1. La metafora animale
Tutto il cinema di Ferreri può essere letto come una sorta di grande bestiario grottesco sulle disavventure del corpo nello scenario della contemporaneità; i suoi film sembrano illustrazioni quasi ‘fumettistiche’ (per la loro paradossalità e paradigmaticità) delle teorie sul potere biopolitico che Foucault elabora soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni settanta. I dispositivi economico-sociali-tecnologici-culturali vengono indicati come strumenti alla base dell’assoggettamento, della subordinazione e della disciplina dei corpi, senza distinzioni di genere. Per Ferreri le dinamiche della storia comportano l’allontanamento dell’essere umano dalla propria costituzione animale, la costrizione e la perdita progressiva della dimensione corporea, identificata come l’unico luogo autentico di una conoscenza strettamente connessa all’esperienza e al suo tessuto multiforme di materie, bisogni, desideri, sogni.
Nel configurare le devastazioni operate dalla storia sul corpo, l’autore rappresenta il soggetto maschile come un’entità instabile e disperata. Se, da una parte, l’uomo continua a forgiare il corpo della donna in quanto superficie di segni perfettamente rispondente all’esigenza di un controllo e di una dominazione – facendone di volta in volta una macchina feticistica, un manichino (Marcia nuziale, 1966), una cosa inerte (Dillinger è morto, 1969), un simulacro sostitutivo (I Love You, 1986), una carne di consumo (La carne, 1991) – dall’altra è anch’egli vittima del sistema che autorizza il suo ruolo di carnefice; è, in definitiva, un soggetto sopraffattore e allo stesso tempo sopraffatto dagli stessi dispositivi di relazioni e di dominio che tenta di amministrare.
Specialmente dalla fine degli anni sessanta in poi, i personaggi maschili di Ferreri si configurano come antieroi nichilisti che esprimono la propria forma di ribellione all’ordine del potere e del sapere attraverso l’autodistruzione, il suicidio, la ricerca della morte. All’interno del loro scontro con le forme del vivere sociale il confronto con l’altro sesso acquisisce un rilievo prioritario, come testimoniano alcuni titoli emblematici – direi persino didascalici – quali L’ultima donna (1976), Ciao maschio (1978) e Il futuro è donna (1984). La contestazione del modello di società capitalistica occidentale condotta da Ferreri include in primo luogo la crisi del rapporto consolidato tra i sessi e i generi.
Fin dai suoi primi film egli attribuisce alla donna una maggiore vicinanza alla vita animale, a quella parte dell’esistenza corporea che viene definita zoé in contrapposizione a bios (la vita organizzata, sociale, politica), riprendendo le terminologie aristoteliche (Agamben 1995). I suoi personaggi femminili sono spesso identificati da metafore animali che si insinuano fin nei titoli – L’ape regina (1963), La donna scimmia (1964), La cagna (1972) – e che possiedono una grottesca evidenza letterale. La ‘donna scimmia’ [fig. 1], per esempio, è un corpo animalescamente mostruoso, ricoperto di peli, affratellato ai gorilla che vengono imprigionati nello zoo ed esposto nella ‘gabbia’ del palcoscenico. Essa appare in tutto e per tutto la rappresentante di quella «nuda vita» di cui parla Agamben: è un corpo escluso e in questo senso «sacro». Cessando di essere semplice zoé, pura vita naturale, entra nel mondo della vita sociale (bios) solo attraverso la privazione, l’assoggettamento, la spettacolarizzazione della diversità.
La vicinanza alla vita pre-umana, a quell’«animale che dunque sono», come direbbe Derrida (2006), conduce Ferreri a porre una particolare attenzione sulla potenza generativa della donna. Il ventre, i seni, il corpo gestante popolano le immagini dall’inizio alla fine del suo percorso artistico. La ‘donna-ape regina’ (nel film omonimo) è rappresentata come il grande ventre imponderabile della natura: una sorta di vestale del mistero della nascita. La paura del corpo femminile, ricorrente nei personaggi maschili ferreriani, si esprime attraverso questa inquietante sacralizzazione della funzione generatrice [figg. 2-3], che richiede il sacrifico del maschio-fuco, il quale soccombe dinanzi alla necessità di conservazione della specie e dinanzi al potere dell’istituzione ecclesiastica che amministra i rituali generativi, ossia davanti a un doppio potere, animale e umano. All’iconografia della donna incinta si accompagna quella dell’allattamento e l’una e l’altra fanno spesso riferimento in maniera parodica alle raffigurazioni religiose della cristianità. Il maschio ha una costante tensione regressiva: tende a posare la testa sulla pancia e sul petto della donna, ad adorare il suo ventre come una sorta di terreno edenico, di paradiso perduto.
