Sentieri selvaggi. Cinema e Women’s Studies in Italia

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Preferisco il cinema.

[…]

Preferisco in amore gli anniversari non tondi,

da festeggiare ogni giorno.

[…]

Preferisco il tempo degli insetti a quello siderale.

W. Szymborską, Possibilità, 1986

 

1. Uno sguardo d’insieme

Sono trascorsi, d’un soffio, dieci anni dal primo pionieristico (ma timido) convegno su ‘Cinema e donne’ organizzato all’Università di Sassari: correva l’anno 2011 e il seme di quella rete di relazioni e di studi che oggi chiamiamo FAScinA era stato gettato, con la leggerezza, l’ingenua baldanza e la cura che caratterizzano i moti del desiderio. Da quel primigenio incontro sono scaturiti, negli anni successivi, progetti di ricerca, saggi su riviste e volumi, workshop e giornate di studio disseminate in molti Atenei italiani; e soprattutto da quel lontano confronto ha preso avvio il fitto network di ricerca che tiene insieme numerosissime studiose interessate a indagare il panorama del cinema e degli audiovisivi tenendo conto dei saperi, delle storie, delle soggettività e dei talenti delle donne. Tuttavia, dieci anni fa, a fronte di un contesto internazionale già assiduamente attraversato e vivificato da questo approccio, lo scenario italiano sembrava ancora refrattario: il territorio sul quale ci affacciavamo appariva come una landa vasta, addirittura sterminata, promettente come un Campo Lungo dove via via compaiono le prime incerte figure di una avventura che va prendendo forma. Sentieri selvaggi, appunto.

John Ford, Sentieri Selvaggi [The Searchers], 1956. Fotogramma

Da qui la scelta di far risuonare, dal fondo di questa ricognizione che guarda al presente e al futuro senza scordare i suoi cominciamenti, una eco Western, capace di evocare, da un lato, il titolo originale del celebre film di Ford, The Searchers, così vicino al nostro lavoro; e dall’altro, con qualche ironia, di risignificare un paesaggio tradizionalmente deserto di presenze femminili, e lungamente ritenuto inadatto alle donne. Eppure nessun genere quanto il Western ha saputo, nell’arco amplissimo della sua storia, tener dietro ai cambiamenti del circostante ed accogliere nelle sue trame l’emergere di nuove questioni e soggettività.

John Ford, Sentieri Selvaggi [The Searchers], 1956. Fotogramma

In questo senso, la frontiera del West e le stanze dell’accademia si somigliano, giacché negli ultimi tempi anche i luoghi della ricerca si sono popolati di corpi ‘altri’, aprendosi a temi e investigazioni differenti. Lo confermano i testi qui raccolti, che mostrano quanto gli studi sul cinema delle donne e sulle donne nel cinema si siano radicati e ramificati nei Film Studies, toccando zone oscure, inesplorate o taciute, e ribaltando talvolta assunti e quadri di riferimento dati per definitivi.

John Ford, Sentieri Selvaggi [The Searchers], 1956. Fotogramma

Le pagine che seguono offrono una sorta di istantanea delle ricerche in corso, evidenziando la variegata fioritura dei Women’s Studies cinematografici, che non soltanto hanno dato origine a progetti PRIN interamente incentrati su questa prospettiva – è il caso di D.A.M.A. Drawing a Map of Italian Actresses in Writing, damadivagrafie.org; ma abitano anche altri progetti, disegnando nella cartografia delle investigazioni in atto una fortissima attenzione al lavoro e al ruolo delle donne, come mostrano i contributi di Maria Ida Bernabei, Laura Cesaro, Malvina Giordana e Jennifer Malvezzi, radunati in queste pagine, che discendono dai PRIN M.M.C. 49’76, Modes, Memories and Cultures of Film Production In Italy (cineproduzione.uniud.it), e Per una storia privata della critica cinematografica italiana, coordinati rispettivamente da Mariapia Comand e Michele Guerra. Una analoga attenzione è parimenti ravvisabile sul versante internazionale, come testimonia il progetto DETECt (detect-project.eu), finanziato dall’Unione Europea nel programma Research and Innovation di Horizon 2020 e capitanato da Monica Dall’Asta, dal quale si origina la riflessione di Elena D’Amelio e Valentina Re dedicata al protagonismo delle detective nelle serie tv di genere crime. Infine, pure lo scritto di Carla Mereu Keating nasce nell’ambito di un progetto europeo (STUDIOTEC: Infrastructure, Culture and Innovation in Britain, France, Italy and Germany, 1930-60) e mira a scandagliare i rapporti fra lo spazio architettonico degli Studios e i flussi di lavoro gendered.

