1.9. Dorothy non abita più qui. Demolire il sistema: Bush Mama e lo spazio domestico come luogo di liberazione

di ,

     
Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
Abstract: ITA | ENG

Dorothy è nera, povera e incinta. In seguito all’ingiusta carcerazione del marito, cresce da sola la prima figlia. A Watts (Los Angeles) lo spazio domestico non basta a proteggerla dal giogo del sistema (intrusione di assistenti sociali, brutalità osservata dalla finestra), né dalla violenza della polizia. Il mondo irrompe in casa anche attraverso le lettere del marito e poster (raffiguranti ad esempio la partecipazione delle donne/madri nelle lotte di liberazione). Proprio a casa, inizialmente simbolo del suo confinamento mentale e psicologico, luogo dove interno ed esterno, personale e politico si intersecano, prende forma la sua rivoluzione, da vittima passiva a donna resistente, capace di agentività. Bush Mama (Haile Gerima, 1975) è impregnato della ricerca estetica emblema della Scuola dei Cineasti Neri di Los Angeles, giustapponendo elementi sonori e visuali, ricuce una narrazione frastagliata, in cui la libertà dei codici narrativi e stilistici accompagna la liberazione della protagonista.

Dorothy is black, poor and pregnant. Following her husband's unjust imprisonment, she raises her first daughter alone. In Watts (Los Angeles), domestic space is not enough to protect her from the yoke of the system (intrusion of social workers, brutality observed from the window), nor from police violence. The world also breaks into the home through her husband's letters and posters (depicting, for example, the participation of women/mothers in liberation struggles). It is at home, initially a symbol of her mental and psychological confinement, a place where interior and exterior, personal and political intersect, that her revolution takes shape, from passive victim to resilient woman, capable of agentiveness. Bush Mama (Haile Gerima, 1975) is imbued with the aesthetic research emblematic of the Los Angeles School of Black Filmmakers, juxtaposing sound and visual elements, stitching together a jagged narrative in which the freedom of narrative and stylistic codes accompanies the liberation of the protagonist.

Quello che si meritava era la cella di un carcere grande quanto il suo cucinino, due metri e mezzo per due metri e mezzo, con la finestrella rettangolare abbastanza alta e abbastanza piccola per non consentirle di evadere.

Joanna Karistiani, Mille sospiri

 

I bianchi hanno trovato un modo efficace per sottomettere i neri a livello globale: costruire senza posa strutture economiche e sociali che sottraggono a molti i mezzi per farsi un focolare.

bell hooks, Elogio del margine

 

1. Bush Mama nel suo contesto di produzione

Bush Mama (1975), da subito diventato una pietra miliare nella storia del Black Cinema e non solo, è il primo lungometraggio dell’etiope Haile Gerima. Regista indipendente, conosciuto a livello internazionale per film quali, tra gli altri, Mirt Sost Shi Amit (Il raccolto dei 3000 anni, 1976), Sankofa (1993), Adwa an African Victory (1999), Teza (2008), Gerima pone al centro della sua opera la memoria, le storie e la Storia restituita da un punto di vista personale ma sempre con rigore documentario. I suoi film raccontano vite di resistenza e lotta, spesso elise dalla narrazione classica, altrimenti destinate all’invisibilità. Fervente anticoloniale, antimperialista, il suo cinema nasce dalla rabbia di fronte alle ingiustizie sociali, razziali, culturali. Da qui la sua lotta per difendere la libertà creativa, al di fuori dei canoni drammaturgici, con uno stile adatto a dire la propria condizione e un’estetica personale, nutrita in parte anche dalla tradizione culturale etiope.