Spesso nei primi film di Ferreri la vita si fa largo annientando altre vite: se in L’ape regina il padre muore mentre il figlio nasce, in La donna scimmia il parto uccide la madre, sublimando tragicamente il suo corpo animalesco e portando sempre più alla luce la sua connaturata spiritualità.
L’associazione tra il ventre gravido e il senso del deforme, del mostruoso – anche nella sua accezione di meraviglioso –, tra femminilità e mostruosità, che è ricorrente nell’immaginario maschile (Braidotti 1994), viene, questa volta, totalmente riscritta in una chiave addirittura palingenetica. In La donna scimmia, infatti, la maternità ripulisce il corpo dal pelo e rivela la femminilità che è rinchiusa nelle sembianze del mostro. Al posto della dissociazione tra la madre, come figura del regno animale, e la donna, come emblema di quello umano, abbiamo una loro armonica convergenza, che avviene, però, sotto il sigillo della morte.
Alla fine degli anni sessanta la violenta contestazione della norma sociale e sessuale conduce Ferreri ad azzerare anche la funzione procreatrice in quanto forma obbligata di riconoscimento e individuazione del ruolo femminile, associato a una retorica coercitiva dell’amore e della maternità. Mentre la protagonista di L’harem (1967) viene punita per aver cercato di andare al di là del modello imposto, quella di Il seme dell’uomo (1969) esprime il proprio conflitto con l’ordine sociale maschile attraverso il rifiuto della procreazione, nella cornice di un’ambientazione post-atomica. Con il solito furore nichilista, in La cagna viene apertamente irriso anche il mito della fuga dalla civiltà e del ritorno alla natura. Da qui in avanti Ferreri rappresenta, in forme sempre più funebri ed estreme, la profonda dissonanza che si instaura tra il corpo e la storia. La sua ontologia della fisicità come unica sede del senso – lieto e tragico – della vita lo conduce ad accanirsi in maniera autodistruttiva contro il corpo maschile, che solo scoppiando, amputandosi e suicidandosi esprime il proprio disagio e la propria ribellione contro le forme di civiltà. Come scrive Foucault (1976), la morte è «il limite del potere», il «punto più segreto dell’esistenza, il più privato» e il suicidio fa apparire, «alle frontiere e negli interstizi del potere che si esercita sulla vita, il diritto individuale e privato di morire».
All’autoflagellazione della carne maschile, che raggiunge il culmine in La grande abbuffata (1973), è estranea la donna, salvo nel caso del personaggio della prostituta Cass (interpretato da Ornella Muti) che in Storie di ordinaria follia (1981) si cuce la vagina, con un gesto del tutto omologo e simmetrico a quello dell’evirazione di Gérard Depardieu alla fine di L’ultima donna.
In questi scenari grottescamente apocalittici e radicali esplodono tutte le vecchie coordinate identitarie dei soggetti maschili e femminili: al rifiuto della maternità corrisponde quello della paternità. Già in L’ultima donna l’usura e la crisi irreversibile dei modelli tradizionali fanno saltare in aria l’istituzione della coppia, fondata sulla funzione procreatrice, producendo nuove configurazioni parodiche della ‘sacra famiglia’, composta di madri putative o, come avviene in Ciao maschio, di padri sospesi in un vuoto mortale, incapaci di reagire alla caduta della loro vecchia funzione patriarcale. In un momento di confronto, anche polemico, con i movimenti femministi degli anni settanta, Ferreri rappresenta la crisi in forma di carnevalesca bagarre: in Ciao maschio, per esempio, il corpo incinto diventa una specie di violenta mascherata, una sorta di protesi posticcia che anche l’uomo tenterà di annettersi, nel suo totale disorientamento [fig. 4].