In tutti i casi, indagare il campo cinematografico e mediale a partire dalle donne consente di porre in primo piano le pratiche concrete, il mondo e i modi del fare, compresi quelli sottili, a tratti invisibili, delle professioni ‘minori’ e sfuggenti, abitualmente affidate alla manodopera femminile. Grazie a questi inediti affacci si comincia a profilare un quadro più complesso – non facilmente decifrabile ma fecondo di spunti – del funzionamento materiale, dei meccanismi lavorativi e dei rapporti di forza che innervano il comparto della creatività audiovisiva. Del resto, guardando agli esiti editoriali degli ultimi tempi, sono numerose le iniziative che muovono in questa direzione: si pensi, citando in ordine sparso e senza pretese di esaustività, al testo sugli Ephemera (Comand e Mariani 2019), alle indagini sulle presenze femminili nei vari ambiti della produzione mediale e cinematografica (Pravadelli 2014; Cardone, Jandelli e Tognolotti 2015; Casalini 2016; Buffoni 2018; Barca e Spada 2019; Marcheschi e Simi 2021), e agli affondi su singole e brillanti personalità (Cutzu 2019; Simi 2020; Rimini 2021).

Nel suo insieme la risonante galleria che proponiamo ci consegna una mappa discontinua, perché ancora foriera di notevoli sviluppi, nella quale spiccano alcuni temi e motivi ricorsivi, a partire dalle riflessioni incentrate sulle professioniste, sul lavorio minuto svolto con tenacia e discrezione da numerosissime donne attive nei diversi ambiti della costruzione dell’artificio. Sul versante opposto, votati alla massima visibilità, brillano invece i corpi e i volti delle attrici, alle quali gli Women’s Studies cinematografici continuano a guardare con insistenza, nel tentativo di scardinare il radicato fraintendimento che confina la performance attoriale in una zona di minorità splendente, dove essere oggetto di sguardo significa, in definitiva, perdere le prerogative della soggettività. Nello scenario qui tratteggiato, i territori della sperimentazione, con la loro audacia marginale e libertaria, assumono un rilievo straordinario giacché fin dalle origini, dal passato oscuro del cinema, potremmo dire, per arrivare alla contemporaneità più prossima, sono abitati da autrici curiose e spericolate, pronte a ingaggiare un corpo a corpo con i linguaggi delle arti, con la variabilità degli schermi, piccoli e grandi, con le trasformazioni dei formati e dei supporti, dalla tela, al monitor ai pixel. Fra tutti, è l’inesausto e trasversale esercizio della scrittura il filo sottile che cuce insieme, con impareggiabile resistenza, le esperienze di ieri e quelle di oggi, la brillantezza delle star e l’opaca operosità delle donne impegnate nelle professioni tecniche. Difatti, a ben guardare, tutte hanno lasciato dietro di sé una lunga scia di parole, un tappeto croccante di pagine che ci consente di cogliere il cinema e il loro lavoro nel quotidiano e incessante vortice delle esistenze. E non è forse un caso, dunque, che quell’antico convegno sassarese dove tutto è cominciato fosse dedicato ai rapporti fra lo schermo e le scritture femminili (Cardone e Filippelli 2011).

 

2. Figure, gesti, scritture

I Film e i Media Studies appaiono osservare dall’alto i corpi e le narrazioni delle dive per disporli in arcipelaghi dalle forme variegate; se li si guarda più da vicino, come accade negli studi qui raccolti, si distinguono motivi e dettagli – gesti, posture, volti, grafie – che rendono ogni attrice unica e tuttavia assonante con le altre.

