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«Non un televisore qualunque… ma un apparecchio collaudato da una lunga esperienza nella fabbricazione […] che possa essere adoperato dalle signore di casa come un comune ferro da stiro». Così recita una pubblicità dell’apparecchio Raymond TV apparsa sulle pagine di «Radiocorriere» nel 1954. Sarà necessario attendere alcuni anni prima che il televisore irrompa – più o meno democraticamente – nelle case degli italiani, eppure si intravvedono fin da subito, in nuce, le imminenti ridefinizioni che investiranno lo spazio domestico e il ruolo della figura femminile all’interno di quest’ultimo. Il contributo intende soffermarsi sui discorsi sociali che riguardano il rapporto tra le donne e l’ingresso dell’apparecchio televisivo all’interno del focolare domestico. Si seguiranno in particolare due direttrici: la sistemazione del televisore all’interno della casa e la creazione di un ‘galateo televisivo’ per la ‘buona padrona di casa’. Questi nodi verranno affrontati attraverso lo studio dell’Enciclopedia della donna.

Per l’affamato non esiste il problema del mangiare correttamente. L’etichetta del comportamento corretto a tavola ha senso solo per chi mangia sempre e non ha problemi in merito, tanto da permettersi il lusso di crearsene altri.

Franca Ongaro e Franco Basaglia, 1971, p. XI

1. Introduzione

«Non un televisore qualunque… ma un apparecchio collaudato da una lunga esperienza nella fabbricazione […] che possa essere adoperato dalle signore di casa come un comune ferro da stiro». Così recita una pubblicità [fig. 1] dell’apparecchio Raymond TV apparsa sulle pagine del «Radiocorriere» il 26 dicembre del 1954, a poco meno di un anno dall’ufficiale lancio delle trasmissioni televisive in Italia. Sarà necessario attendere alcuni anni prima che il televisore irrompa – più o meno democraticamente – nella maggior parte delle case degli italiani, eppure, sul finire di quell’anno cardine, si intravvedono già in nuce le ridefinizioni che investiranno lo spazio domestico e che interesseranno in particolare le donne, o meglio, le ‘signore di casa’.

Analizzare i grandi mutamenti legati all’ingresso del televisore nelle case italiane nei primissimi anni di vita del mezzo significa prendere in esame ‘alcune’ case, quelle della media e alta borghesia; allo stesso modo, interrogarsi sui cambiamenti che il nuovo ‘elettrodomestico’ ha portato nel campo delle relazioni sociali e, in particolare, nelle esistenze delle donne dell’epoca, significa necessariamente esplorare le vite di ‘alcune’ donne. Donne avvezze a gestire ogni ambiente della propria casa, ad amministrare con cura ogni aspetto della vita quotidiana e a risolvere tempestivamente ogni imprevisto o contrattempo, donne educate a dirigere il lavoro di uno o più domestici, specialmente in occasione di cene, party, incontri pomeridiani con le amiche, partite a canasta o a bridge.

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Quando una regina del grande schermo (una diva) è chiamata a interpretare un’altra regina (realmente esistita sul palcoscenico della storia), si crea un amalgama fotogenico di corpi e fantasmi che rende la personaggia di fatto illeggibile. Prendendo in esame alcuni casi particolarmente significativi, sia riferibili al cinema classico sia alla contemporaneità, si vuole riflettere sul modo in cui l’ingombro di questi corpi regali si inscrive nella planimetria degli spazi che gli sono propri, individuando le possibili stanze della libertà – una libertà che, in fondo, si esprime anche nel nascondimento, nella fierezza estrema della posa, essendo ogni regina il radioso simulacro di un’attrice, come suggerisce Shakespeare nel finale de Il racconto d’inverno.

When a screen queen (a diva) plays another queen (really existed on the stage of history), a photogenic amalgam of bodies and ghosts takes place and the character results unreadable. Considering some of the most significant examples, both from classical cinema and from contemporaneity, we would like to reflect on the way the volume of these royal bodies is inscribed in the planimetry of its own spaces, by locating the possible rooms of freedom – a freedom which can express itself also in concealment, in the extreme pride of the pose, since every queen is the bright simulacrum of an actress, as Shakespeare suggest in the final scene of The Winter’s Tale.    