2. Corpo-utopia
Alla fine degli anni settanta Ferreri parla apertamente di ‘società di transizione’, in cui decade quello che egli definisce l’«uomo storico» e si fa avanti, in maniera ancora balbettante e nevrotica, la ricerca dell’«uomo fisiologico», che trova i propri modelli nell’infanzia pre-scolare, cioè in una fase anteriore al disciplinamento dei corpi, e nella donna, che per essere stata esclusa dal potere ‘fallologocentrico’, ha mantenuto una vicinanza ai ritmi e alla libertà della vita corporea. Mentre i protagonisti maschili dei suoi film si spingono fino a rifiutare il logos, su cui è disciplinato l’ordine sociale, la donna fornisce a Ferreri l’utopia di un corpo fluido, aperto e non strutturato, dove non c’è dualismo e separazione tra pensiero e carne, tra spirito e fisicità, tra mente e soma, dove il rapporto con il mondo si configura in forma sensitiva e tattile. Attraverso l’animalità, che appartiene al corpo femminile e infantile, Ferreri riporta in luce i segni rimossi di uno stato pre-storico e contro-storico che in Ciao maschio è grottescamente rappresentato dalla scimmia Cornelius, caricata di una vera e propria simbologia cristologica e chiamata a figurare una sorta di infanzia dell’umanità.
Negli anni ottanta, abbandonando la furia nichilista delle opere precedenti, Storia di Piera (1983) e Il futuro è donna mettono in scena il corpo nomade ed espanso della donna, come una sorta di onda sensoriale e affettiva che fa cadere ogni vincolo e ogni limitazione. In queste due opere, scritte insieme a Piera Degli Esposti e Dacia Maraini, viene persino superata la divisione tra i generi attraverso il recupero di una leggendaria comunione originaria, la stessa descritta dal personaggio di Aristofane in Il banchetto di Platone (1988-1992), un adattamento del Simposio realizzato da Ferreri per la televisione francese. Non si tratta più di una donna che subisce o vuole rovesciare i rapporti di potere, ma di una donna che è capace di indicare una possibile via di uscita alla crisi irreversibile del modello di civiltà occidentale. Il maschio abbandona la scena costrittiva della storia per lasciare al corpo femminile quella del mito e dell’utopia: un luogo tutto terreno e sensibile, solare e allo stesso tempo inevitabilmente intessuto di tragicità. Si percepisce una sensualità diffusa, una circolazione amorosa dei sensi che va oltre i confini parentali e di genere. Incesto, lesbismo, superamento della monogamia non vengono descritti come tabù da infrangere ma come dinamiche dell’esistenza corporea, in una prospettiva di totale immanenza [fig. 5]. Contro il logos, si insegue una sorta di oralità, fluida e ludica.
Possiamo associare a queste rappresentazioni l’idea del nomadismo del soggetto di Deleuze ripreso da Rosi Braidotti e anche quella della polisessualità, concepita in una direzione vitalistica. Nelle riflessioni sul ‘divenire-donna’, sul ‘divenire-bambino’, sul ‘divenire-animale’ di Deleuze e Guattari (1980) il corpo sfugge alle regole binarie e ai confini, si apre alle relazioni, alle molteplicità e ai flussi. In Storia di Piera e Il futuro è donna Ferreri ci racconta la tensione verso questo corpo privo di steccati e di marchi, in un orizzonte ormai post-umanista che egli definisce provocatoriamente come un nuovo medioevo barbarico. Le sue protagoniste, Hanna Schygulla e Ornella Muti, sono, secondo le sue stesse parole, donne guerriere, sacerdotesse barbariche che si muovono in una sfera pre-sociale dell’esistenza, in uno spazio sospeso, capace di connettere insieme luoghi molteplici, e in una temporalità rarefatta, basata su sovrapposizioni e intrecci più che su sviluppi lineari. In Storia di Piera Hanna Schygulla ruggisce come una leonessa che la società intende riportare all’ordine attraverso l’elettroshok; in Il futuro è donna Ornella Muti è assimilata a una gatta selvatica in cerca di un posto dove depositare la prole. Qui Ferreri mette in scena anche una divaricazione tra gestazione e maternità. Mentre la prima appartiene alla sfera della natura, la seconda rientra nell’ordine della società. Se la gravidanza è un dato biologico, l’istinto materno rappresenta una costruzione culturale.