Lo studio delle dive ha occupato a lungo un luogo centrale anche se controverso negli Women’s Studies, ché a lungo le si è ritenute – sulla scorta di una lettura restrittiva di Laura Mulvey (1978) – semplici specchi delle soggettività e dei desideri maschili e dunque prive di qualsiasi agency. Al contrario, molte ricerche apparse negli ultimi anni hanno mostrato come i corpi e i volti delle stelle raccolgano e rilancino una moltitudine di rimandi all’immaginario culturale, sociale, politico sia del tempo al quale appartengono sia dalla prospettiva cronologica dalla quale ci sporgiamo su di loro (Cardone, Maina, Rimini e Tognolotti 2017; Tognolotti 2021); e la ricostruzione delle loro vite, dentro e fuori il rettangolo dello schermo, illumina personalità brillanti e spregiudicate, che non di rado hanno saputo ridisegnare i confini dei territori, sovente ristretti, delle femminilità, indicando strade nuove a coloro che le ammiravano (Cutzu 2019; Jandelli [2006] 2019; Mariani 1990; Simi 2020). Così, accanto alle modalità definite dagli Star Studies nell’ormai classico contributo di Richard Dyer (2009 [1979]; ma cfr. anche McDonald [2013] 2020; Jandelli 2003) il riferimento non può che essere il pensiero di Michel Foucault nel suo mettere a tema l’idea del corpo come «luogo culturale», modellato non dalla biologia ma dall’immaginario, tessitura fitta di saperi, norme, politiche, leggi e pratiche di assoggettamento; accanto alle riflessioni di Judith Butler, nella cui scrittura si coglie l’apparire di corpi percorsi da dinamiche di cultura e di potere che regolano il farsi del genere e il suo darsi come performance (Butler [1990] 1999; Foucault [1977] 1984).

In questa prospettiva, Simona Busni muove alla ricerca delle figure di mistiche nel cinema italiano dipanando suggestioni di Simone Weil e Luce Irigaray, e disegna un «impasto iconografico» coagulato sul paradigma della ‘straniera’ Ingrid Bergman nei film con Roberto Rossellini: «una donna sradicata, esclusa, fuori contesto, che parla una lingua incomprensibile e che manifesta i tratti eccezionali della sua diversità nella fisionomia e nei comportamenti». Pioniere del linguaggio e del silenzio, le mistiche si radicano a terra per svettare verso il cielo; si abbassano nel non-detto per agguantare una lingua diversa, aliena e per questo libera.

Cristina Jandelli esplora le risonanze del cinema italiano degli anni Sessanta nella costruzione drammaturgica e nei caratteri delle personagge di La pazza gioia (P. Virzì, 2016) sospese tra erranza, neorealista e moderna, e codici commedici. Secondo la studiosa Donatella/Ramazzotti e Beatrice/Bruni Tedeschi sembrano far rivivere le dinamiche che contrapponevano Masina e Magnani in Nella città l’inferno (A. Castellani, 1959) e al contempo replicare il contrasto Bruno/Roberto (Gassman/Trintignant) messo in gioco da Il sorpasso (D. Risi, 1962); ma la rete di relazioni tra donne e «il sé ritrovato in una forma duale» fa emergere delle «immagini potenti di donne immerse nei flutti, alla ricerca non della morte ma di una nuova posizione di sé nel mondo».

Volgendosi alle scritture, nell’ottica promettente delle divagrafie, Elena Mosconi rintraccia le radici delle autobiografie d’artista negli «autoritratti su misura» composti dalle prime donne del teatro ottocentesco, intesi a costruire una identità narrativa da consegnare a chi verrà dopo di loro. Così si e ci immerge nelle memorie di alcune dive – Lina Cavalieri, Anna Fougez, Mimy Aimler – che, nate sui palcoscenici, nei primi anni del Novecento si affacciano sugli schermi del cinema; ciascuna a suo modo, nelle scritture autobiografiche, disegnano un percorso comune nel segno della costruzione consapevole di personalità divistiche singolari eppure accomunate dal loro squadernare talenti femminili plurimi e multiformi.

Federica Piana si sofferma sul modo della autobiografia, genere per molti aspetti negletto e per questo dal respiro più libero, aperto alle dissonanze rispetto al canone. In particolare sono i racconti di vita di Lina Sastri e Paola Pitagora ad attirare l’attenzione della studiosa, intenta a decifrarne le modalità relazionali e le aperture all’altro/altra da sé che informano le loro parole.

