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  • 'Paesaggi di vita'. Mito e racconto nel cinema documentario italiano (1948-1968) →
Abstract: ITA | ENG

L’articolo analizza un corpus di opere documentarie sul Sud Italia fra gli anni Cinquanta e Sessanta – Le portatrici di pietre (Florestano Vancini, 1950), Le donne di Acquafredda (Aldo Vergano, 1957), Donne di Bagnara (Luigi Di Gianni, 1959), l’episodio Braccianti del Sud dell’inchiesta La donna che lavora (Ugo Zatterin e Giovanni Salvi, 1959), Donne di Lucania (Giovanni Vento, 1962) e Tempo di raccolta (Luigi Di Gianni, 1966) dedicato alle raccoglitrici di olive calabresi – in cui è data centralità al lavoro femminile in relazione all’ambiente e alle sue risorse naturali e umane. Le opere restituiscono, attraverso similitudini e differenze di approcci estetici, un comune intento di elaborazione della drammaturgia documentaria in ottica narrativa che mette in luce ritualità e forme di agency reciproca tra società femminile e paesaggio.

The article examines a corpus of documentary works on Southern Italy between the 1950s and 1960s - Le portatrici di pietre (Florestano Vancini, 1950), Le donne di Acquafredda (Aldo Vergano, 1957), Donne di Bagnara (Luigi Di Gianni, 1959), the episode Braccianti del Sud of the investigation La donna che lavora (Ugo Zatterin and Giovanni Salvi, 1959), Donne di Lucania (Giovanni Vento, 1962) and Tempo di raccolta (Luigi Di Gianni, 1966) dedicated to Calabrian olive pickers - in which the centrality is given to women's work in relation to the environment and between natural and human resources. The films reveal, through similarities and differences in aesthetic approaches, a common intent of elaborating documentary dramaturgy from a narrative perspective that highlights rituals and forms of mutual agency between female society and the landscape.

 

 

La paesologia non è altro che il passare del mio corpo nel paesaggio e il passare del paesaggio nel mio corpo. È una disciplina fondata sulla terra e sulla carne. Una forma d’attenzione fluttuante, in cui l’osservatore e l’oggetto dell’osservazione arrivano spesso a cambiare ruolo. Allora è la terra a indagare gli umori di chi la guarda.

La paesologia è semplicemente la scrittura che viene dopo aver bagnato il corpo nella luce di un luogo.

La paesologia è il mio modo di non arrendermi all’universale sfiatamento degli esseri e delle cose. Una forma di resistenza intima, ma non per questo priva di una sua venatura politica.

La paesologia non è la paesanologia, non è idolatria della cultura locale.

Franco Arminio, Terracarne. Viaggio nei paesi invisibili e nei paesi giganti del Sud Italia

 

 

 

 

1. Drammaturgie meridiane del lavoro femminile

Franco Cassano, nel celebre studio sul paesaggio meridiano (2003), ha messo in luce l’importanza di considerare il Sud prima di tutto come un «soggetto del pensiero» autonomo e centrale (p. 3). Basterebbe questo indirizzo per comprendere tanto cinema documentario che fra il 1948 e il 1968 ha tentato di valorizzare alcune figure umane che hanno animato quel mondo. Questa prospettiva, che il sociologo spinge verso la necessità di evitare l’«anomia generalizzata» (p. 5), sembra riassumere l’impegno di un corpus di opere con al centro l’immagine della vita delle donne lavoratrici di alcuni paesi del Meridione fra gli anni Cinquanta e Sessanta: Le portatrici di pietre (Florestano Vancini, 1950), Le donne di Acquafredda (Aldo Vergano, 1957), Donne di Bagnara (Luigi Di Gianni, 1959), l’episodio Braccianti del Sud dell’inchiesta La donna che lavora (Ugo Zatterin e Giovanni Salvi, 1959), Donne di Lucania (Giovanni Vento, 1962) e Tempo di raccolta (Luigi Di Gianni, 1966) dedicato alle raccoglitrici di olive calabresi.