Elisabetta non divenne mai reale nel senso in cui era stata reale la regina Vittoria, eppure non divenne mai creatura di invenzione nel senso in cui lo sono Cleopatra e Falstaff. La ragione sembrerebbe il fatto che si sapeva poco […] la sua invenzione era sotto controllo. Così la regina si muoveva in un mondo ambiguo, fra fatto e finzione, né corporea né incorporea. C’è un senso di vuoto e di sforzo, di tragedia senza crisi, di personaggi che si incontrano ma non cozzano.

Virginia Woolf

Fuori continua a nevicare. Non c’è pace per la regina Cristina. Non è sola nella stanza della locanda, ma un velo di inquietudine le impedisce di godere a pieno del tepore del fuoco e delle attenzioni del suo amante, totalmente ignaro di trovarsi al cospetto della potente sovrana di Svezia. Così abbandona il giaciglio, si alza in piedi e inizia a muoversi nell’ambiente, sfiorando le superfici dei mobili e delle pareti, accarezzando gli oggetti. Quando l’uomo le chiede spiegazioni, la sua risposta evoca lo spettro di un’esistenza stritolata in una morsa di doveri e convenzioni: «Sto memorizzando questa stanza. In futuro, nella mia memoria, trascorrerò tante ore in questa stanza… Ho immaginato la felicità, ma è qualcosa che non si può immaginare. La felicità bisogna provarla, è una gioia infinita. Oh, sapessi quanto mi sento felice adesso!… Questo deve avere provato il signore quando ha finito di creare il mondo e tutte le sue creature, a cui aveva dato vita…».

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A partire dall’esordio cinematografico in Panic Room (Fincher, 2002), l’attrice losangelina Kristen Stewart (1990) è spesso stata chiamata a ricoprire ruoli la cui complessità emerge in maniera definita soprattutto nella relazione con lo spazio domestico – per lo più ostile o difficilmente pacificato – in cui si muovono. Enucleando alcune performance indicative (quelle dirette dal regista francese Olivier Assayas e quella nei panni della principessa Diana in Spencer di Larraín del 2021), il presente contributo vuole mettere in evidenza come il corpo di Stewart, nell’eterogeneità dei generi cinematografici e dei contesti produttivi, si riveli uno ‘strumento’ capace di restituire – tramite posture e gesti ricorsivi – le tensioni e i desideri che animano le sue protagoniste nel rapporto con l’ambiente domestico circostante.

Il 2 marzo 2022, l’attrice losangelina Kristen Stewart – classe 1990, quarantacinque pellicole all’attivo – viene premiata dalla Hollywood Critics Association nella categoria Best Actress per l’interpretazione da protagonista nel dramma biografico Spencer (Pablo Larraín, 2021). Scott Menzel ed Erik Anderson, tolti i sigilli dalla busta contenente il verdetto, annunciano all’unisono la vincitrice: «Kristen – fucking – Stewart». L’utilizzo dell’intercalare, che è certo comune nello slang informale, non è in questo caso praticato senza ragione: esso è speso come una sorta di ‘omaggio’ allo stile verbale di Stewart, attrice incline a pronunciare parolacce dentro e fuori lo schermo, star che sfugge all’immagine potenzialmente chic consegnata dai propri outfit Chanel – di cui è da anni brand ambassador – togliendosi gli scomodi tacchi per affrontare l’escalier di Cannes e sfidando l’assunto educativo secondo il quale le parolacce non stanno bene in bocca ai ragazzi, men che meno alle ragazze.

