1.10. «Get the fuck out of my house»: il corpo di Kristen Stewart fra prigioni e infrazioni domestiche

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A partire dall’esordio cinematografico in Panic Room (Fincher, 2002), l’attrice losangelina Kristen Stewart (1990) è spesso stata chiamata a ricoprire ruoli la cui complessità emerge in maniera definita soprattutto nella relazione con lo spazio domestico – per lo più ostile o difficilmente pacificato – in cui si muovono. Enucleando alcune performance indicative (quelle dirette dal regista francese Olivier Assayas e quella nei panni della principessa Diana in Spencer di Larraín del 2021), il presente contributo vuole mettere in evidenza come il corpo di Stewart, nell’eterogeneità dei generi cinematografici e dei contesti produttivi, si riveli uno ‘strumento’ capace di restituire – tramite posture e gesti ricorsivi – le tensioni e i desideri che animano le sue protagoniste nel rapporto con l’ambiente domestico circostante.

Il 2 marzo 2022, l’attrice losangelina Kristen Stewart – classe 1990, quarantacinque pellicole all’attivo – viene premiata dalla Hollywood Critics Association nella categoria Best Actress per l’interpretazione da protagonista nel dramma biografico Spencer (Pablo Larraín, 2021). Scott Menzel ed Erik Anderson, tolti i sigilli dalla busta contenente il verdetto, annunciano all’unisono la vincitrice: «Kristen – fucking – Stewart». L’utilizzo dell’intercalare, che è certo comune nello slang informale, non è in questo caso praticato senza ragione: esso è speso come una sorta di ‘omaggio’ allo stile verbale di Stewart, attrice incline a pronunciare parolacce dentro e fuori lo schermo, star che sfugge all’immagine potenzialmente chic consegnata dai propri outfit Chanel – di cui è da anni brand ambassador – togliendosi gli scomodi tacchi per affrontare l’escalier di Cannes e sfidando l’assunto educativo secondo il quale le parolacce non stanno bene in bocca ai ragazzi, men che meno alle ragazze.

In effetti, tale atto verbale ha costituito il gesto inaugurale della performance con la quale Stewart ha firmato definitivamente il proprio ingresso nell’industria cinematografica hollywoodiana. L’attrice ha undici anni quando viene selezionata da David Fincher per interpretare la figlia preadolescente di Jodie Foster in Panic Room (2002), thriller nel quale la famiglia monoparentale formata da Sarah (Stewart) e Meg (Foster) è presa in ostaggio da tre scassinatori nella townhouse newyorkese dove madre e figlia si sono appena trasferite. Ancora segnata dal recente divorzio, Meg scopre nella figlia Sarah la voce di una coscienza che le suggerisce un taglio netto con la vita precedente, una soluzione definitiva nello stabilire il nuovo peso dei rapporti con l’ex marito fedifrago: «Fuck him. Fuck her, too». L’autosegregazione all’interno della panic room – la ‘stanza antipanico’ costruita dal precedente proprietario della townhouse come bunker di difesa – suggerisce didascalicamente la complicata transizione sociale; l’indipendenza – innanzitutto domestica – in fase di acquisizione è subito messa in crisi dall’introduzione violenta dei tre malviventi, che costringe le due donne ad auto-relegarsi in una strana declinazione della stanza ‘tutta per loro’, un luogo certo esclusivo ma altresì angusto, tecnologicamente complesso e inospitale. È però proprio all’interno di queste quattro anguste mura che si registra uno scivolamento dal genere del woman-in-peril movie a quello dell’action movie nel quale spicca la figura della final girl (cfr. Williams, 2002): la panic room si configura ben presto come la fucina di una rivolta che passa dalle intimidazioni suggerite da Sarah e urlate senza convinzione all’interfono da Meg («Get the fuck out of my house!») a un vero e proprio piano strategico, messo a punto tramite un sapiente utilizzo delle tecnologie della stanza [fig. 1] e il coinvolgimento fisico in azioni violente.

Nel contesto d’azione, tuttavia, al giovane corpo di Kristen Stewart viene demandata a livello diegetico una posizione sempre più marginale che si traduce in una progressiva inazione a livello mimetico (la ragazzina accusa una crisi ipoglicemica che intensifica la criticità del momento): mentre Meg si libera dalla costrizione della stanza antipanico ed evade per compiere la propria missione, i confini dello spazio vitale si stringono attorno a Sarah, andando a coincidere non più con le quattro mura del bunker, ma con quelli ben più vulnerabili e ristretti del proprio corpo.