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Dalle indagini antropologiche di Annabella Rossi, selezionando una serie di scatti dal suo corpus fotografico, emergono episodi e rappresentazioni di specifici microcosmi che l’antropologa romana ha saputo raccontare anche per mezzo della sua macchina fotografica. Dentro il campo di tensioni visuali a cui si è sempre esposta, si schiude con pregnante vitalità un universo femminile capace di narrare un misticismo religioso e laico insieme. La donna assurge a soggetto-chiave capace di interpretare, al di là del ruolo di custode del focolare, una dimensione religiosa necessaria per la sopravvivenza sua e della comunità rurale a cui appartiene. La ricostruzione di questa particolare iconosfera, dentro quella che la studiosa definiva una cultura della miseria, mette insieme quindi, una variegata rappresentatività femminile. Dalle immagini delle invasate, mediatrici e garanti del simbolismo magico-rituale e dell’efficacia delle formule di guarigione collettiva, giunge ai ritratti di bambine fotografate durante un pellegrinaggio o un carnevale, dirette discendenti di una religiosità che va sempre più sfumando. Dalle feste religiose, dove le pratiche devozionali ricordano riti rifondati dall’antico, alla vita collettività e al lavoro domestico, il mito e il rito s’incarnano nel femminile scandendo il quotidiano, luogo di un misticismo dentro il quale il ruolo della donna sembra rivalersi dalla società patriarcale.    

Annabella Rossi's anthropological investigations, selecting a series of shots from her photographic corpus, reveal episodes and representations of specific microcosms that the Roman anthropologist has also been able to recount through her camera. Within the field of visual tensions to which she has always exposed herself, a female universe unfolds with pregnant vitality, capable of narrating a religious and secular mysticism at the same time. The woman becomes a key-subject capable of interpreting, beyond the role of guardian of the hearth, a religious dimension necessary for her survival and that of the rural community to which she belongs. The reconstruction of this particular iconosphere, within what the scholar defined as a culture of misery, thus brings together a variegated female representation. From the images of the invaders, mediators and guarantors of magic-ritual symbolism and the efficacy of collective healing formulas, she arrives at portraits of little girls photographed during a pilgrimage or a carnival, direct descendants of a religiosity that is increasingly fading. From religious festivals, where devotional practices recall rituals re-founded from the ancient, to community life and domestic work, myth and ritual are embodied in the feminine, punctuating the everyday, the site of a mysticism within which the role of women seems to be retaliating against patriarchal society.    

 

Lo sguardo dell’antropologa Annabella Rossi (1933-1984) tiene acceso il dibattito sulle scienze umane, l’etnografia e la demologia offrendo spunti di riflessione e prospettive epistemologiche che contemplano anche l’universo delle immagini. Riaprire il caso Rossi, come avviene già da qualche anno, significa, infatti, riconsiderarla nel mestiere di antropologa e fotografa insieme, ricordarla come pioniera tra le studiose italiane nell’utilizzo dei dispositivi visuali durante le sue indagini.

Nelle mani di Annabella Rossi la fotografia – da sempre capace di rafforzare la veridicità scientifica delle indagini antropologiche (Chiozzi 2000, pp. 18-19) – non corrobora solo l’impianto metodologico ma diviene linguaggio indispensabile all’inefficacia delle parole. Se nel ruolo di sceneggiatrice il suo scrivere è stato considerato retorico, come ha dichiarato in un’intervista Luigi Di Gianni, riferendosi alla realizzazione di documentari che portavano la sua firma e la collaborazione della studiosa (Di Gianni 2014), è la stessa Rossi a dichiararsi consapevole di quanto le parole, in forma di ecfrasi e seppur calibrate, siano rese vane davanti alla cultura della miseria, incapaci di esprimere con interezza gli aspetti esistenziali che si manifestano ai suoi occhi. La condizione umana entro cui si immerge e l’impossibilità di raccontarla a parole sembrano obbligare Rossi all’utilizzo della fotografia a tal punto da farne una consuetudine: «mi sono abituata ad usare ‘naturalmente’ la macchina fotografica anche perché, a mio parere, spesso una intera pagina non riesce a documentare, né a trasmettere ciò che può una sola immagine» (Rossi 1971, pp. 26-29). Se l’impronta demartiniana rimane la cifra metodologica riconoscibile all’interno del suo lavoro, è munirsi di un ‘terzo occhio’ che le permette di leggere il senso profondo della realtà, di intuire in primis che è dallo sguardo che l’immagine trae forza e significato. Interposto tra lei e quel mondo, quindi, il dispositivo fotografico diventa un medium che mantiene a debita distanza di sicurezza l’antropologa, pur consentendole allo stesso tempo di avvicinarsi fino ad entrare in contatto con quell’umanità stigmatizzata dal dolore, dalla quale lei stessa non vorrà mai allontanarsi.

