1.12. Tintarella in giardino. La casa di lusso delle dive tra status symbol e prigione sociale

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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
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Negli anni 1964-1967, periodo che segue il miracolo economico (1958-1963) e anticipa “il lungo sessantotto” (1968-1970) - si impongono nella società italiana numerosi discorsi di pertinenza cinematografica incentrati sullo stile di vita di popolari attrici nel contesto borghese delle loro abitazioni di lusso. In un momento storico in cui la “ricchezza” si radica come valore discriminante, le testimonianze delle dive italiane riguardo le abitudini quotidiane e la gestione dello spazio domestico rivelano contraddizioni e ambiguità che mi sembra interessante indagare. Tanto più se lo spazio abitato è condiviso con un uomo influente (si pensi ai casi Sofia Loren-Carlo Ponti o Silvana Mangano-Dino De Laurentis), la cui presenza si configura come l’espressione di un patriarcato che proprio nell’intimità della condivisione degli spazi privati si fa regolatore della stessa dimensione divistica ed è, per questo motivo, difficile da scardinare. Ma anche quando la relazione privata sembra gestita in modo paritario (si pensi al caso Monica Vitti-Michelangelo Antonioni), le forme di appropriazione e controllo dello spazio domestico si caricano simbolicamente di tensioni che trovano inevitabilmente il loro riverbero nei discorsi mediatici e nella dimensione dell’arte.

In the years 1964-1967 - a period that followed the economic miracle (1958-1963) and anticipated 'the long sixty-eight' (1968-1970) - numerous discourses of cinematographic relevance centred on the lifestyle of popular actresses in the bourgeois context of their luxury homes imposed themselves on Italian society. In a historical moment in which 'wealth' took root as a discriminating value, the testimonies of Italian divas regarding their daily habits and the management of domestic space reveal contradictions and ambiguities that appear interesting to investigate. All the more so when the inhabited space is shared with an influential man (think of the Sophia Loren-Carlo Ponti or Silvana Mangano-Dino De Laurentis cases), whose presence is configured as the expression of a patriarchy that precisely in the intimacy of the sharing of private spaces becomes the regulator of the divine dimension itself and is, for this reason, difficult to unhinge. But even when the private relationship seems to be managed on an equal footing (think of the Monica Vitti-Michelangelo Antonioni case), the forms of appropriation and control of domestic space are symbolically charged with tensions that inevitably find their echo in media discourses and in the dimension of art.

A metà degli anni Sessanta, la cronaca della vita delle star italiane sui rotocalchi di maggiore diffusione popolare alimenta il radicamento di modelli di consumo che aspirano a emulare – senza toccarne le vette – quelli delle figure mediatiche maggiormente esposte.

Accogliendo la prospettiva dyeriana, secondo cui le star incarnano dialetticamente valori sociali dominanti e altri minacciati o in crisi (Dyer, 1979), l’immagine divistica di alcune attrici affermate del nostro cinema pare interpretare le contraddizioni del periodo di transizione dal miracolo economico (1958-1963) al «lungo sessantotto italiano» (1968-1970), effettuando una ‘riconciliazione magica’ di termini apparentemente incompatibili. È come se nella esibizione mediatica di un modus vivendi eccentrico e sontuoso, l’immagine di queste note attrici italiane sia stata definita attraverso antinomiche sfumature che rivelano tutta la complessità di un’epoca in via di trasformazione. Un’epoca in cui coesistono forzatamente vecchi schemi patriarcali e nuovi desideri di affermazione identitaria (Asquer, 2013). Useremo dunque il modello dyeriano per analizzare il modo in cui alcune di loro vengono mostrate quali manifestazione di tale evidente snodo problematico.

E assumeremo come focus della nostra indagine il racconto delle abitazioni di lusso di queste star, poiché ci sembra che nel resoconto della loro vita domestica si manifesti ontologicamente questa tensione. Non parliamo di case tradizionalmente borghesi, ma di luoghi inaccessibili ai comuni mortali, abitazioni sfarzose al punto da diventare iconiche quanto i personaggi che le abitano.