Dal canto suo, Giulia Simi propone un itinerario inedito e affascinante dentro le scritture delle attrici, là dove le loro parole s’intrecciano ai modi dell’arte intesa «come spazio di relazione vitale con la realtà, dove è proprio l’attenzione, espansa in accezioni che vanno dall’abilità di concentrazione e di resistenza, fino alla messa a rischio di sé, a segnarne i confini». Così Catherine Spaak insegue la fantasticheria di confondersi con le figure di un quadro di André Delvaux; Lucia Bosé ricorda il fascino arrogante di Pablo Picasso; e Paola Pitagora ripercorre la storia d’amore con il pittore Renato Mambor, concentrandosi sull’eco tra gesto attoriale e performance artistica.

La scrittura di Elsa de’ Giorgi nella relazione tra parola letteraria e teoria della recitazione è al centro dell’intervento di Corinne Pontillo. L’autrice prende le mosse dalla protagonista di Storia di una donna bella, Elena, attrice di cinema e teatro, per indagare uno snodo, centrale quanto poco noto, della riflessione critica di de’ Giorgi sulla differenza tra i modi della performance sul set e sul palcoscenico – più fredda e spersonalizzante la prima, più coinvolgente e calda la seconda.

Di taglio particolarmente originale l’affondo di Marina Zanco, che muove sulle tracce della scrittura ‘astrologica’ di Lisa Morpurgo, autrice di volumi sullo zodiaco e che infonde questo suo sapere nelle sceneggiature alle quali collabora, come Una spirale di nebbia (1977) di Eriprando Visconti, aprendola a sfumature inedite.

Dalle scritture ai gesti. Marga Carnicé Mur esplora le posture di Anna Magnani in un corpus di film successivi a Roma città aperta, schivando con agilità i luoghi comuni della performance ‘spontanea’ e ‘naturale’ e rintracciando invece alcune costanti performative. «Mogli e amanti senza controcampo», ovvero figure solitarie dentro la sequenza che non hanno più bisogno di trovare una eco nel personaggio maschile, i corpi delle personagge incarnate da Magnani sono desideranti; i loro gesti fanno traboccare dallo schermo un eccesso che, anche se punito da un ritorno all’ordine imposto dal finale del racconto, sembrano gridare alle spettatrici «un messaggio di ribellione, a volte tragico, ma sempre complice e catartico», finendo per appropriarsi di quello che i film non consentono loro: «l’ascesa, l’emancipazione, la ricchezza, il potere inteso come libertà».

Laura Vichi si immerge nelle pagine di riviste italiane e francesi alla ricerca dei racconti divistici dedicati a Elena Varzi, scavalcando il facile cliché della «moglie di Raf Vallone», pure frequente negli articoli a lei dedicati. La studiosa prova a ricostruire un profilo più complesso dell’attrice esplorandone i gesti e le posture, intesi a introdurre variazioni sul tipo della «siciliana» schiva e pudica che aveva incarnato in Il cammino della speranza (P. Germi, 1950), giacché il suo corpo diviene «luogo di una tensione tra figure prestabilite e rassicuranti che evocano la purezza, la fedeltà e la devozione all’uomo ed elementi di segno contrario, che sfuggono alla logica della dominazione maschile».

Sul versante dei Media Studies, tre affondi indagano i modelli femminili proposti in tempi recenti. Esplorando il panorama italiano, Anna Bisogno mette in fila le detective impegnate, fin dagli anni Sessanta, a risolvere casi intricati e al contempo a proporre al pubblico televisivo immagini di donne meno convenzionali, spregiudicate e vivaci, anche se sovente continuano ad essere rappresentate nella costrizione della scelta tra carriera e vita privata. Sempre a proposito di investigatrici, Elena D’Amelio e Valentina Re appuntano lo sguardo su Non uccidere, Bella da morire e Petra per portare alla luce molte delle dinamiche di gender che corrono sotterranee alla ideazione delle personagge, in particolare nel confronto con il Nordic Noir. Infine, Chiara Checcaglini si sofferma sulla girlhood nella serialità italiana contemporanea in due serie, Baby e SKAM Italia, per indagare le rappresentazioni del legame amicale, a due e di gruppo, e illuminare la agency delle personagge. Anche per questa via, gli Women’s Studies cinematografici offrono una sponda privilegiata per uno studio dei modelli e delle rappresentazioni che, passando per i corpi delle attrici, porta a indagare desideri e stili di vita che cominciano a circolare fra le spettatrici.