Storia di Piera comincia con un parto dolce, senza traumi, in cui la figlia esce dal ventre della madre come un rivolo di miele (secondo le parole della levatrice) e Il futuro è donna finisce con un’altra gestazione nella cornice di una spiaggia dove Ferreri attua la solita grottesca contaminazione di elementi antichi e moderni, naturali e storici, fisici e mitici, laici e religiosi. Ornella Muti offre il suo ventre gravido, vero e non verosimile, agli elementi naturali (la terra, il cielo, il mare, l’aria) partorendo con un abito azzurro da Madonna, come in un rituale sacro, suggerito anche dalla presenza di un tempio greco in rovina. Il ‘medioevo barbarico’ evocato da Ferreri intreccia le figurazioni del mito antico con gli immaginari postmoderni: nelle sequenze iniziali del film Ornella Muti viene dipinta come una novella ‘Madonna del Parto’ fra le luci di una discoteca. In Storia di Piera le mestruazioni della figlia chiamano in scena tabernacoli e fauni.
In entrambi i film la visione del mare, che da Ciao maschio in poi sigla i finali di molti film ferreriani, rimanda a una liquidità che non è soltanto quella uterina, legata a una filosofia del ritorno nel ventre della madre-natura, ma anche quella di un corpo nuovo, che cerca di fuoriuscire dalle architetture-prigioni della storia per trovare vie differenti di esistenza. Lo scenario marino non può essere assimilato a un’Arcadia, se non attraverso il rovesciamento grottesco, in quanto Ferreri è perfettamente consapevole che ogni idea di naturalità pura e originaria è sempre un’illusione-costruzione della storia e della cultura. Si tratta, piuttosto, di un mondo creato dal processo del desiderio, che non sfugge alla tragicità della condizione umana, dove i misteri della vita si congiungono strettamente a quelli della morte e l’espansione libera del corpo non si sottrae alla sua costitutiva finitezza.
In questi spazi sospesi gli animali fanno spesso da «intermediari fra l’uomo e le sue origini», secondo un’antica tradizione (Berger 1980). Quando entra in scena la morte Ferreri introduce lo sguardo e la presenza dell’animale sia per accompagnare con urla bestiali il rifiuto della vita di alcuni dei suoi personaggi maschili sia per mostrare che lo spazio lasciato vuoto dall’uomo viene rioccupato ogni volta dall’animale. Lo sguardo della bestia – il cane di Break-up (1963-1968) o la rana di Chiedo asilo (1979) – diventa un palese ‘intercessore’ dell’occhio ferreriano e della sua concezione della vita. E anche il mutismo o la voce priva di logos dell’animale si lega grottescamente a questa costante interrogazione della condizione umana.
Le donne-animali di Storia di Piera e Il futuro è donna sono viaggiatrici, vagano nel regno dell’Immaginario – in senso lacaniano – e non varcano i confini del Simbolico, dove si radica l’ordine maschile e il suo modello di civiltà. Così i ritmi del loro corpo vengono a coincidere con quelli del gioco, del sogno, dell’immaginazione. Ferreri affida alla donna la forza e la capacità di una ricreazione fantastica del mondo. Il corpo femminile diventa in questi film un vero e proprio luogo di utopia, come quello evocato da Foucault in un testo straordinario del 1966. Il filosofo mette «al centro del mondo questo piccolo nucleo utopico a partire dal quale sogno, parlo, procedo, immagino, percepisco le cose al loro posto e anche le nego attraverso il potere infinito delle utopie che immagino». Il corpo è «insieme opaco e trasparente, visibile e invisibile, vita e cosa», sempre qui e sempre altrove, carico di una continua «rabbia utopica». Ed è proprio su questa energia fantastica del corpo, mai totalmente domata, che si indirizzano i continui viaggi di Ferreri attraverso i regni delle donne-animali, alla ricerca di una forza di resistenza contro i dispositivi sociali e, contemporaneamente, di una prospettiva di espansione vitale.
Bibliografia
G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1995.
J. Berger, Sul guardare [1980], a cura di Maria Nadotti, Milano, Bruno Mondadori, 2003, p. 5.
R. Braidotti, Madri, mostri e macchine [1994], a cura di Anna Maria Crispino, Roma, Manifesto Libri, 1996.
G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani [1980], Roma, Cooper-Castelvecchi, 2003 (cfr. in particolare pp. 382-390).
J. Derrida, L’animale che dunque sono, Milano, Jaka Book, 2006.
M. Foucault, La volontà di sapere [1976], Milano, Feltrinelli, 1978, p. 122.
M. Foucault, Utopie Eteroropie [2004], Napoli, Cronopio, 2006, pp. 31-45.