1. Il sogno di una casa

Nei primi vent’anni del dopoguerra, in Italia come in tutta Europa, la casa era stata un’irrinunciabile dimensione del desiderio collettivo. E conseguentemente lo sviluppo della cultura materiale domestica era stato caratterizzato dalle riflessioni sul welfare state e dalla sfida globale lanciata dal modello americano di cittadinanza dei consumi. Superata la fase del boom, in cui i discorsi erano incentrati sulla dignità delle abitazioni, la loro luminosità e il riscaldamento, la presenza di servizi igienici e di uno spazio idoneo ad accogliere i nuovi ritrovati della tecnologia, a metà degli anni Sessanta, con il proliferare di manuali di economia domestica e di rubriche giornalistiche di arredamento, si era oramai diffusa una editoria di consumo prettamente femminile che attraverso un dibattito aperto tra designer, architetti, scenografi, produttori di oggettistica e mobilio, ma anche, su più larga scala, per mezzo dei racconti delle case di personalità popolari come le star del cinema, aveva favorito il processo di costruzione mediatica di nuove tipologie di spazio domestico. D’altronde, come ci ricorda Paul Ginsborg, proprio in quegli anni il paesaggio rurale e urbano, così come le dimore dei suoi abitanti e i loro modi di vita stavano cambiando radicalmente (Ginsborg 1989).

Le straordinarie ville dei divi di Hollywood non erano più le sole espressioni del lusso abitativo: l’uso si era diffuso anche fra i nostri divi più celebri, personaggi del cinema, della televisione, della musica leggera, che si affacciavano d’improvviso dalle pagine di una rivista illustrata, sperduti negli immensi saloni della propria casa, nei vasti giardini della propria villa [fig. 1].

Ci interessa particolarmente soffermare l’attenzione su alcuni casi eccezionali che riguardano attrici celebri del nostro cinema, raccontate attraverso il loro modo di vivere questa peculiare tipologia di abitazione. Spesso, infatti, le testate giornalistiche scelgono di mostrarle dentro le loro residenze, il più delle volte lussuosamente ostentate per raccogliere l’ammirazione dei lettori. E nel rivelarne l’intimità, mostrano lo spazio domestico davvero come un ‘laboratorio femminile’ in cui si affina un caleidoscopio di pratiche e pensieri sfaccettato e conflittuale.

Ci soffermeremo su tre casi distinti, senza alcuna pretesa di essere esaustivi e con l’auspicio che questa incursione nel privato delle star possa aprire alla ricerca nuovi varchi di conoscenza.

Il primo caso riguarda Sofia Loren, che alla metà degli anni Sessanta, appare regina della casa come una qualunque casalinga moderna, nonostante viva in una reggia degna di Xanadu, assolutamente impareggiabile rispetto a qualsiasi altra abitazione borghese.

Il secondo riguarda Silvana Mangano, divisa tra la sontuosa Villa Catena a Poli e la Villa al mare a Cap Marin in Costa Azzurra, ma soprattutto scissa tra il dovere di far soldi recitando e il desiderio di chiudersi in una silenziosa intimità familiare.

Con le opportune differenze, il terzo riguarda Monica Vitti che, negli stessi anni e prima ancora dell’iconica Cupola di Bini in Sardegna, vive la nota e travagliata relazione sentimentale con Michelangelo Antonioni nello spazio fisico di due eleganti appartamenti indipendenti.

Lontana da quella delle personagge interpretate per il grande schermo, la vita reale di queste donne viene raccontata sui rotocalchi alimentando una immagine divistica tradizionalmente (ancora in senso dyeriano) contraddittoria. Il loro modo di vivere la casa manifesta la tensione tra la conservazione delle funzioni muliebri del passato e l’ambizione all’autonomia e all’affermazione di sé che troverà più ampio radicamento negli anni Settanta. Regine del focolare, queste donne sono ammirate perché occupano una posizione di potere e hanno uno stile di vita impareggiabile. Tuttavia, appare evidente che il loro ruolo sia stato determinato dall’impegno economico di un uomo potente, un marito, un produttore o un regista di successo, che si fa garante di uno status altrimenti non riconosciuto.

2. Sophia Loren: sposa devota nella ‘casa più bella del mondo’

Ufficializzata la loro relazione, Sophia Loren e Carlo Ponti, dopo un primo periodo vissuto in un appartamento di Palazzo Colonna in via Teatro di Marcello, nel 1960 si trasferiscono nella vecchia residenza dei marchesi Gabrieli, Villa Sara, a Marino. Il giorno in cui si sposarono (per procura in Messico nel 1957) il produttore aveva promesso che avrebbe comprato per sua moglie quella che sarebbe stata definita «la casa più bella del mondo». Ci vollero sette anni per terminare i lavori, ma le case dei sogni, si sa, richiedono tempo.