Arrivato da poco negli Stati Uniti, dopo essere passato per la scuola di teatro Goldman di Chicago, folgorato dalle possibilità del cinema, all’inizio degli anni Settanta, Gerima entra a far parte del gruppo multietnico di studenti (prevalentemente neri, o ‘non bianchi’) della Scuola di Teatro, Film e Televisione dell’università UCLA di Los Angeles. Il movimento fu chiamato a posteriori ‘Scuola dei registi Neri di Los Angeles’, e anche L. A. Rebellion. È proprio in questo contesto di rivolte sociali e sconvolgimenti politici, nel pieno fermento socio-culturale dei ferventi movimenti contro la guerra in Vietnam, di liberazione e diritti civili, che nasce Bush Mama. Ancora studente, Gerima esordisce con una sorta di trilogia, composta da Hour Glass, Child of Resistance e Bush Mama. Con grande potenza espressiva, visuale e sonora, i tre film esprimono la condizione di oppressione nella quale vivono i Neri in America, ma soprattutto la loro resistenza e le loro lotte. Il cortometraggio Hour Glass, di ispirazione autobiografica, narra in modo sperimentale e non lineare, con immagini surreali, la presa di coscienza identitaria e politica di un giovane studente nero. Allo stesso modo, il mediometraggio Child of Resistance integra sequenze a colori in una narrazione principalmente in bianco e nero. Ispirato all’incarcerazione dell’attivista Angela Davis (insegnante in quegli anni all’UCLA) è un viaggio onirico – caratteristica importante del cinema di Gerima – e metaforico sulla liberazione dal ‘colonialismo mentale’ attraverso le visioni della protagonista, che esprimono lo stato di cattività mentale in cui vivono le persone nere negli Stati Uniti, offuscate dal capitalismo e dai sogni di ricchezza e frivolezza, tramite un riferimento alle catene con cui erano tenuti gli schiavi. Questa presa di coscienza stimolerà la ribellione.

Questi due primi film coraggiosi, dal montaggio ardito, portano in germe alcuni elementi chiave di Bush Mama. Realizzato come progetto di fine studi, in bianco e nero, girato in 16mm, ha sconvolto il pubblico per la sua potenza audiovisiva e la sua portata emotiva. Secondo le idee legate al Terzo Cinema, che Gerima definisce «cinema della demistificazione» (Pines, Willemen, 1989, p. 76), i suoi film mettono a disagio lo spettatore, poiché mostrano realtà indigeste e creano dibattito «caratterizzato da un genuino desiderio di trasformare la società precostituita» (Pines, Willemen, 1989, p. 68).

Bush Mama descrive la presa di coscienza e di consapevolezza sociopolitica di Dorothy, magistralmente interpretata da Barbara O. Jones (già protagonista di Child of Resistance) [fig.1]. Nera, povera e incinta, Dorothy vive nel quartiere ghetto di Watts (Los Angeles), simbolo della marginalizzazione di una parte della popolazione americana. In seguito all’ingiusta incarcerazione del marito TC (Johnny Weathers) – sorte comune a tanti altri uomini neri –, cresce da sola la prima figlia, Luann. Inizialmente subisce varie forme di violenza, dalla gente del quartiere, ma soprattutto dal sistema (lo percepiamo anche nella cacofonia dei suoni urbani che aprono il film, esternando il turbinio che rimbomba nella testa della protagonista). Oltre allo stato di sorveglianza, l’assistente sociale (nera anch’essa) le impone di abortire, secondo quella che Frank B. Wilderson chiama «l’agenda di sterilizzazione delle donne nere» (2010, p. 123). Infine, la brutalità della polizia sfocia nello stupro da parte del poliziotto bianco della piccola Luann, atto ancor più drammatico in quanto sistemico e volto a stroncare l’avvenire delle giovani generazioni, compiuto nell’intimità della camera da letto, spazio privato e inviolabile per eccellenza.