In effetti, tale atto verbale ha costituito il gesto inaugurale della performance con la quale Stewart ha firmato definitivamente il proprio ingresso nell’industria cinematografica hollywoodiana. L’attrice ha undici anni quando viene selezionata da David Fincher per interpretare la figlia preadolescente di Jodie Foster in Panic Room (2002), thriller nel quale la famiglia monoparentale formata da Sarah (Stewart) e Meg (Foster) è presa in ostaggio da tre scassinatori nella townhouse newyorkese dove madre e figlia si sono appena trasferite. Ancora segnata dal recente divorzio, Meg scopre nella figlia Sarah la voce di una coscienza che le suggerisce un taglio netto con la vita precedente, una soluzione definitiva nello stabilire il nuovo peso dei rapporti con l’ex marito fedifrago: «Fuck him. Fuck her, too». L’autosegregazione all’interno della panic room – la ‘stanza antipanico’ costruita dal precedente proprietario della townhouse come bunker di difesa – suggerisce didascalicamente la complicata transizione sociale; l’indipendenza – innanzitutto domestica – in fase di acquisizione è subito messa in crisi dall’introduzione violenta dei tre malviventi, che costringe le due donne ad auto-relegarsi in una strana declinazione della stanza ‘tutta per loro’, un luogo certo esclusivo ma altresì angusto, tecnologicamente complesso e inospitale. È però proprio all’interno di queste quattro anguste mura che si registra uno scivolamento dal genere del woman-in-peril movie a quello dell’action movie nel quale spicca la figura della final girl (cfr. Williams, 2002): la panic room si configura ben presto come la fucina di una rivolta che passa dalle intimidazioni suggerite da Sarah e urlate senza convinzione all’interfono da Meg («Get the fuck out of my house!») a un vero e proprio piano strategico, messo a punto tramite un sapiente utilizzo delle tecnologie della stanza [fig. 1] e il coinvolgimento fisico in azioni violente.

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Dorothy è nera, povera e incinta. In seguito all’ingiusta carcerazione del marito, cresce da sola la prima figlia. A Watts (Los Angeles) lo spazio domestico non basta a proteggerla dal giogo del sistema (intrusione di assistenti sociali, brutalità osservata dalla finestra), né dalla violenza della polizia. Il mondo irrompe in casa anche attraverso le lettere del marito e poster (raffiguranti ad esempio la partecipazione delle donne/madri nelle lotte di liberazione). Proprio a casa, inizialmente simbolo del suo confinamento mentale e psicologico, luogo dove interno ed esterno, personale e politico si intersecano, prende forma la sua rivoluzione, da vittima passiva a donna resistente, capace di agentività. Bush Mama (Haile Gerima, 1975) è impregnato della ricerca estetica emblema della Scuola dei Cineasti Neri di Los Angeles, giustapponendo elementi sonori e visuali, ricuce una narrazione frastagliata, in cui la libertà dei codici narrativi e stilistici accompagna la liberazione della protagonista.

Dorothy is black, poor and pregnant. Following her husband's unjust imprisonment, she raises her first daughter alone. In Watts (Los Angeles), domestic space is not enough to protect her from the yoke of the system (intrusion of social workers, brutality observed from the window), nor from police violence. The world also breaks into the home through her husband's letters and posters (depicting, for example, the participation of women/mothers in liberation struggles). It is at home, initially a symbol of her mental and psychological confinement, a place where interior and exterior, personal and political intersect, that her revolution takes shape, from passive victim to resilient woman, capable of agentiveness. Bush Mama (Haile Gerima, 1975) is imbued with the aesthetic research emblematic of the Los Angeles School of Black Filmmakers, juxtaposing sound and visual elements, stitching together a jagged narrative in which the freedom of narrative and stylistic codes accompanies the liberation of the protagonist.

Quello che si meritava era la cella di un carcere grande quanto il suo cucinino, due metri e mezzo per due metri e mezzo, con la finestrella rettangolare abbastanza alta e abbastanza piccola per non consentirle di evadere.