La meravigliosa villa settecentesca situata nel Parco dell’Appia Antica, nel cuore della Capitale, era talmente maestosa che nel 1964 la rivista americana «Life» le dedicò un intero servizio, che contribuì in breve tempo a rendere la splendida dimora famosa oltreoceano, oltre che in Italia [fig. 2].

Nel periodo in cui fu abitata dalla celebre coppia, la villa comprendeva 50 stanze, un cinema, una lussuosa piscina, una foresteria e persino una cappella privata. La difficoltà di risiedere in uno spazio tanto grande è evidente nei numerosi racconti che la stampa dedica alla dimora e alla sua padrona di casa.

Molte rubriche dedicate alle case delle star mostrano gli ambienti esclusivi di quella villa, le decorazioni pregiate e i mobili preziosi, parlano di architetti e arredatori ma anche di ospiti eccellenti. L’immagine di Loren che emerge, attraverso questi servizi fotografici (s.a.,1964: p. 42), è diversa a seconda che si voglia raccontare la sua accogliente ospitalità, le sue doti culinarie, il suo fascino irraggiungibile negli abiti più glamour, la sua presunta tirchieria nel gestire le economie domestiche (s.a., 1965: p. 50). Tanti aspetti diversi e complementari che ci parlano di una donna autonoma capace di gestire ospiti e servitù ma anche di una brava mogliettina asservita a un padrone di casa ricco e potente. Nelle dichiarazioni dell’attrice, infatti, la villa, regalatale dal marito, è un luogo confortevole in cui si sente protetta entro un rigido schema patriarcale. «La maggior parte delle persone ha due case nella vita», dice, «una in cui crescono e l’altra in cui si trasferiscono quando si sposano. Non ho mai avuto quel tipo di casa da bambina, e ora la villa mi dà sicurezza e un tipo di tradizione» (Hamblin, 1964: p. 82). Nelle foto che arricchiscono l’importante servizio giornalistico di «Life», l’attrice abbraccia il marito mostrando «solenne gratitudine» per quella che descrive come la sua «prima vera casa». Viene inoltre immortalata nell’atto di raccogliere fiori per la scrivania di Ponti [fig. 3]. Ma poi la si vede in un regale abito Dior arricchito da una collana di diamanti e rubini, mentre nel soggiorno principale affrescato, accanto a un tavolo di marmo ricavato da un’enorme pietra trovata nelle catacombe della villa, intrattiene il regista italiano Vittorio de Sica, sua moglie e Marcello Mastroianni. L’immagine pubblica (Small, 2009) di Loren porta con sé le contraddizioni di un’intera epoca (Gundle, 1995: 380). Docile sposa devota e insieme sofisticata diva del jet set, si mostra come simbolo di valori tradizionali entro le mura della casa più bella del mondo, ambita dalla moderna e rampante borghesia internazionale.

3. Silvana Mangano: tra abbagli del jet set e tenebre interiori

Nel 1949 Silvana Mangano sposa il produttore Dino De Laurentiis. Quella che negli anni Cinquanta e Sessanta sarà chiamata «la coppia reale del cinema italiano», dopo aver vissuto in una magnifica villa in via dei Metelli sull’Appia Antica, nel 1964 si trasferisce a Villa Catena, a Poli (lascerà quella dimora nel 1976). Fu l’amore per Mangano a spingere il produttore ad acquistare una casa tanto sontuosa. Costata circa un miliardo, De Laurentiis dovette spendere un occhio della testa per ristrutturarla. Sui rotocalchi si parlava spesso di soldi, di quanto le case fossero costate ai loro proprietari, delle cifre necessarie per il mantenimento di proprietà tanto esclusive.

In quegli anni, Villa Catena godette di molta popolarità, forse ancor più della Villa a Marino di Loren e Ponti. La bellezza del complesso monumentale portò De Laurentis a sceglierlo come location per molti suoi film, nei quali ancora oggi si possono riconoscere meravigliosi scorci della villa [fig. 4].

Al di là del racconto degli straordinari spazi e delle lussuose decorazioni, sulle riviste questa roccaforte viene raccontata come il luogo del rigore e della disciplina, dentro le cui mura si rivela la tensione insita nella personalità di Mangano divisa tra la diva e la donna, l’attrice acclamata e la madre devota. «Silvana Mangano è davvero una mamma più che un’attrice» si legge su «Annabella», «Non si è mai compiaciuta, infatti, di ostentare i figli come un attributo del suo prestigio; ma vive il più possibile vicino ai suoi bambini, occupandosi di tutto quanto li riguarda» (Kezich, Levantesi 2001).