 

2. Lo spazio domestico e la libertà conquistata

Il presente contributo illustra come proprio lo spazio domestico, inizialmente metaforica prigione mentale assimilata al carcere in cui è imprigionato il compagno della donna, diventa per Dorothy luogo del risveglio e del riscatto. Nel territorio intimo della camera da letto compie la sua rivoluzione e, per difendere la figlia, da vittima passiva passa all’azione. L’omicidio del poliziotto risuona con la fine della vita che lei portava in grembo, e la porterà in carcere a sua volta, ma sul piano simbolico tutto assume un significato preciso e potente che fa da contrappunto alla storia degli afroamericani. La casa riassume tutti i luoghi emblematici: è – come si è detto – lo spazio della segregazione, ma è anche lo scenario in cui avvengono la violenza e la rivolta, è il territorio in cui matura la coscienza e in cui si mette in atto la scoperta del sé e delle radici. La casa è insomma il luogo da cui si proviene, da cui si è stati estirpati e a cui si deve fare ritorno.

La violenza presente nel film echeggia la violenza silenziosa, sistemica e reale che le popolazioni nere subiscono da secoli. Dorothy agisce non per la propria difesa personale, ma per la salvaguardia della sua famiglia e metaforicamente della comunità, cercando di impedire il perpetrarsi dell’oppressione sulle nuove generazioni. La reclusione fisica non impedisce la libertà mentale, anzi rinforza la resistenza e la ribellione che animano il suo monologo finale. Nella lunga ripresa che chiude il film, ormai libera da quella parrucca che corrispondeva a idee di altri messe nella (e sulla) sua testa proferisce il suo discorso sulla dignità e sull’urgenza di trasformazioni sociali. Sul tema dei capelli afro come simbolo della riappropriazione dell’identità ci sono innumerevoli testi; fra tutti ci piace citare il film di Ayoka Chenzira Hair Piece: A Film for Nappyheaded People (1984), un cortometraggio di animazione in cui la regista associa la storia dei capelli e delle acconciature africane americane all’esilio dei corpi e alla perdita delle origini. L’ultima inquadratura di Dorothy, mentre scorre la sua voice over, fissa sullo sfondo del poster del MPLA (Movimento Popolare per la Liberazione dell’Angola) con lo sguardo alla macchina da presa, conferisce ulteriore potenza al film [fig.2]. È inoltre emblematico che, grazie al montaggio disgregato di Gerima, l’ultima immagine del film sia proprio dentro le mura domestiche, seppur Dorothy sia già in prigione.

Il regista etiope è un maestro dei capovolgimenti, che realizza proprio tramite il montaggio ma soprattutto nel missaggio sonoro: il suo mescolare magistralmente i piani dislocando suoni e parole da spazi e tempi differenti, gli consente una maggiore elasticità di pensiero, che osmoticamente trasferisce agli spettatori. Elasticità che gli permette inoltre di immedesimarsi nella sua protagonista, annullando qualsiasi presupposto sessista e patriarcale. Quello di Gerima non è uno sguardo maschile su una donna; Dorothy non è mai guardata dalla mdp – neppure quando la filma nella sua bellissima e tragica camminata all’inizio del film [fig.3] –, Dorothy è vista da Gerima che si immedesima e condensa in lei le debolezze e le forze delle donne nere che hanno lottato e lottano per salvaguardare la loro dignità e la libertà.

 