 

3. Sotto la linea

Pensando alla storia del cinema e ai ruoli legati alla manodopera femminile, non può meravigliare la numerosità, nei saggi che compongono questa galleria, dei contributi legati alle professioni, alla lunga e ancora in parte incognita filiera del film, nella quale hanno lavorato e lavorano – spesso sotto la linea della visibilità o dietro le quinte o nel cono d’ombra di figure familiari invasive quanto prestigiose – molte donne. Possiamo definirle col termine di ‘fautrici’, ponendo l’accento sulla materialità del fare, giacché è grazie alle loro attività di assistenti, segretarie di edizione e di produzione, di addette al casting e così via che i film vengono al mondo.

Sono donne che si misurano con gli spazi fisici della produzione, abitano i teatri di posa e le sale di montaggio, e su come l’architettura di questi luoghi abbia tenuto conto di loro, delle specifiche modalità di quel peculiare agire femminile, si interroga il testo di Mereu Keating, ponendo le basi di una ricerca ancora in fieri, centrata sui mestieri ‘di genere’.

Vi sono addirittura alcune professioni che vengono ‘femminilizzate’, come le Script girl nostrane tratteggiate da Bernabei che, nonostante la scarsa considerazione della quale godono, fanno sì che sul set tutto funzioni: sono la memoria vivente delle riprese, lo sguardo più attento, subito tradotto nella precisione della scrittura, sul film nel suo farsi. Nella stessa schiera capita di incontrare nomi altisonanti, come quello di Mara Blasetti, segretaria di edizione e poi direttrice di produzione, abilissima nel districarsi nei dintorni della macchina da presa, in quel limbo misterioso dove le storie cominciano ad esistere. Di lei scrive Laura Cesaro, traendo dal buio una figura altrimenti schiacciata dall’ingombro del padre, il ‘regista con gli stivali’ che tanta parte ha avuto negli sviluppi della cinematografia nazionale. Anche Malvina Giordana, occupandosi di Marina Cicogna, si è confrontata con la presenza persistente di una discendenza familiare cospicua, legata a doppio filo col capitalismo del nord est, tanto che la ‘capitana d’industria’ appare, a un certo punto, come una figlia predestinata a cogliere i frutti seminati da altri. Il saggio qui ospitato, pur nella sua brevità, ha il merito di evidenziare, al di là di ogni dubbio, l’impegno e le capacità mostrate da Marina Cicogna, la più nota produttrice italiana.

Nella medesima direzione, sporgendosi però con più decisione verso la contemporaneità, si muovono le argomentazioni di Gloria Dagnino, che si volge ai mestieri del casting, osservando la difficoltà delle donne ad affermarsi nei ruoli apicali di questo comparto, e individuando nelle collaborazioni fra le professioniste una sorta di alleanza femminile, una strategia dell’‘essere due’ che permette, per dirla con de Beauvoir, di non risultare ‘seconde’.

Infine, i saggi di Jennifer Malvezzi, Rinella Cere, Giovanna Santaera e Francesca Brignoli mettono a fuoco altre figure che lavorano dietro le quinte, sia nei cantieri dei film e delle produzioni televisive, sia nell’ambito della promozione culturale e della conservazione museale. Malvezzi si sofferma su Giulia Veronesi – sorella del celebre artista, forse in parte obliterata da questa prossimità familiare – alla quale si devono non soltanto brillanti scritti di critica ma anche e principalmente la fitta attività di scambi e relazioni che sta alla base della fondazione della Cineteca Italiana. Pure Cere e Santaera guardano alla sfera cinetecaria e ci consegnano i ritratti di tre pioniere della conservazione e della valorizzazione dei manufatti filmici: Iris Barry, animatrice dell’archivio cinematografico del MoMA; Lotte Eisner, imbattibile studiosa delle avanguardie tedesche e autentica anima della Cinémathèque, al fianco e all’ombra di Henri Langlois; e la più esotica Kashiko Kawakita, «remarkable woman» e fondatrice del Film Library Council del Giappone.