La predisposizione di Stewart a significare efficacemente l’elemento contrastivo ideale in contesti domestici e ambientali ostili o estranei – per certi versi riaffermata anche dalla fortunata saga Twilight (2008-2012), nella quale l’attrice interpreta una ragazza dell’Arizona catapultata nella città «più piovosa d’America», unica umana a essere introdotta in una famiglia di vampiri – viene accolta dal regista francese Olivier Assayas nei suoi Sils Maria (Clouds of Sils Maria, 2014) prima e in Personal Shopper (2016) poi. In entrambi i film a Stewart è concesso l’agio di interpretare un personaggio affine, per look, al proprio stile effortless: non sembra esservi soluzione di continuità fra le inquadrature di Valentine, assistente personale della diva Maria Enders (Juliette Binoche) in Sils Maria e le foto – alle quali Stewart acconsente con insofferenza – pubblicate sui tabloids [fig. 2]; convince, inoltre, la lettura che riconoscerebbe nella Maureen di Personal Shopper una versione più introspettiva e solitaria del personaggio agito nella prima pellicola di Assayas (cfr. Masciullo, 2017, pp. 227-241). L’uscita di scena ‘magica’ di Valentine, che scompare fra le montagne di Sils Maria senza lasciare traccia, sembra strettamente correlata alla prima apparizione di Stewart in Personal Shopper, che descrive il ritorno di Maureen all’abitazione dove dimorerebbe lo spirito del gemello morto: l’abbigliamento della protagonista è lo stesso, il riferimento a un passato da cui è fuggita è indicativo, la professione di assistente di Kira, star dispotica (un’altra), funge da conferma definitiva.

In Personal Shopper la cinepresa di Assayas registra gli spostamenti di Stewart da un’abitazione all’altra: il corpo dell’attrice reagisce a stimoli esclusivamente extracorporei (messaggi sul cellulare inviati da uno sconosciuto, segnali incerti lanciati dallo spirito del fratello), assestandosi su una recitazione che fa dei gesti interrotti, del mumbling e della postura dinoccolata le cifre distintive di un personaggio ossessionato dal ricordo e incapace di fermarsi. Nelle incursioni domestiche a casa di Kira, alla quale presta servizio come personal shopper, Stewart si muove sola in uno spazio estraneo, che abita controvoglia fino a quando, stimolata dagli sms del suo interlocutore misterioso, si abbandona a una sorta di orgia in solitaria: beve della vodka trovata in frigorifero, indossa i costosi abiti procurati alla sua esigente committente e, con una crescente presa di confidenza dello spazio domestico, si abbandona a un orgasmo procuratosi fra le lenzuola della camera da letto. L’inconsistenza corporea dei rapporti che Maureen stabilisce con chi le sta attorno, la frustrazione data dal non riuscire a stabilire un contatto soddisfacente col fratello – il cui ectoplasma si nega puntualmente alla vista della giovane donna – scoprono nel legame con gli oggetti una corroborante valvola di sfogo. Maureen si sveste dei propri abiti dimessi e, nuda, si aggira in una cabina armadio piena di vestiti e accessori che risvegliano un desiderio tattile finalmente appagato: la manipolazione delle collane, delle scarpe, dei tessuti e infine del proprio stesso corpo [fig. 3] è la strategia attraverso la quale la ragazza si appropria di uno spazio domestico estraneo, in un’escalation di piacere che non può che culminare con la petite mort del desiderio. «I tought you wanted to be someone else», recita il messaggio del suo interlocutore misterioso, al quale Maureen descrive l’infrazione nelle stanze private di Kira: qui, mai come prima, il grado di separazione tra il coinvolgimento di Maureen e quello di Stewart si fa sottile. L’attrice passa dall’incarnare una sorta di «theatrical versions of [her]self» al vestire gli abiti di una qualunque «theatrical personage» (Naremore, 1988) di cui ella stessa subisce il fascino, restituitole dall’immagine di sé allo specchio [fig. 4].

Il rapporto con lo specchio esclude invece del tutto il compiacimento per Diana [fig. 5], che nella grandezza di Sandringham House si sforza di mettere assieme i pezzi di un’esistenza precedente al suo ingresso nella famiglia reale. Spencer, a ben vedere, descrive la ricerca di un passato privato di testimonianze visibili: a Diana restano soltanto una giacca rossa appartenuta al padre e la consapevolezza che a poca distanza dal palazzo si trova la vecchia casa dove è nata, ormai inagibile. Paragonando sé stessa a un fantasma (precisamente a quello di Anna Bolena, della quale Diana legge vita e martirio iniziando a percepirne la prossimità fisica ed emotiva), la principessa vaga con apprensione tra le stanze dorate, troppo fredde – come lamenta allo scudiero non appena fa ingresso nella residenza – e testimoni di una storia che non sente propria.