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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
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Negli anni 1964-1967, periodo che segue il miracolo economico (1958-1963) e anticipa “il lungo sessantotto” (1968-1970) - si impongono nella società italiana numerosi discorsi di pertinenza cinematografica incentrati sullo stile di vita di popolari attrici nel contesto borghese delle loro abitazioni di lusso. In un momento storico in cui la “ricchezza” si radica come valore discriminante, le testimonianze delle dive italiane riguardo le abitudini quotidiane e la gestione dello spazio domestico rivelano contraddizioni e ambiguità che mi sembra interessante indagare. Tanto più se lo spazio abitato è condiviso con un uomo influente (si pensi ai casi Sofia Loren-Carlo Ponti o Silvana Mangano-Dino De Laurentis), la cui presenza si configura come l’espressione di un patriarcato che proprio nell’intimità della condivisione degli spazi privati si fa regolatore della stessa dimensione divistica ed è, per questo motivo, difficile da scardinare. Ma anche quando la relazione privata sembra gestita in modo paritario (si pensi al caso Monica Vitti-Michelangelo Antonioni), le forme di appropriazione e controllo dello spazio domestico si caricano simbolicamente di tensioni che trovano inevitabilmente il loro riverbero nei discorsi mediatici e nella dimensione dell’arte.

In the years 1964-1967 - a period that followed the economic miracle (1958-1963) and anticipated 'the long sixty-eight' (1968-1970) - numerous discourses of cinematographic relevance centred on the lifestyle of popular actresses in the bourgeois context of their luxury homes imposed themselves on Italian society. In a historical moment in which 'wealth' took root as a discriminating value, the testimonies of Italian divas regarding their daily habits and the management of domestic space reveal contradictions and ambiguities that appear interesting to investigate. All the more so when the inhabited space is shared with an influential man (think of the Sophia Loren-Carlo Ponti or Silvana Mangano-Dino De Laurentis cases), whose presence is configured as the expression of a patriarchy that precisely in the intimacy of the sharing of private spaces becomes the regulator of the divine dimension itself and is, for this reason, difficult to unhinge. But even when the private relationship seems to be managed on an equal footing (think of the Monica Vitti-Michelangelo Antonioni case), the forms of appropriation and control of domestic space are symbolically charged with tensions that inevitably find their echo in media discourses and in the dimension of art.

A metà degli anni Sessanta, la cronaca della vita delle star italiane sui rotocalchi di maggiore diffusione popolare alimenta il radicamento di modelli di consumo che aspirano a emulare – senza toccarne le vette – quelli delle figure mediatiche maggiormente esposte.

Accogliendo la prospettiva dyeriana, secondo cui le star incarnano dialetticamente valori sociali dominanti e altri minacciati o in crisi (Dyer, 1979), l’immagine divistica di alcune attrici affermate del nostro cinema pare interpretare le contraddizioni del periodo di transizione dal miracolo economico (1958-1963) al «lungo sessantotto italiano» (1968-1970), effettuando una ‘riconciliazione magica’ di termini apparentemente incompatibili. È come se nella esibizione mediatica di un modus vivendi eccentrico e sontuoso, l’immagine di queste note attrici italiane sia stata definita attraverso antinomiche sfumature che rivelano tutta la complessità di un’epoca in via di trasformazione. Un’epoca in cui coesistono forzatamente vecchi schemi patriarcali e nuovi desideri di affermazione identitaria (Asquer, 2013). Useremo dunque il modello dyeriano per analizzare il modo in cui alcune di loro vengono mostrate quali manifestazione di tale evidente snodo problematico.

E assumeremo come focus della nostra indagine il racconto delle abitazioni di lusso di queste star, poiché ci sembra che nel resoconto della loro vita domestica si manifesti ontologicamente questa tensione. Non parliamo di case tradizionalmente borghesi, ma di luoghi inaccessibili ai comuni mortali, abitazioni sfarzose al punto da diventare iconiche quanto i personaggi che le abitano.