A chiudere in bellezza, con un rilancio nel segno della politica delle donne, il saggio di Brignoli su Rina Macrelli, aiuto regista di Michelangelo Antonioni e Liliana Cavani, ideatrice di programmi e film per la Rai e soprattutto femminista e lesbica, che ha saputo riconoscere nel lavoro attorno all’audiovisivo un ineguagliabile spazio d’azione e militanza. A Macrelli, e al suo auspicio per un cinema lonziano – «Si possono fare dai tuoi libri almeno quattordici film», scriveva all’autrice di Sputiamo su Hegel – lasciamo l’ultima parola sulle professioni dell’audiovisivo, con il convincimento che nel lavorio ‘sotto la linea’ di molte, moltissime donne covi un irriducibile desiderio di libertà ancora in gran parte da scoprire e da mettere a frutto.

 

4. Cartografie

Come per l’archivio, anche la cartografia ha costituito al contempo tanto il fulcro di un dibattito critico che ne ha destrutturato la funzionalità ai sistemi dominanti e le connesse retoriche di oggettivazione di ciò che viene catturato nello spettro cartografico, quanto uno spazio da riscrivere sia per liberarne le potenzialità di contro-narrazione sia per aprirlo a «soggettività ed emozionalità normalmente escluse dall’ontologia cartografica» (Lo Presti 2019). Dalla lezione della cartografia critica passando per riformulazioni teoriche e operative, cartografare ha inevitabilmente comportato, dalla prospettiva delle donne, una valenza riflessiva.

Cartografar-si, oltre che forma di autoaffermazione, volta a popolare le «steppe» desertificate dalle mappature istituzionali (Sunderland 2004 in Farinelli 2009), è presa di parola interrogante, è pratica che rimodula il rapporto con il sé e il proprio stare nel mondo nella relazione con altre soggettività (Bruno 1993 e 2002; Braidotti 2002). I contributi riuniti in questa sezione saldano l’intreccio tra le acquisizioni, ridefinite, del portato cartografico negli studi femministi e delle donne e i contesti del presente che sollecitano una nuova urgenza cartografica.

Nel solco di una solida tradizione critica, Francesca Piredda legge in trasparenza il territorio restituito dalle analisi e dai monitoraggi avviati sin dal 2008 dal Film Festival Research Network, lavorando tanto sulla sottrazione di cittadinanza scontata dalle donne in un settore strategico per diversi comparti dell’industria cinematografica contemporanea e per le prassi di legittimazione culturale, quanto sulla necessità di riformulare i modi dell’attestazione e gli ambiti di presenza.

Nella sua ricognizione sull’utilizzo dei social media da parte di giovani attrici italiane Lucia Tralli si rivolge invece a un fenomeno relativamente recente nel contesto nazionale. Concentrandosi su professioniste affermatesi a partire da prodotti di impatto internazionale, con un target specificatamente modulato su utenti giovani e giovanissimi, Tralli interroga in ottica di gender le narrazioni del sé e la gestione della propria immagine nella creazione dello statuto di celebrity persona nonché le performance di consolidamento, particolarmente rilevanti in considerazione delle implicazioni age-oriented delle traiettorie analizzate. Sempre nell’alveo di ricerca dispiegato dal PRIN D.A.M.A. Drawing a Map of Italian Actresses in Writing si colloca anche il contributo di Luisa Cutzu. Prospettive metodologiche e pratica operativa si saldano qui nell’approccio a una modellizzazione di prototipo di video-ritratto funzionale alla realizzazione di una serie di video-saggi imperniati sulle scritture autobiografiche di attrici, in cui, come rileva Rizzarelli (2021), multiforme, complessa, e a tratti irrisolvibile è l’interazione tra la dimensione autobiografica e l’istanza finzionale.