Eppure, fra queste stanze in apparenza similmente avverse, il regista Pablo Larraín sembra voler tracciare una precisa geografia emozionale di Diana, descritta già prima del suo arrivo a palazzo. Il piano inferiore costituisce in quest’ottica il luogo deputato al sacrificio ‘pubblico’: è il piano dell’ingresso, lo stesso dove la principessa viene fatta sedere su una bilancia per essere pesata (in onore a un’antica tradizione reale che sadicamente la costringe a fare i conti con l’aspetto più delicato della sua salute psico-fisica) e dove la famiglia reale si riunisce per le cene tradizionali. La relazione coi figli e con l’assistente Maggie – uniche figure salvifiche nel crollo inesorabile della stabilità emotiva di Diana – si consuma invece al piano superiore, nelle camere da letto della madre e dei bambini [fig. 6], che divengono una roccaforte da difendere dalle frequenti intrusioni di cameriere e paggi. A livello filmico, lo scarto fra i due ambienti è significato da un atteggiamento differenziato della macchina da presa: se al piano inferiore è ravvisabile un’insistenza nel raggiungere il corpo dell’attrice in dettagli ravvicinati non stabilizzati che spesso perdono fuoco – preferibilmente le mani e il volto in primissimo piano – e che sembrano togliere aria vitale alla protagonista [fig. 7]; viceversa nelle scene in camera da letto viene concesso un quadro più ampio. Di pari passo, la recitazione di Stewart, in accordo alle emozioni della protagonista e alla distanza della macchina da presa, nel primo ambiente si affida a movimenti nervosi del capo – nel tentativo reiterato di celarlo – e delle mani, in una postura che ricerca costantemente di eludere (senza successo) il centro dell’inquadratura, mentre nel secondo beneficia di uno spazio d’azione che consente un’elaborazione intima del dramma e, quindi, l’agio di muoversi con maggior lentezza tra la stanza da bagno e la camera.

Va riconosciuto un ultimo ambiente, certo il più ambivalente di questa topografia emotiva, ossia il seminterrato dove si estendono le cucine del palazzo. Il minaccioso cartello «Keep noise to a minimum. They can hear you» sottolinea la natura spuria dell’ipotetico rifugio: sebbene i reali non abbiano qui ragioni di accesso, il luogo rimane incluso nel loro raggio di controllo. Nella scena che vede Diana addentrarsi nottetempo nelle cucine dove è allestito il pranzo natalizio pronto per il giorno seguente, la cinepresa mantiene un atteggiamento classico che, nell’economia filmica della pellicola, affida un potere straniante all’utilizzo estremamente netto di campi e controcampi e della perfetta simmetria delle inquadrature [fig. 8]. La crisi bulimica di Diana irrompe a compromettere questa nettezza, suggerendo la sottigliezza del confine tra distruzione e autodistruzione. A ben vedere, in Spencer la tensione è giocata proprio attorno a un’insistita messa in discussione di confini e soglie: quella fra la stanza da letto di Diana e il resto della casa è il corrispettivo tangibile di quella tra la salute mentale e il lento esaurimento nervoso della giovane donna. Larraín sembra costruire attorno alla sua protagonista una sorta di scatola, fatta di precisi limiti spaziali ma anche temporali, grazie alla quale l’estrema compressione del tempo della vicenda – appena tre giorni nella vita della principessa – scatena i meccanismi che la animano con una precipitazione studiata; inoltre, separa per molti aspetti il film dalla vasta produzione (particolarmente fiorente negli ultimi anni) che ha assunto come soggetto filmico la vita behind closed doors della famiglia reale britannica.

Ma il corpo di Stewart è chiamato, nel finale del film, a rompere tale impasse. Questa volta, però, nessuna imprecazione accompagna la rottura dello spazio domestico ostile; al suo posto, anzi, una sorta di preghiera: il brano All I need is a miracle, cantato al vento dal tettuccio calato della Porsche con la quale la principessa, assieme ai figli, si sta allontanando di corsa da Sandringham House. «Where are we going?», chiede il figlio William alla madre. Risponde, Diana: «Home».

 

 

 

Bibliografia

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J. Naremore, Acting in the Cinema, Berkeley, University of California Press, 1988.

L. R. Williams, ‘Mother Courage’, Sight and Sound, May 2002, pp. 12-14.

M. Browning, David Fincher. Films That Scar, Santa Barbara (CA), Praeger, 2010.

P. Masciullo, ‘Olivier Assayas: sul fuori campo delle “nuove immagini”’, Fata Morgana n. 33, 2017.

R. Menarini, ‘Personal Shopper, un’opera che è tante cose assieme, tutte belle”’, MyMovies, 15/4/2017 <https://www.mymovies.it/film/2016/personalshopper/news/tante-cose-insieme-tutte-belle/> [Accessed 30 May 2023].

Y. Tasker, Spectacular Bodies. Gender, Genre and the Action Cinema, London-New York, Routledge, 1993.