Joanna Karistiani, Mille sospiri

 

I bianchi hanno trovato un modo efficace per sottomettere i neri a livello globale: costruire senza posa strutture economiche e sociali che sottraggono a molti i mezzi per farsi un focolare.

bell hooks, Elogio del margine

 

1. Bush Mama nel suo contesto di produzione

Bush Mama (1975), da subito diventato una pietra miliare nella storia del Black Cinema e non solo, è il primo lungometraggio dell’etiope Haile Gerima. Regista indipendente, conosciuto a livello internazionale per film quali, tra gli altri, Mirt Sost Shi Amit (Il raccolto dei 3000 anni, 1976), Sankofa (1993), Adwa an African Victory (1999), Teza (2008), Gerima pone al centro della sua opera la memoria, le storie e la Storia restituita da un punto di vista personale ma sempre con rigore documentario. I suoi film raccontano vite di resistenza e lotta, spesso elise dalla narrazione classica, altrimenti destinate all’invisibilità. Fervente anticoloniale, antimperialista, il suo cinema nasce dalla rabbia di fronte alle ingiustizie sociali, razziali, culturali. Da qui la sua lotta per difendere la libertà creativa, al di fuori dei canoni drammaturgici, con uno stile adatto a dire la propria condizione e un’estetica personale, nutrita in parte anche dalla tradizione culturale etiope.

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Il fondo fotografico Servizio in casa, che comprende il lavoro realizzato dall’agenzia DIAL Press in Italia tra il 1951 e il 1967, custodito presso l’Istituto LUCE, ha la funzione di archivio (ri) organizzatore di discorsi illuminanti per comprendere le tante tensioni legate alla figura femminile in un’epoca di passaggi e trasformazioni. Significativi gli scatti in salotto, la stanza borghese per eccellenza che diventa palcoscenico di nuove prospettive di identità. La casa si trasforma in stimolo per racconti inediti: qui, attrici o donne di spettacolo, sono giovani professioniste coscienti della propria immagine pubblica, non subiscono più il focolare, ma lo abitano quale luogo di espressione consapevole.

The photographic collection Servizio in casa, which includes the work realised by the DIAL Press photo agency in Italy between 1951 and 1967, kept at the LUCE Institute, functions as an archive (re)organising enlightening discourses to understand the many tensions linked to the female figure in an era of transitions and transformations. Significant are the shots in the living room, the bourgeois room par excellence that becomes a stage for new perspectives of identity. The home is transformed into a stimulus for new stories: here, actresses or showbiz women are young professionals who are aware of their public image. They no longer suffer the hearth, but they inhabit it as a place of conscious expression.

 

1. L’archivio illuminante

I 70810 scatti realizzati dell’agenzia americana DIAL Press rappresentano un prezioso strumento per inquadrare la storia della Hollywood sul Tevere nel Secondo dopoguerra, la Roma del grande cinema tra il 1951 e il 1967. Attualmente, il prodotto del lavoro italiano dell’agenzia è custodito dall’archivio fotografico dell’Istituto LUCE, compresa la parte denominata Servizio a casa, oggetto di quest’articolo, fondo che racconta gli spazi privati di personaggi dello spettacolo e della cultura. In prevalenza, gli shooting sono dedicati a volti mediamente noti, che possono vantare in filmografia uno o due titoli di successo; più di qualche servizio è tuttavia focalizzato su dive affermate, o a un passo dall’esserlo. Sono presenti anche svariati personaggi della televisione e del mondo della cultura in generale. Purtroppo non si hanno notizie esaustive sui singoli materiali e sono incerte persino le date di molti scatti. Sicuramente, le fotografie coprono un arco temporale che va dall’inizio del sesto alla fine del settimo decennio del secolo scorso. Con ogni probabilità, le immagini nascono per essere vendute ai giornali allo scopo di arricchire approfondimenti sul ‘nome’ del momento. Se considerata nella sua interezza, in una prospettiva di ‘messa in relazione’ dei documenti (Foucault, 1999), la raccolta Servizio a casa traccia una rete di discorsi che stimola potenziali riflessioni su quanto la quotidianità privata di personalità famose illumini le mutazioni del rapporto delle donne con un ambiente di cui, fino a pochi decenni prima, sono state ‘succubi’, imprigionate nel ruolo dell’‘angelo del focolare’. La ricorsività delle scelte nella composizione delle inquadrature inonda la collezione di ciò che Jacques Derrida definirebbe «unicità violenta» (Derrida, 1996), perché costruita da un solo punto di vista, schiacciata da una prospettiva monotona. Tuttavia, la possibilità di ‘riesumare’ queste tracce, di interpretarle attraverso un’analisi puntuale, genera movimenti differenziali: l’indagine infatti individua alterità che producono nuovo senso (Leghissa, 2020). A un attento esame, nelle decine di fotografie di cucine, camere da letto, salotti, terrazzi dove dive e ‘divette’ si mettono in posa, ogni stanza della casa è suscettibile di essere un palcoscenico esclusivo su cui si può ostentare un aspetto ben diverso da quello più spesso esibito o, al contrario, confermare i cliché legati al proprio personaggio.