Nel nesso tra narrazione del sé e utilizzo delle tecnologie muove anche l’intervento di Deborah Toschi e Federica Villa. A partire da uno studio di caso incentrato sul progetto Dear Data di Giorgia Lupi e Stefanie Posavec, avviato nel 2014, le due studiose affrontano un campo sensibile della riflessione femminista e delle donne, nei diversi – talora divergenti – posizionamenti assunti rispetto alle nuove tecnologie e agli assetti ambientali da queste predisposti. Nel contesto attuale, massivamente colonizzato da automatismi sempre più invasivi della definizione dei vissuti e in cui carsicamente ricompare il potenziale coercitivo di nuove forme cartografiche, la pratica artistica di Lupi e Posavec avvia una verifica della possibilità di esercitare ancora modi di autoconfigurazione del sé, configurando, nel processo intrapreso, l’irriducibilità di una presa di parola soggettivata.

 

5. Margini: cinema oltre confine

«For those of us who live at the shoreline», scriveva Audrey Lorde nel primo verso di una delle sue poesie più note, A Litany for Survival (1978). A tutte coloro che vivono e percorrono i ‘sentieri selvaggi’ dei margini sono dedicate le indagini di questa sezione, che testimoniano un interesse sempre più ampio verso le pratiche delle donne al confine tra cinema e arti visive, ma anche tra cinema e letteratura, cinema e scienza, cinema e ricerche etnografiche e antropologiche (Cardone, Marcheschi e Simi 2020; Marcheschi e Simi 2020; Gallo e Conte 2021).

In questi territori di frontiera, dove le arti e i media sono sottoposti a continui spostamenti, il cinema, forse più che altrove, si ripensa e sceglie percorsi imprevisti. Sono strade dai contorni frastagliati, dove l’andatura è a volte incerta, sdrucciolevole, spesso rischiosa, e tuttavia coraggiosamente libera e pronta al rovesciamento dei codici e dei linguaggi. Avviene così nell’opera Dio è morto di Carola Spadoni (2003), dove la lenta camminata di una cowgirl sullo sfondo di un paesaggio ‘di frontiera’ sembra ridisegnare ed espandere non solo i confini delle identità, dei generi, delle soggettività, ma la relazione stessa tra cinema e donne. Nel film-installazione di Spadoni – una vera e propria ‘mise-en-espace’ di cinema, dove il formato a 32:9 è già una sfida ai confini del medium – la camera segue l’incedere di una donna che passo dopo passo si libera degli abiti che hanno segnato l’iconografia Western per dissolversi verso il bianco: un nuovo inizio, una rinascita.

Carola Spadoni, Dio è morto, 2003. Fotogramma. Courtesy l'artista e MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secoloCarola Spadoni, Dio è morto, 2003. Fotogramma. Courtesy l'artista e MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secoloCarola Spadoni, Dio è morto, 2003. Fotogramma. Courtesy l'artista e MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo

È proprio nel margine aperto del movimento di ‘frontiera’ che le donne – come molte studiose hanno da tempo sottolineato (Mulvey [1979] 1989; Johnston 1973; Blaetz 2007; Pravadelli 2018; Keller, Marcheschi e Simi 2020) – hanno trovato e ancora trovano con frequenza la misura della loro relazione con il medium, interrogato e indagato come dispositivo di visioni inattese e di esplorazione del sé. Nella marginalità di queste pratiche, spesso fuori dai grandi budget e dai riflettori delle produzioni industriali, artiste e filmmaker hanno saputo sfaldare e ricucire i lembi di linguaggi e poetiche differenti. Hanno saputo abitare – con la leggerezza, il coraggio e la sapienza di vere e proprie funambole – il filo sospeso tra le arti. Verrebbe da dire, abbracciando il pensiero di Gloria Anzaldúa, poeta, antropologa e femminista militante, che «vivere sui confini e nei margini, tenere intatta la propria identità e integrità cangiante e molteplice, è come cercare di nuotare in un nuovo elemento, un elemento “alieno”» (Anzaldúa [1987] 2002, p. 22). Ritroviamo in queste pratiche la fatica del muoversi in strade non battute, non riconoscibili, non codificate, che inducono chi le percorre a uno stato di agitazione, intesa come moto perpetuo, incedere aperto al divenire e al cambiamento. D’altra parte «la frontiera è un luogo vago e indeterminato creato dal residuo emotivo di un confine innaturale. È in costante stato di transizione. Il proibito e il vietato sono i suoi abitanti» (Ivi, p. 25).

