Il 2 marzo 2022, l’attrice losangelina Kristen Stewart – classe 1990, quarantacinque pellicole all’attivo – viene premiata dalla Hollywood Critics Association nella categoria Best Actress per l’interpretazione da protagonista nel dramma biografico Spencer (Pablo Larraín, 2021). Scott Menzel ed Erik Anderson, tolti i sigilli dalla busta contenente il verdetto, annunciano all’unisono la vincitrice: «Kristen – fucking – Stewart». L’utilizzo dell’intercalare, che è certo comune nello slang informale, non è in questo caso praticato senza ragione: esso è speso come una sorta di ‘omaggio’ allo stile verbale di Stewart, attrice incline a pronunciare parolacce dentro e fuori lo schermo, star che sfugge all’immagine potenzialmente chic consegnata dai propri outfit Chanel – di cui è da anni brand ambassador – togliendosi gli scomodi tacchi per affrontare l’escalier di Cannes e sfidando l’assunto educativo secondo il quale le parolacce non stanno bene in bocca ai ragazzi, men che meno alle ragazze.
In effetti, tale atto verbale ha costituito il gesto inaugurale della performance con la quale Stewart ha firmato definitivamente il proprio ingresso nell’industria cinematografica hollywoodiana. L’attrice ha undici anni quando viene selezionata da David Fincher per interpretare la figlia preadolescente di Jodie Foster in Panic Room (2002), thriller nel quale la famiglia monoparentale formata da Sarah (Stewart) e Meg (Foster) è presa in ostaggio da tre scassinatori nella townhouse newyorkese dove madre e figlia si sono appena trasferite. Ancora segnata dal recente divorzio, Meg scopre nella figlia Sarah la voce di una coscienza che le suggerisce un taglio netto con la vita precedente, una soluzione definitiva nello stabilire il nuovo peso dei rapporti con l’ex marito fedifrago: «Fuck him. Fuck her, too». L’autosegregazione all’interno della panic room – la ‘stanza antipanico’ costruita dal precedente proprietario della townhouse come bunker di difesa – suggerisce didascalicamente la complicata transizione sociale; l’indipendenza – innanzitutto domestica – in fase di acquisizione è subito messa in crisi dall’introduzione violenta dei tre malviventi, che costringe le due donne ad auto-relegarsi in una strana declinazione della stanza ‘tutta per loro’, un luogo certo esclusivo ma altresì angusto, tecnologicamente complesso e inospitale. È però proprio all’interno di queste quattro anguste mura che si registra uno scivolamento dal genere del woman-in-peril movie a quello dell’action movie nel quale spicca la figura della final girl (cfr. Williams, 2002): la panic room si configura ben presto come la fucina di una rivolta che passa dalle intimidazioni suggerite da Sarah e urlate senza convinzione all’interfono da Meg («Get the fuck out of my house!») a un vero e proprio piano strategico, messo a punto tramite un sapiente utilizzo delle tecnologie della stanza [fig. 1] e il coinvolgimento fisico in azioni violente.