3. Demolire la casa ‘bianca’

In un suo storico testo intitolato The master’s tool will never dismantle the Master’s house, Audre Lorde (1980) invita le donne a unirsi nella consapevolezza delle loro differenze e a trovare nuovi strumenti per ricostruire un mondo che possa accoglierle tutte, senza divisioni di classe e di razza. Demolire la casa patriarcale per costruire nuove case da abitare equivale per le donne nere a smantellare il sistema della supremazia bianca, perché – come ci ricorda bell hooks (1990) – la casa è un luogo di resistenza dove le donne nere hanno costruito i loro baluardi di libertà e integrità. È proprio dentro una di queste case che abita la protagonista di Bush Mama: Dorothy entra in casa con la figlia Luann dopo un incipit lungo e complesso in cui l’abbiamo vista camminare per strada, assistere a vari episodi di violenza compiuta da poliziotti bianchi contro uomini neri, divenire vittima di uno scippo. Mentre si intersecano pensieri e ricordi, momenti di vita familiare a casa con il marito – con i suoi incubi da reduce del Vietnam – le lunghe attese all’assistenza sociale, le riunioni della comunità, la macchina da presa inquadra l’interno della stanza dall’alto. Dell’arredamento scarno e povero spicca un divano sulla sinistra dell’inquadratura; sul pavimento dall’altro lato della stanza, evidentemente fatta passare sotto la porta, c’è una busta chiusa. Dorothy e Luann non vedono subito la lettera e la donna si abbandona sfinita sul divano. Poco dopo la vediamo nella stessa posizione con la lettera di TC dal carcere in mano [fig.4]: incapace di aprirla, resta sospesa nella posa ma pare pesantissima, come se tutto il peso del mondo gravasse su di lei e lei su quel divano. Le inquadrature successive mostrano la donna sempre sul divano ma riflessa nello specchio [fig.5], con e senza la lettera in mano, e lo specchio – si sa – è uno spazio che le donne devono attraversare (de Lauretis, 1984). Ma le inquadrature di Dorothy nello specchio sono anche un invito a specchiarci a nostra volta e riconoscere noi stesse in lei mettendoci nei suoi panni; entrare in empatia al punto da poter dire: sono io quella donna. Una sfida complessa e difficile da compiere se non ci misuriamo prima con il costrutto della bianchezza, con la cultura in cui siamo state educate, e se non ci posizioniamo consapevolmente nell’intersezionalità.

«Sembra che il volto dell’altro mi faccia una richiesta etica di cui, tuttavia, non sono a conoscenza» – scrive Judith Butler (2013, p.135) chiamando in causa la nozione di ‘volto’ introdotta da Lévinas –; e, più avanti: «rispondere al volto, capirne il significato, vuol dire essere consapevoli di ciò che è precario nella vita altrui, o, piuttosto, della precarietà della vita stessa» (ivi, p. 138).

L’immagine di Dorothy nello specchio ci interpella, dunque, e ci costringe a rivedere noi stesse e la nostra condizione:

L’immagine allo specchio, dunque, è il luogo da oltrepassare per riappropriarsi di un’origine, di un destino, di un riflesso, di una sembianza in cui ri-conoscersi, per riappropriarsi di un sé frammentato [...]. Ecco perché de Lauretis titola Attraverso lo specchio un saggio sulle donne e il cinema, laddove la visione cinematografica duplica i meccanismi di costruzione dell’identità (specchio, identificazione, ansia di castrazione, complesso di Edipo…), laddove quindi la traversata dello specchio, rimandando esplicitamente al viaggio di Alice nel paese delle meraviglie, coincide con il passaggio dall’identificazione con l’immagine allo specchio al rifiuto di assimilare quell’immagine, all’apertura di uno «spazio di contraddizione», di una strategia di resistenza. Dentro e fuori dal cinema (Giovannelli, 2004, p. 17).

Non è un caso, dunque, che a questo punto del film, quando la situazione di oppressione in cui si trova Dorothy è ormai acclarata, entri in scena il personaggio di Angie: amica di Luann e di poco più grande di lei, Angie è una ragazza esuberante e allegra, attiva nelle lotte per l’emancipazione dei neri. Ella porta in dono un poster che raffigura il corpo di un uomo nero straziato da innumerevoli proiettili, manifesto di un corteo contro le violenze della polizia; in cambio Dorothy le chiede di leggere la lettera di TC.

Bush Mama è un flusso di coscienza in cui parole, immagini, suoni e pensieri si mescolano rivelando un disegno preciso: la parabola con cui una donna nera smantella la gabbia in cui è stata rinchiusa come una schiava, e giunge a una nuova consapevolezza di sé. Se, come afferma Mill, «nessun individuo è più schiavo della donna» (2010, p.7) ancor più difficile è la condizione delle donne nere, costrette in una posizione più arretrata nella scala del privilegio (ci riferiamo naturalmente a quanto espresso da Kimberlé Crenshaw nella sua teoria dell’intersezionalità). Non è un caso che mentre Angie legge la lettera, le sbarre dietro cui vediamo TC si sovrappongano a quelle del letto davanti alla finestra da cui si affaccia Dorothy [fig.6].