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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
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Dorothy è nera, povera e incinta. In seguito all’ingiusta carcerazione del marito, cresce da sola la prima figlia. A Watts (Los Angeles) lo spazio domestico non basta a proteggerla dal giogo del sistema (intrusione di assistenti sociali, brutalità osservata dalla finestra), né dalla violenza della polizia. Il mondo irrompe in casa anche attraverso le lettere del marito e poster (raffiguranti ad esempio la partecipazione delle donne/madri nelle lotte di liberazione). Proprio a casa, inizialmente simbolo del suo confinamento mentale e psicologico, luogo dove interno ed esterno, personale e politico si intersecano, prende forma la sua rivoluzione, da vittima passiva a donna resistente, capace di agentività. Bush Mama (Haile Gerima, 1975) è impregnato della ricerca estetica emblema della Scuola dei Cineasti Neri di Los Angeles, giustapponendo elementi sonori e visuali, ricuce una narrazione frastagliata, in cui la libertà dei codici narrativi e stilistici accompagna la liberazione della protagonista.

Dorothy is black, poor and pregnant. Following her husband's unjust imprisonment, she raises her first daughter alone. In Watts (Los Angeles), domestic space is not enough to protect her from the yoke of the system (intrusion of social workers, brutality observed from the window), nor from police violence. The world also breaks into the home through her husband's letters and posters (depicting, for example, the participation of women/mothers in liberation struggles). It is at home, initially a symbol of her mental and psychological confinement, a place where interior and exterior, personal and political intersect, that her revolution takes shape, from passive victim to resilient woman, capable of agentiveness. Bush Mama (Haile Gerima, 1975) is imbued with the aesthetic research emblematic of the Los Angeles School of Black Filmmakers, juxtaposing sound and visual elements, stitching together a jagged narrative in which the freedom of narrative and stylistic codes accompanies the liberation of the protagonist.

Quello che si meritava era la cella di un carcere grande quanto il suo cucinino, due metri e mezzo per due metri e mezzo, con la finestrella rettangolare abbastanza alta e abbastanza piccola per non consentirle di evadere.

Joanna Karistiani, Mille sospiri

 

I bianchi hanno trovato un modo efficace per sottomettere i neri a livello globale: costruire senza posa strutture economiche e sociali che sottraggono a molti i mezzi per farsi un focolare.

bell hooks, Elogio del margine

 

1. Bush Mama nel suo contesto di produzione

Bush Mama (1975), da subito diventato una pietra miliare nella storia del Black Cinema e non solo, è il primo lungometraggio dell’etiope Haile Gerima. Regista indipendente, conosciuto a livello internazionale per film quali, tra gli altri, Mirt Sost Shi Amit (Il raccolto dei 3000 anni, 1976), Sankofa (1993), Adwa an African Victory (1999), Teza (2008), Gerima pone al centro della sua opera la memoria, le storie e la Storia restituita da un punto di vista personale ma sempre con rigore documentario. I suoi film raccontano vite di resistenza e lotta, spesso elise dalla narrazione classica, altrimenti destinate all’invisibilità. Fervente anticoloniale, antimperialista, il suo cinema nasce dalla rabbia di fronte alle ingiustizie sociali, razziali, culturali. Da qui la sua lotta per difendere la libertà creativa, al di fuori dei canoni drammaturgici, con uno stile adatto a dire la propria condizione e un’estetica personale, nutrita in parte anche dalla tradizione culturale etiope.

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Preferisco il cinema.

[…]

Preferisco in amore gli anniversari non tondi,

da festeggiare ogni giorno.

[…]

Preferisco il tempo degli insetti a quello siderale.

W. SzymborskÄ…, Possibilità, 1986

 

1. Uno sguardo d’insieme

Sono trascorsi, d’un soffio, dieci anni dal primo pionieristico (ma timido) convegno su ‘Cinema e donne’ organizzato all’Università di Sassari: correva l’anno 2011 e il seme di quella rete di relazioni e di studi che oggi chiamiamo FAScinA era stato gettato, con la leggerezza, l’ingenua baldanza e la cura che caratterizzano i moti del desiderio. Da quel primigenio incontro sono scaturiti, negli anni successivi, progetti di ricerca, saggi su riviste e volumi, workshop e giornate di studio disseminate in molti Atenei italiani; e soprattutto da quel lontano confronto ha preso avvio il fitto network di ricerca che tiene insieme numerosissime studiose interessate a indagare il panorama del cinema e degli audiovisivi tenendo conto dei saperi, delle storie, delle soggettività e dei talenti delle donne. Tuttavia, dieci anni fa, a fronte di un contesto internazionale già assiduamente attraversato e vivificato da questo approccio, lo scenario italiano sembrava ancora refrattario: il territorio sul quale ci affacciavamo appariva come una landa vasta, addirittura sterminata, promettente come un Campo Lungo dove via via compaiono le prime incerte figure di una avventura che va prendendo forma. Sentieri selvaggi, appunto.