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«Vendetemi uno dei tre appartamenti, io non potrei mai disturbare: non ci sono quasi mai!» (Martellini, 2022). L’interesse di Monica Vitti per la Casa Papanice di Via Marchi al Nomentano sembra essere piuttosto emblematico del ‘domesticare’ dell’attrice. Progettato da Paolo Portoghesi, il villino rappresenta una riuscita sintesi di arte e natura: un capolavoro post-moderno e libertario che si presta decisamente ad accogliere le prassi abitative dell’attrice. Il «venire a patti» (Meloni, 2014) con lo spazio domestico della commediante sembra infatti essere tutt’altro che ordinario: i passi di Vitti segnano traiettorie insolite, in grado di abbattere potenzialmente le divisioni spaziali più tradizionali o di determinare una caduta della separazione tra sfera pubblica e privata. A partire dallo studio delle commedie interpretate dall’attrice, l’intervento si propone di indagare l’abitare cinematografico vittiano: un agire ‘micro-domestico’ che sembra porsi in connessione con il livello macro-societario’ nonché con l’impatto di questo «corpo imprevisto» (Cardone, 2017) sulle strutture identitarie.  

 

1. Nel cuore della società

È il 1982 e a raccontare a una giornalista del periodico La stampa della difficile intesa con il proprio appartamento romano è Monica Vitti. L’abitazione è «la sola e unica casa da ragazza», presa in affitto dopo aver lasciato la famiglia negli anni in cui Vitti diviene la musa dell’incomunicabilità del cinema antonioniano:

Vitti, in realtà, di case (sebbene cinematografiche) ne abiterà molte negli anni a venire. La collaborazione con il regista segna infatti, con L’avventura (M. Antonioni, 1960), l’esordio di una figura «spersonalizzata» (Gundle, 2007, pp. 301-302) e dall’immagine assai diversa rispetto a quella delle colleghe affermate nel Paese: «Ero tutta sbagliata per il cinema di quegli anni. Ero bionda, lentigginosa, alta, secca, il seno non ce l’avevo e avevo la vita larga, e questa voce qui. Era sbagliato il mio naso, la mia faccia non era italiana» (Mori, 1985, p. 165). Portando avanti un percorso cominciato a teatro (Senza rete, 1954; Sei storie da ridere, 1956; I capricci di Marianna, 1958) e in film comici diretti da registi come Edoardo Anton (Ridere! Ridere! Ridere!, 1954), Glauco Pellegrini (Una pelliccia di visone, 1956), Mario Amendola (Le dritte, 1958), Alessandro Blasetti (La lepre e la tartaruga, primo episodio dell’opera collettiva Le quattro verità, 1963) o Roger Vadim (Il castello in Svezia, 1963), Vitti imboccherà successivamente la strada che la condurrà alla commedia all’italiana. Il disco volante (T. Brass, 1964) la vedrà vestire i panni di una moglie fedifraga e inaugurerà una lunga serie di film di successo (come La ragazza con la pistola di Mario Monicelli, 1968) [fig. 1] nonché di sodalizi noti – in particolare con Alberto Sordi, attore con cui esploderanno «scintille, di comicità e sintonia, tanto da bucare lo schermo» (Borsatti, 2022, p. 109) –, che le faranno conquistare la fama di mattatrice del genere.