C’è sempre una trasgressione, dunque, che è certamente sconfinamento dall’ordine rassicurante di una tradizione (bell hooks 2020), ma anche un procedere attraverso, oltre i limiti e le barriere, con uno sguardo che affronta i pericoli dello spazio periferico (Douglas 1966). È lì, infatti, che emergono gesti di rivolta e desideri di militanza e partecipazione. Così l’occhio fotografico di Lisetta Carmi, analizzato da Angela Bianca Saponari, ci restituisce la realtà invisibile e silenziosa delle periferie, di corpi ‘fuori norma’ e dissidenti, mentre lo sguardo cinematografico di Cecilia Mangini, esplorato da Rossella Catanese e Lucia Di Girolamo, espande i confini del documentario verso estetiche più sperimentali, dove i corpi delle donne emergono nella loro potenza visuale e simbolica.

Anche Andreina Di Brino ci restituisce la densità di una pratica militante – agli albori della diffusione del video – nelle riflessioni di Anna Lajolo, che nella pratica audiovisiva e nella scrittura scardina il mito dell’autore unico. Nell’idea di una collettività che prende parola e cerca un’identità tra pensiero e azione, il contributo di Lajolo fa da contrappunto al pensiero dell’allora contemporaneo neofemminismo italiano. Proprio alla relazione con gli scritti di Carla Lonzi e di Rivolta Femminile guarda il testo di Raffella Perna, che affonda nella pratica dell’artista Silvia Giambrone, dove i linguaggi dell’Arte povera sono sottoposti a un détournement in ottica femminista e post-coloniale.

La riflessione sulla marginalità diviene centrale invece nello studio di Bianca Trevisan, che attraversa l’opera di Marina Ballo Charmet fatta di close-up, frammenti, sperimentazioni con la somatic (video)camera (Sitney 2008): corpi e respiri divengono luogo di confine e misura di una relazione con l’altro e con l’altra. Se l’opera di Ballo Charmet gioca sui limiti e le soglie espandibili della percezione audiovisiva, quella di Giuliana Cunéaz, esplorata da Sandra Lischi, ci apre a una vera e propria «camera delle meraviglie». In bilico tra arte, scienza, fiaba e natura le opere di Cunéaz spaziano tra macrocosmo e microcosmo, senza rinunciare alle osservazioni minute e intime del quotidiano. Le stesse emergono dalle animazioni a passo uno realizzate dalla mano sapiente di Ursula Ferrara, di cui Elena Marcheschi coglie gli aspetti metamorfici e di relazione con le avanguardie scultoree e pittoriche.

Le turbolenze dei margini ci portano, infine, negli studi di Giorgia Console e di Beatrice Seligardi, a un corpo a corpo tra cinema e scrittura. La prima dedica un’analisi alla pratica poetico-visiva di Amelia Rosselli, dove l’osservazione diviene radice della scrittura esperienziale e scelta di prossimità tattile con il mondo; la seconda ci accompagna invece in un confronto tra Ali Smith e la scrittura diaristica di Lorenza Mazzetti, in cui la camera-stylo si trasforma in stylo-camera e dove i margini e i confini si allargano per accogliere l’intreccio e il confronto tra i media.

 

 

*Questo saggio è stato concepito in maniera congiunta dalle quattro autrici in tutte le sue parti. A fini pratici, Lucia Cardone ha redatto i paragrafi 1 e 3; Farah Polato il paragrafo 4; Giulia Simi il paragrafo 5; Chiara Tognolotti il paragrafo 2.

 

 

Bibliografia

G. Anzaldúa, Borderlands / La Frontera: The New Mestiza, San Francisco, Aunt Lute Books, 1987. Trad. it. Terre di Confine/La frontera, a cura di Paola Zaccaria, Bari, Palomar, 2000.

F. Barca, C. Spada (a cura di), ‘Le discriminazioni di genere nei settori culturali e creativi’, Economia della cultura, XXIX, 4, 2019.

B. Hooks, Teaching to Transgress: Education as the Practice of Freedom, New York, Routledge, 2017. Trad. it. Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà, Milano, Meltemi, 2020.

R. Blaetz, Women’s Experimental Cinema: Critical Frameworks, Durham, Duke University Press, 2007.

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