La voce del marito è una voce politica, che richiama la storia di oppressione in cui sono relegate le persone di origine africana («siamo ancora i figli degli schiavi»), ma afferma anche la sua volontà di ripartire costruendo delle «fondamenta solide». Le fondamenta di una casa dove non esiste più la segregazione e la violenza di classe, dove le radici sono finalmente recuperate, e il senso di perdita dismesso.

Ma si tratta ancora di un’utopia, perché Dorothy è una donna smarrita, stremata dalla povertà e dal vivere alla giornata. In Bush Mama la questione del senso di inferiorità come caratteristica del popolo nero, eredità della deportazione e della schiavitù ma anche costante dell’emarginazione, è un elemento ricorrente, che invade la vita della protagonista anche attraverso le persone che incontra e con cui interagisce. L’unica persona che non appare alienata è la giovane Angie, una sorta di portatrice di speranza che, come l’aiutante delle fiabe, dona a Dorothy un secondo poster, che lei stessa definisce «roba da militanti», un poster che viene dall’Africa e dalle sue guerre per l’indipendenza e mostra una donna che imbraccia un fucile e un bambino: una donna che – sostiene Angie – «è la madre di tutti noi» e che svolge un ruolo cruciale nel corso della narrazione [fig.7].

 

4. Casa ghetto resistenza

Dorothy rappresenta la resistenza, che per Gerima è una caratteristica tipica delle donne nere che hanno contribuito a preservare la cultura e a lottare per i diritti e la dignità di ciascuno (intervista rilasciata a D. Ricci in Immaginari in esilio, 2013). Abbiamo detto che la donna è smarrita, certo, ma non possiamo dirla debole: c’è una scena del film in cui la vediamo seduta sul solito divano mentre le parole del marito in voice over parlano della tenerezza che lei gli ha insegnato, di come lo ha abituato a controllare le proprie emozioni e a vivere la serenità domestica, perché – lui dice – «inizia tutto a casa».

Alla casa come luogo fondativo di libertà e resistenza bell hooks ha dedicato un noto saggio:

Nonostante la brutale realtà dell’apartheid razziale, della dominazione, la casa era l’unico sito dove potersi misurare in modo libero con la propria umanità, dove poter resistere. Le donne nere hanno resistito erigendo case dove tutti i neri potessero lottare per essere soggetti, non oggetti, dove potessimo confermarci nella mente e nel cuore, nonostante la povertà, la fatica, le privazioni, dove potessimo restituire a noi stessi la dignità che all’esterno, nella sfera pubblica, ci veniva negata (p. 30).

All’interno della casa Dorothy mette in atto la sua resistenza, dapprima cercando di accudire come meglio può sua figlia (si veda la scena in cui pettina Luann), poi, man mano che la sua esasperazione cresce a causa delle ingiustizie subite, compiendo il suo primo gesto di rivolta. Un gesto solo mentale, immaginato ma potente, contro l’assistente sociale che le riversa addosso tutti i suoi pregiudizi, la vuole costringere ad abortire e le fa pesare lo stigma di essere nera, povera, gravida e senza un uomo al suo fianco. La questione complessa, articolata e in gran parte irrisolta dell’autonomia riproduttiva delle donne è ancora più complicata per quanto riguarda le donne nere e in particolare nell’epoca in cui è ambientato il film. Perciò il comportamento dell'assistente sociale in Bush Mama è in questo senso paradigmatico e solleva un discorso più ampio che andrebbe indagato sia in prospettiva storica (rimandiamo ai resoconti sulla conferenza di Pechino del 1995 in ‘DWF’) sia in chiave bioetica (Moller Okin, 2007; Taglialatela, 2015). Inoltre, non va tralasciato il terribile e già citato piano di sterilizzazione delle donne nere, messo in opera con il monitoraggio della sessualità femminile e della riproduzione non bianca a partire dagli anni Trenta a Porto Rico, di cui troviamo ampia documentazione in Preciado (2015, pp. 164-169).