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Il caso di Anna Magnani offre una fenomenologia sempre feconda sulle possibiltà di osservare l’opera di un’attrice come la testimonianza creativa di un autore. La sua politica di attrice (Moullet, 1993; Brenez, 2013; Carnice Mur, 2015) afferma non soltanto un compendio di figure e personaggi che diventano essenziali per capire il paesaggio filmico del neorealismo italiano, ma anche un manifesto sulla creazione del personaggio in un momento in cui dalle cinematografie nate dal dopoguerra europeo spuntano i ritratti della femminiltà moderna (Sieghlor 2000; Jandelli 2007; Pravadelli 2015). Dal punto di vista figurativo, troviamo nei suoi film delle immagini ricorrenti che si ripetono intorno alla sua presenza. Intendiamo queste immagini come motivi visuali (Balló & Bergala, 2016) che accompagnano la costruzione dei personaggi dall’attrice di film in film, e che a volte diventano delle vere unità di significazione narrativa e simbolica composte intorno alle sue figure. Il motivo più costante che troviamo a questo riguardo è quello della donna sdraiata sul letto. Un’immagine composta intorno a dei momenti significativi delle sue eroine realiste, che esprimono l’angoscia, la calma, la tristezza o la gioia della solitudine nell’intimità della propria camera. Pur non essendo in apparenza il motivo più rilevante in un senso narrativo, è quello più frequente e probabilmente quello che rege un maggior simbolismo nella carriera di un’attrice che ha esplorato e rappresentato le idee degli affetti e del desiderio oltre la narrativa melodrammatica classica e dell’amore romantico.  Attraverso il motivo della donna sul letto, questo studio cercherà di delineare il significato e l’importanza che prendono i luoghi dell’intimità legati allo spazio domestico nella costruzione del divismo di un’attrice per cui la rappresentazione della femminilità è stata fondamentale nella sua politica di attrice. 

The case of Anna Magnani offers an always fertile phenomenology on the possibilities of observing the work of an actress as the creative testimony of an author. Her actress policy (Moullet, 1993; Brenez, 2013; Carnice Mur, 2015) affirms not only a compendium of figures and characters that become essential for understanding the filmic landscape of Italian neo-realism, but also a manifesto on the creation of the character at a time when portraits of modern femininity were emerging from post-war European cinema (Sieghlor 2000; Jandelli 2007; Pravadelli 2015). From a figurative point of view, we find recurring images around her films. We understand these images as visual motifs (Balló & Bergala, 2016) that accompany the construction of characters by the actress from film to film, and that sometimes become true units of narrative and symbolic signification composed around her figures. The most constant motif we find in this regard is that of the woman lying on the bed. An image composed around significant moments of his realist heroines, expressing the anguish, calm, sadness or joy of loneliness in the intimacy of their own room. Although it is apparently not the most relevant motif in a narrative sense, it is the most frequent and probably the one that holds the most symbolism in the career of an actress who explored and portrayed the ideas of affection and desire beyond classical melodramatic fiction and romantic love.  Through the motif of the woman on the bed, this study will attempt to delineate the meaning and importance of the places of intimacy linked to domestic space in the construction of the stardom of an actress for whom the representation of femininity was fundamental in her politics as an actress.