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L’articolo indaga le potenzialità narrative della rappresentazione dell’inespressività femminile fra pittura, cinema, letteratura e fotografia. Si rintraccia la persistenza di una specifica iconografia, in cui viene raffigurato un soggetto femminile dallo sguardo generalmente inespressivo e in cui proprio l’inespressività del volto si fa fulcro nevralgico della rappresentazione. Accompagnata da una gestualità ripetitiva, l’inespressività si carica di una componente tanto narrativa quanto emotiva tale da portare alla definizione di una vera e propria Pathosformel. Viene proposto un excursus interpretativo sull’evoluzione di questa immagine a partire da un paradigma pittorico che si afferma con la pittura impressionista e post-impressionista del secondo Ottocento, sino ad uno più propriamente cinematografico. L’attenzione si focalizza soprattutto su questa seconda fase, analizzando le potenzialità narrative dell’inquadratura cinematografica all’interno di linguaggi non cinematografici attraverso l’analisi di alcuni case studies: l’opera pittorica di Edward Hopper, il romanzo Tra donne sole (1949) di Cesare Pavese e la serie di fotografie Untitled Film Stills (1977-80) di Cindy Sherman.

This article aims at investigating the narrative potential of the female expressionless across painting, cinema, literature and photography. A specific iconography will be retraced: the representation of a female subject characterized by an expressionless gaze. Usually accompanied by a repetitive gesture, the expressionless gaze becomes the very core of the representation, thus conveying narrative and emotional components. In light of this, the iconography of female expressionless will be defined as a Pathosformel. The article will provide an overview of the representation of female expressionless between two different paradigms: the first is a pictorial one, and it established in Impressionist and Post-impressionist paintings; the second is a more cinematic one, and it will be the major focus of the article. The narrative use of cinematic frames will be related to the representation of female expressionless in non-cinematic media, such as painting, literature and photography. The analysis will focus on three case studies: Edward Hopper’s works of art, the novel Tra donne sole by Cesare Pavese, and the photographic series Untitled Film Stills by Cindy Sherman. 

All’interno di questo articolo intraprenderemo un percorso di indagine sulle potenzialità narrative di un’immagine diffusa in mezzi artistici differenti: la raffigurazione di un soggetto femminile dallo sguardo generalmente inespressivo, in cui proprio l’inespressività del volto diventa fulcro nevralgico della rappresentazione. Caratterizzata da una gestualità ripetitiva, questa immagine si carica di tratti narrativi ed emotivi tali da condurci alla definizione di un’autentica Pathosformel.

Attraverso un excursus sull’evoluzione di questa immagine, ci muoveremo a partire da un paradigma pittorico, affermatosi con la pittura impressionista e post-impressionista del secondo Ottocento, per arrivare ad uno più propriamente cinematografico. Ci concentreremo soprattutto su questa seconda fase, in cui emergono le potenzialità narrative dell’inquadratura cinematografica all’interno di linguaggi non cinematografici, come la pittura, la letteratura e la fotografia. Verranno presi in esame alcuni case studies, in particolare l’opera pittorica di Edward Hopper, il romanzo Tra donne sole (1949) di Cesare Pavese e la serie di fotografie Untitled Film Stills (1977-80) di Cindy Sherman.

L’analisi degli elementi compositivi delle immagini avverrà in un’ottica culturale, con l’obiettivo di farne emergere le componenti narrative. Un discorso sulla rappresentazione del femminile all’interno della modernità accompagnerà tutta la riflessione: metteremo in relazione le immagini analizzate con i processi di emancipazione femminile in atto fra la fine dell’Ottocento e il Novecento, rintracciandone i diversi paradigmi rappresentativi.

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