Se, a un certo punto della narrazione, il pulire l’appartamento funziona come gesto di rivalsa in seguito a un moto di orgoglio, e segna il principio della presa di coscienza, è solo con un’azione drastica e irreversibile come l’omicidio del carnefice, simbolo di ogni oppressore, che si può avviare il cambiamento. Un cambiamento che deve partire da sé, e da dentro, e che la donna intraprende solo alla fine, quando enuncia il suo proposito di leggere e studiare per poter cambiare le cose.

 

5. Prendere la parola

Il film ruota intorno al ruolo chiave delle donne e delle nuove generazioni, speranza di un avvenire diverso. Angie, l’amica di Luann, inizia infatti a prendere coscienza e a partecipare a manifestazioni politiche contro le violenze razziali e per l’indipendenza dei paesi africani (è utile ricordare che siamo nel periodo del rafforzamento delle lotte per la liberazione delle ex colonie portoghesi, soprattutto Angola e Mozambico). Sarà proprio Angie a portare a casa di Dorothy i due poster già decritti: dapprima quello dell’uomo nero brutalmente ucciso dalla polizia, poi quello dell’MPLA raffigurante una donna combattente che impugna un fucile, mentre tiene in braccio un bambino [fig.8]. I due riferimenti iconici insieme danno il senso della resistenza e di un’unica lotta, personale e collettiva, delle donne, dei neri e dei paesi colonizzati, contro l’oppressione e la violenza. L’utilizzo dei poster e di richiami iconici a figure di riferimento è una caratteristica ricorrente nel cinema di Haile Gerima. Inquadrati in momenti chiave del film, entrambi i manifesti partecipano alla costruzione narrativa. In una scena culminante verso la fine della pellicola, il montaggio suggerisce un parallelo tra l’aborto imposto a Dorothy (soppressione delle nuove generazioni, portatrici di possibili cambiamenti) e gli omicidi sistematici della polizia. Vengono infatti accostati un piano di Dorothy sdraiata sul lettino dell’ospedale e la sua soggettiva sul poster del cadavere steso a terra, a cui viene attribuito un respiro, come a rappresentare un’utopica resistenza vitale. In un altro momento rilevante, sullo sfondo della donna con bambino e fucile, Angie ricorda a Luann la storia dell’Africa: le parole semplici dell’adolescente suonano come un monito importante per gli spettatori, mentre sullo sfondo Dorothy lava i piatti.

In Bush Mama, dunque, il mondo esterno irrompe in casa attraverso i poster, la finestra, ma anche le lettere di TC, che riportano analisi della società via via sempre più consapevoli, e ricordano le lettere dal carcere di George Jackson (I fratelli di Soledad, 1971), e le riflessioni della protagonista in Child of Resistance.

Bush Mama, giustapponendo elementi sonori e visuali, ricuce una narrazione frastagliata, in cui la libertà dei codici narrativi e stilistici accompagna la liberazione della protagonista.

Proprio nella casa, inizialmente simbolo del suo confinamento mentale e psicologico, luogo dove interno ed esterno, personale e politico si intersecano, prende forma la sua rivoluzione, da vittima passiva a donna resistente, capace di agentività. La moltiplicazione e la frammentazione della temporalità evocano la distanza storica e culturale con cui Dorothy deve costantemente misurarsi per essere stata trasformata in una persona dislocata dal potere imperialista e coloniale degli USA (Shohat, 1997). È emblematico che il film, introdotto da suoni oppressivi – sirene della polizia, spari, rumori della città, eco di voci dei servizi sociali – che rimbombano in modo molesto nella testa di Dorothy, la quale, ammutolita, subisce varie forme di violenza sistemica, termina proprio con una sua presa di parola chiara, liberata e liberatoria. Ha ucciso non tanto l’angelo del focolare (che appartiene alla cultura bianca e borghese), quanto la donna mentalmente colonizzata – e ha rotto quelle catene metaforiche che comparivano visivamente nel film precedente, con cui si manifesta una continuità, data anche dalla persona dell’attrice –, per rinascere finalmente libera.