Il caso di Anna Magnani offre numerose possibilità di osservare nel percorso di un’attrice la testimonianza creativa di una autrice. La sua politica di attrice (Moullet, 1993; Brenez, 2013; Carnicé Mur, 2015) mostra non soltanto un compendio di figure essenziali del paesaggio filmico del neorealismo italiano, ma appare anche come un manifesto della creazione del personaggio in un momento in cui nelle cinematografie europee del dopoguerra affiorano i tratti della femminilità moderna (Sieghlor, 2000; Jandelli, 2007; Pravadelli, 2015). Dal punto di vista figurativo, troviamo nei suoi film una serie di immagini ricorrenti che muovono intorno alla sua presenza, generando una certa familiarità tra il mondo drammaturgico legato ai suoi gesti e la memoria degli spettatori. Ne sono esempi il motivo della pietà, quello della donna che corre, l’attrice nel suo camerino, o la donna sul letto. Vorrei leggere queste immagini attraverso il prisma della prospettiva teorica con la quale autori come Casetti e Di Chio (1994) o Balló e Bergala (2016) osservano i motivi visuali nell’analisi filmica, ovvero unità iconografiche che nutrono di senso l’universo filmico, diventando esse stesse unità autonome di significazione narrativa e simbolica. In questo caso, i motivi visuali appena elencati accompagnano la costruzione del personaggio di Anna Magnani di film in film, definendo una serie di tratti di familiarità e iconicità nel suo ventaglio di eroine quotidiane, così da offrire un ritratto profondo e non stereotipato dell’identità femminile del suo tempo.

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A partire dall’angelo del focolare e dalla pazza in soffitta, archetipi femminili presenti nella vita e nella letteratura di Virginia Woolf, ma soprattutto da una stanza tutta per sé, simbolico spazio di autonomia delle donne, il saggio si sofferma sulla cucina che nel cinema di Visconti è talvolta il luogo di cura e accudimento materno - delle vedove de La terra trema e Rocco e i suoi fratelli - ma talaltra si trasforma, per esempio in Ossessione, in uno spazio di seduzione e desiderio, di metamorfosi del femminile, oltreché di modifica della sua destinazione d’uso.

The angel of house and the madwoman in the attic are two female archetypes present in Virginia Woolf’s life and literature, as well as a room of one’s own recalls her famous book and the symbolic place of autonomy for women. Well, in this paper the focus is on the kitchen in Visconti and some his movies, Ossessione, La terra trema and Rocco e i suoi fratelli, where widowed mothers give food their sons, while other borderline women change this place in the space of their desire for love and freedom. 

Due sono gli archetipi femminili, le immagini cardine nella vita letteraria di Virginia Woolf connesse allo spazio domestico nel quale vengono relegate le donne: l’angelo del focolare e la pazza in soffitta (Fusini, 2021a, pp. 22-23, pp. 251-252). Sono figure, a mio avviso, che si riflettono come un’ombra sulle protagoniste di Ossessione (1943), La terra trema (1948) e Rocco e i suoi fratelli (1960) di Luchino Visconti. Pellicole su cui mi soffermo, focalizzando l’attenzione su quel «femminile in movimento» che in letteratura e al cinema, mentre transita da una stanza all’altra, da un campo a un «fuori campo attivo», rende visibile, ma soprattutto reversibile, l’«identità» (Brogi 2022, pp. 6, 80) di genere di cui ci si riappropria.

1. L’angelo del focolare e la pazza in soffitta

Nella numerosa, composita, allargata famiglia d’origine di Virginia Woolf, formata da otto figli, tra maschi e femmine, nati in prime e secondo nozze, ci sono due sorellastre che, concepite nei talami genitoriali pre-vedovanza e precedenti al re-matrimonio, aleggiano come presenze fantasmatiche, l’una angelicata, l’altra demoniaca, tra le pagine, nella mente e nell’anima della scrittrice.

L’una è la «perfetta controfigura della madre […] addestrata» con severità vittoriana per esserne il «braccio destro» o per prenderne il posto lasciato vacante quando costei scompare prematuramente e Virginia Woolf, che è nata a Londra il 25 gennaio 1882, ha solo 13 anni. È appena ventiseienne invece la sorellastra che, volente o nolente, si trova a ricoprire i ruoli di «moglie vicaria» del «vedovo inconsolabile», di madre surrogata della prole orfana e di governante di casa addetta, assieme ai domestici, alla sua organizzazione e gestione. «Impeccabile nell’abnegazione», la «buona Samaritana» (Fusini, 2021a, p. 251) si fa perfetta incarnazione dell’angelo del focolare che Woolf descrive, in Professioni per le donne, come estremamente «comprensiva […] accattivante […] altruista»; eccellente «nelle difficili arti del vivere familiare». Colei che ogni giorno si sacrifica, pronta a «capire e compatire i pensieri e i desideri degli altri» (Woolf, 2011, p. 353), rinunciando ai propri.

