomo, Giovanni – tutti storici dell’arte di primissimo ordine), viale Bianca Maria angolo Corso Monforte, quasi di fronte a Piazzale Tricolore e prossimo a viale Majno, con tutte quelle palazzine fine Ottocento-primo Novecento, fatte edificare da quella borghesia lombarda che commissionava insieme all’architetto la palazzina in città, la villa in Brianza e la cappella di famiglia al Cimitero Monumentale, progettato da Carlo Maciachini, cui si devono anche le belle facciate di San Marco e di Santa Maria del Carmine, a Milano, zona Brera e Piccolo Teatro. Probabilmente suggestionati dal compito funerario, gli architetti sopra ricordati, che parrebbero usciti dalla fantasia rabelaisiana del Carlo Emilio Gadda, si lasciavano andare a conferire un che di severamente mortuario anche alle palazzine dei viali Majno, Premuda e Bianca Maria. Nel grigiore dell’autunno padano, brumoso, piovoso, inquinato, e nella semioscurità dell’ingresso monumentale in stile sardo – ma più spesso, per problemi di chiavi –, si entrava dall’ingresso di servizio che, causa lavori intervenuti decenni prima, era una stanza da bagno, decorata da riprodotti affreschi etruschi, anch’essi funerari, in quel pulviscolo dorato di una casa-museo-biblioteca, in fondo al lungo corridoio rosso-lacca in stile cinese, la chioma bionda della bellissima Ippolita esplodeva con la dolce violenza di una fiamma scoppiettante. Come quando, sul finire del primo volume della Recherche, a colui che dice «io» appare la bella Gilberte Swann, proiettando sull’erba spelacchiata degli Champs-Élysées che in inverno si mostrano come un prato inaridito, «una piccola striscia meravigliosa, color dell’eliotropio, impalpabile come un riflesso e sovrapposta come un tappeto».
Storica dell’arte anche Ippolita, come me in origine e come i fratelli Agosti da cui la incontrai, ho avuto occasione di frequentarla anche a Firenze, la mia città, quando, tra 2006 e 2008 lavorava al Center for Italian Renaissance Studies ubicato nella bellezza della campagna settignanese a Villa I Tatti, che mi era stata molto utile negli anni Settanta quando vi trovavo materiale per la mia tesi di laurea su Jean Fouquet.
Partecipare, dunque, alle riprese del film scritto da Ippolita e Mario e diretto da quest’ultimo, mi ha fatto l’effetto di un piccolo ricongiungersi delle mie due vie in apparenza contrarie (la Storia dell’Arte e il Teatro), in realtà per una volta convergenti nel Cinema, così come l’amato personaggio che dice «io» nella Recherche, alla fine della sua lunga «quête» del tempo perduto, scopre che il côté de chez Swann non è, come per anni aveva creduto, inconciliabile con il côté de Guermantes. Sono i piccoli miracoli della quotidiana vita nella dimensione del ‘lavoro’. Lavoro che, nel caso del Teatro e del Cinema, presuppone la coralità di molti apporti che vanno a confluire nel fiume portante di un progetto individuale, in questo caso quello di Mario e Ippolita.
Il mio ruolo ha coinciso con la prima fase delle riprese, quelle che si sono svolte a Recanati, tra le pietre, le vie, le piazze, la campagna, la casa, la biblioteca che videro e testimoniarono la comparsa nel mondo e i primi passi di un genio tra i più grandi e singolari della cultura occidentale. L’impegno delle riprese non impediva al cuore e all’immaginazione di lasciarsi andare agli intrecci della memoria (anche scolastica, perché no? – come dimenticare la classe di terza media in Casentino dove un’insegnante premurosa mi spiegava Il sabato del villaggio?). Ma soprattutto era bello vedere e constatare come le qualità sopra ricordate di Mario e di Ippolita si incarnassero nella pacata fermezza, non priva di dolcezza, con cui l’uno costruiva il suo film e nella instancabile presenza con cui l’altra gli era accanto per ogni bisogno, consiglio, chiarimento: ennesima conferma della necessità dell’amore in ogni impresa creativa.
Per le foto: © Mario Spada