 

 

Bibliografia

J. Butler, Vite precarie [2004], Milano, Postmedia, 2013.

K. Crenshaw, ‘Mapping the Margins: Intersectionality, Identity Politics, and Violence against Women of Color’, Stanford Law Review, XLIII, 6, 1991, pp. 1241–99.

T. de Lauretis, Through the looking-glass in Id.Alice doesn’t. Feminism, semiotics and cinema, Bloomington, Indiana University Press, 1984, pp. 12-36.

S. Federici, N. Cox, Contropiano dalle cucine [1974], in Id., Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, Verona, Ombre corte, 2020, pp.42-62.

A. Nadia Field, JC. Horak, J. Najuma Stewart (a cura di), L. A. Rebellion. Creating a New Black Cinema, Oakland, University of California Press, 2015.

H. Gerima, ‘Triangular Cinema, Breaking Toys, and Dinknesh vs Lucy’, in J. Pines, P. Willemen (a cura di), Questions of Third Cinema, Londra, British Films Institute, 1989, pp 65-89.

F. Giovannelli, ‘Imparando a demolire la casa paterna, gli strumenti di sempre dismessi, corpi, case (instabili), immagini, (mondi) immaginari’, in G. Fanara, F. Giovannelli (a cura di), Eretiche ed erotiche. Le donne, le idee, il cinema, Napoli, Liguori, 2004, pp. 15-75.

bell hooks, Reel to Real: Race, Sex, and Class at the Movies, New York, Routledge, 1996.

bell hooks, Homeplace (a site of resistance) [1990], ora in Id., Elogio del margine, tr. it. M. Nadotti, Napoli, Tamu, 2020, pp. 62-73.

A. Lorde, The master’s tool will never dismantle the Master’s house [1980], in C. Moraga, G. Anzaldúa, This bridge called my back, Watertown, Persephone press, 1981, pp.98-101.

J.S. Mill, Sulla servitù delle donne [1869], Milano, Bur, 2010.

S. Moller Okin, Diritti delle donne e multiculturalismo, Milano, Raffaello Cortina, 2007.

N.D., ‘Pechino e dintorni - La Conferenza delle Nazioni Unite e il Forum delle donne 1995’, DWF, 25, 1995.

P. B. Preciado, Testo tossico [2008], Roma, Fandango, 2015.

 

D. Ricci, Cinémas des diasporas noires : esthétiques de la reconstruction, Parigi, L’Harmattan, 2016.

D. Ricci, «Inventivité formelle, résistance et nouveaux possibles dans deux films postcoloniaux. Hour Glass (1971) et Allah Tantou (1991)», in D. Marchiori, N. Moussaoui, ‘Lisières esthétiques et culturelles au cinéma’, Ecrans, 12, 2020, pp. 177-190.

D. Ricci, Immaginari in esilio. Cinque registi d’Africa si raccontano, documentario, 2013.

E. Shohat, ‘Cultura terzomondista: genere, nazione e il cinema’ [1997], in G. Fanara, F. Giovannelli (a cura di), Eretiche ed erotiche, Napoli, Liguori, 2004, pp. 451- 487.

E. Taglialatela, ‘I diritti riproduttivi tra genere, integrità del corpo e autodeterminazione’, in L. Chieffi, J. Ramón Salcedo Hernández (a cura di), Questioni di inizio vita. Italia e Spagna: esperienze in dialogo, Milano, Mimesis, 2015, pp. 617-638.

F. B. III Wilderson, Red, White & Black: Cinema and the Structure of U.S. Antagonisms, Durhan, NC, Duke University Press, 2010; citato in G. Thomas, ‘Dragons!: George Jackson in the Cinema with Haile Gerima - from the Watts Films to Teza’, Black Camera, IV, 2, 2013, pp. 55-83.