Oltre alla prestigiosa abitazione alle porte di Roma (s.a., 1963: p. 30), la coppia celebre è proprietaria di una villa al mare a Cap Marin in Costa Azzurra che diviene set privilegiato delle feste più esclusive dell’epoca (s.a., 1960: p. 5). Nelle immagini che circolano sui rotocalchi, le due dimore sono i luoghi in cui una cerchia ristretta di artisti predilige trascorrere le vacanze sotto il controllo scrupoloso dell’attrice. In tutte le occasioni mondane Mangano è sempre perfetta nel ricevere i suoi ospiti. Inappuntabile nel suo ruolo di madre, impone ai figli un comportamento rigoroso e pretende che siano sempre sorridenti, affabili e composti. Impeccabile nel suo ruolo di moglie, fa di tutto per restituire all’esterno un’immagine di famiglia felice [fig. 5]. Ma nell’intimità dello spazio domestico, tende all’isolamento, rifiuta le interviste, si dedica agli adorati figli con anaffettivo ed estremo rigore e, con altrettanta perizia, ai suoi passatempi preferiti come il ricamo, la lettura, la musica. Spesso tormentata dall’insonnia, si chiude nelle sue stanze ammantate dall’oscurità di finestre e tende serrate e spesso capita che resti immobile a guardare nel vuoto, avvolta dal profumo delle tuberose. Questa «enigmatica sfinge, che seduta in un angolo di Villa Catena lavora al tombolo e fuma sigarette» (Schmidlin, 2017) non ricambia l’amore che il cinema le tributa e vorrebbe non essere una star. Più volte ha dichiarato di fare film solo per denaro nella posizione di assoluto privilegio in cui il marito l’ha inchiodata.

Come nel caso di Loren, la stagione del successo e della fama di Silvana Mangano coincisero con la vita in queste regge. Quando le vicende private portarono la coppia alla rottura, alla crisi corrispose anche con un cambio di residenza. Villa Catena con il tempo e, soprattutto, per la malinconica Mangano, stava rappresentando oltre che un costoso onere, anche un ostacolo nella gestione quotidiana dei rapporti con il cuore della vita intellettuale romana (Slickey, 1963: p. 56). Silvana decise di acquistare un pied-à-terre a Piazza di Spagna, e questa scelta provocò la disapprovazione del marito. «Quando mi disse che voleva prendersi un appartamentino a Piazza di Spagna, mi arrabbiai. Ma come, io per amore suo ero finito a Villa Catena, le avevo messo su una reggia, e lei adesso se ne andava ad abitare sola, da un’altra parte! Le dissi che ero contrario, contrarissimo. Lei ha insistito, io ho ceduto però qualcosa dentro di me si è rotto. Tanto che sono tornato a Villa Catena con l’intenzione di fare le valigie e andarmene» (Kezich, Levantesi 2001). De Laurentiis partì per gli Stati Uniti, abbandonò Poli e con lei l’amore per la dama di Villa Catena. La dimora ebbe una gloria straordinaria quanto transitoria, e a metà degli anni Settanta cadde in un definitivo stato di abbandono.

4. Monica Vitti: la casa moderna come teatro di scontro

Il periodo che stiamo indagando si caratterizza per la fruttuosa intesa tra registi e architetti che si condizionano a vicenda e spesso collaborano alla realizzazione di opere innovative. È un periodo in cui il modernismo di alcune soluzioni edilizie entra prepotentemente nei racconti filmici, fungendo da quinta per la rappresentazione di una società colta in una fase di problematica evoluzione. Monica Vitti è stata l’attrice italiana che meglio è riuscita a incarnare tale complessità sullo schermo e fuori dal set (Borsatti, 2022; Ricci, 2022) [fig.6]. È noto che la sua statura artistica si sia affermata attraverso il rapporto professionale e privato con Michelangelo Antonioni. Il regista ha reso il suo corpo d’attrice iconico e rappresentativo di un’epoca, lavorando frequentemente sulla capacità dell’interprete di dare senso allo spazio e di caricare le immagini dei film di un valore misteriosamente simbolico (Cardone, 2017).

Tra le vare tipologie di spazio presenti nelle opere del regista, quello domestico è stato spesso luogo di espressione della sfera intima dell’attrice. L’immagine pubblica di Vitti a questa altezza corrisponde a quella delle protagoniste dei suoi film. Busni ci ha ricordato che il passaggio da «tutto quello che mi capita è la mia vita» a «la storia del film appartiene alla mia vita» per Vitti è quasi automatico (Busni, 2019). Riteniamo, infatti, che a differenza dei casi di Loren e Mangano, la narrazione del suo stile di vita e del suo rapporto con lo stesso regista sia stata condizionata dalla modernità dei film che ha interpretato.