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Nel numero 12 di Film d'oggi, pubblicato nel marzo 1946, una serie di scatti ritrae Isa Miranda davanti alle macerie della casa milanese di Porta Genova dove era cresciuta. Allo sguardo smarrito dell'attrice, che osserva quello che resta della dimora traballando sui tacchi in bilico sulle pietre, si accompagna un breve componimento in poesia, dedicato proprio a quelle mura arcigne che pure avevano accolto i suoi primi anni di vita. In effetti il legame con Milano rappresenta un tratto forte della personalità divistica dell’attrice, e lo spazio domestico ne accoglie spesso le raffigurazioni. Nelle scritture della diva (romanzi e raccolte di liriche) come nelle personagge che incarna sullo schermo, da La signora di tutti (M. Ophuls, 1934) all’episodio di Siamo donne (L. Zampa, 1953), la casa si delinea come luogo ambivalente, segnato dalle tracce orgogliose di un percorso tenace verso il successo e insieme da una ricorrente inclinazione melanconica dagli accenti lancinanti che appanna la figura di femme fatale sovente attribuita a Miranda.

 

 

1. Isa Miranda, milanese

La prima sequenza de La signora di tutti basta ad affermare per Isa Miranda la postura di femme fatale e al contempo ne segnala l’inevitabile piegatura tragica. Lo spazio che la inquadra è quello della camera di un hotel elegante: le corbeille di fiori, i ricchi arredi, i lampadari lucenti introducono chi guarda al personaggio di Gaby Doriot segnalandone da subito lo statuto di diva. Ma il corpo di lei, avvolto in una liseuse di seta, giace a terra, inerte: la donna ha tentato il suicidio. Le stanze sfarzose, i saloni signorili, i camerini accoglienti, le ville di lusso circondano poi la figura di Gaby lungo tutto il racconto accompagnandone le svolte drammatiche che conducono al suo destino fatale: seduttrice senza intenzione, la donna porta alla rovina gli uomini che hanno la ventura di innamorarsi di lei, per poi darsi la morte [fig. 1]. Dunque il film di Max Ophuls assegna Miranda al ruolo di donna del destino, sul quale l’attrice costruirà la sua fama e il viaggio a Hollywood, dove lo star system la accosterà a Greta Garbo e Marlene Dietrich (Muscio, 2009).

Ma l’immagine divistica di Miranda non è monolitica. I ruoli nei film italiani del decennio Trenta sembrano voler sfuggire al cliché della tragica seduttrice: meno fatali e più misurate sono, ad esempio, l’emigrante Maria Brunetti di Passaporto rosso (G. Brignone, 1935) o la sobria Velia di Scipione l’Africano (C. Gallone, 1937). Così, nei due testi autobiografici (Miranda, 1945 e 1946) come nella autofiction dal titolo La piccinina di Milano (1965), l’attrice tiene a distanza l’immagine della femme fatale per tracciare piuttosto il racconto degli anni difficili della gavetta, in quel tentativo tenace «di controllare il proprio personaggio pubblico», come scrive Elena Mosconi (2021), che percorre tutte le sue divagrafie. Il motivo ritornante è quello di Cenerentola: l’attrice disegna un ritratto di sé molto più terragno e ambienta in spazi modesti e miserabili un passato di ragazzina povera ma volitiva, impegnata in mille lavori, dalla aiutante di sartoria, la “piccinina”, a scatolaia, commessa, indossatrice, stenodattilografa, per sbarcare il lunario e potere, un domani, lasciare il «decrepito portone» da dove era «uscita un giorno per intraprendere il cammino della sua vita» (Miranda 1946).

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