Sin dagli inizi degli anni Sessanta, la stampa ha raccontato il tormentato rapporto tra attrice e regista provando ad entrare nell’intimità di uno spazio domestico figlio dei tempi, facendo emergere una presunta indipendenza da rigidi schemi familiari.

«Sul Tevere, non lontano da Ponte Milvio, Michelangelo Antonioni e Monica Vitti sono impegnati in un duello pericoloso. Hanno comprato due appartamenti nella stessa palazzina, lui sotto, lei al piano di sopra, ed ora fanno a gara a chi avrà la casa migliore. Se Antonioni ha un tappeto, Monica ne compra due, se Monica ha una chimera cinese, Antonioni compra due maschere precolombiane; impossibile fermarli…» (s.a., 1961). Il duello si consuma tra fossili recuperati durante le riprese de L’avventura e vasi di cristallo acquistati da Tiffany a New York. In una delle immagini apparse su «L’Espresso» Vitti sfoggia un raffinato chemisier bianco, lo stesso che indossa frequentemente nei film interpretati in quel periodo.

Nel cuore dei Sessanta, entro questa assoluta assenza di soluzione di continuità tra arte e vita, la coppia Antonioni Vitti pare rappresentare un modello di relazione libera benché burrascosa, una passione che si consuma selvaggiamente come selvaggio è il contesto della Sardegna più autentica in cui sarà edificato il più esotico dei rifugi d’amore. Una lussuosissima casa da film, costruita vicino al mare a Costa Paradiso, nel Nord della Sardegna, di fronte al Golfo dell’Asinara, la cui costruzione iniziò nel 1964 durante le riprese de Il deserto Rosso. In quell’occasione Antonioni scoprì un luogo speciale, allora incontaminato, dove decise di edificare la sua residenza estiva. Qualche anno dopo ne affidò la committenza all’architetto Dante Bini, che Monica Vitti aveva conosciuto nel 1968 durante le vacanze a Cortina d’Ampezzo. Bini, protagonista del secondo Rinascimento creativo innescato dal boom economico, le aveva parlato del suo progetto, tecnologicamente innovativo, che prevedeva la realizzazione di una cupola attraverso un’unica colata di cemento gonfiata e sollevata grazie a una camera d’aria. E fu Vitti a convincere Antonioni ad affidarsi a lui per la realizzazione di un’opera unica nel suo genere. La Binishell venne completata solo nel 1971, e venne frequentata da Michelangelo e Monica solo per un breve periodo che coincise con lo spegnersi della fiamma intermittente del loro rapporto. Un altro monumento in abbandono, le cui malinconiche mura rievocano storie di vita straordinarie, oltre alla nostalgia per una passione tormentata. Per molti anni aveva rappresentato il sogno di un amore, il ritrovo esclusivo per artisti e intellettuali in cui isolarsi dal resto del mondo, ma soprattutto un luogo simbolico, capace di esprimere la sfera intima dell’attrice.

Finita la stagione antonioniana (prima il sodalizio creativo, poi la relazione sentimentale), in diverse interviste Vitti si mostra scissa e angosciata (Vitti, 1993). È il 1968 quando sulle pagine di «Annabella», nonostante le bellissime fotografie la ritraggano in Costa Smeralda, l’attrice dichiara di non essere ricca, di non possedere ville al mare e di non potersi permettere gli abiti di lusso che sfoggia nei film (Mori, 1968: p. 34). Una presa di distanza dall’immagine di lei restituita dalla stampa negli anni precedenti che coincide con il passaggio alla commedia. Un genere al maschile in cui, ci ricorda Fanara, le interpretazioni di Vitti sanno esprimere il disagio delle donne che vogliono cambiare, sognare e affermare inedite forme identitarie (Fanara, 2018). Attraverso la parodia, sarà lei, nei corpi imprevisti (o imprevedibili) delle sue personagge, a sfidare il potere maschile (Cardone, 2017) e a provare a cambiare la gerarchia valoriale sulla quale scommettere. Innescando, così, nelle nuove donne italiane, «fantasie identificatorie» (Stacey, 1994) fondate su presupposti ideologici dirompenti e provocatori, benché, ancora, inevitabilmente conflittuali.

 

Bibliografia

 

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