2.3. Tre stanze con cucina e giardino: per un atlante dello spazio domestico nel cinema lesbico

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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
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Il paper si propone come preliminare e sommaria esplorazione degli intrecci fra rappresentazione delle donne che amano altre donne e costruzione filmica dello spazio domestico. L’obiettivo è quello di evidenziare la sovrapposizione del fantasma dell’angelo del focolare e quello delle varie apparizioni di personagge lesbiche nel cinema contemporaneo, mettendo in evidenza metamorfosi, sopravvivenze stereotipiche e nuove immagini di libertà che si confrontano con la problematicità della visibilizzazione di soggetti imprevisti.

The paper is intended as a preliminary and cursory exploration of the interweavings between the representation of women who love other women and the filmic construction of domestic space. The aim is to highlight the overlap of the ghost of the angel of the hearth and that of the various appearances of lesbian personages in contemporary cinema, highlighting metamorphoses, stereotypical survivals and new images of freedom that are confronted with the problematic nature of the visualisation of unexpected subjects.

Nel saggio (da cui è tratto il titolo di questa edizione di FASCinA) che costituisce una rielaborazione del discorso tenuto nel 1931 presso la Women’s Service League, Virginia Woolf sostiene che l’impasse più significativa della sua esperienza di scrittrice riguarda, oltre che la difficoltà di dire la verità sul suo corpo e sulle sue passioni, la sopravvivenza di un modello di femminilità incarnato dal fantasma dell’angelo del focolare che lei ha tentato di uccidere ogni volta che ha preso la penna in mano. Queste pietre d’inciampo si ripresentano secondo lei ad ogni donna che prova a fare della scrittura (romanzesca o giornalistica) un mestiere e riappaiono in tutta la loro ingombrante presenza malgrado le conquiste ottenute nel tempo. Rivolgendosi alle sue interlocutrici Woolf conclude, infatti, sottolineando la necessità di continuare a lavorare in quella direzione:

You have won rooms of your own in the house hitherto exclusively owned by men. You are able, though not without great labour and effort, to pay the rent. You are earning your five hundred pounds a year. But this freedom is only a beginning—the room is your own, but it is still bare. It has to be furnished; it has to be decorated; it has to be shared. How are you going to furnish it, how are you going to decorate it? With whom are you going to share it, and upon what terms? These, I think are questions of the utmost importance and interest (Woolf 2013, p. 191).

Richiamando l’immagine della ‘camera tutta per sé’, Woolf pone nuovamente la questione dell’agency delle donne proiettandola nella dimensione dello spazio, evidenziando la necessità di impegnarsi con cura negli ‘arredi’, nelle ‘decorazioni’, cioè nella traduzione visiva e architettonica della configurazione dei luoghi appena acquisiti. Insistendo proprio su questa figurazione iconica della conquista di una libera espressione della soggettività femminile si intende condurre una preliminare e sommaria esplorazione degli intrecci fra rappresentazione delle donne che amano altre donne e costruzione filmica dello spazio domestico, nell’intento di mettere a fuoco la sovrapposizione del fantasma dell’angelo del focolare e quello delle varie apparizioni di personagge lesbiche nel cinema contemporaneo, evidenziando metamorfosi, sopravvivenze stereotipiche e nuove immagini di libertà che si confrontano con la problematicità della visibilizzazione di soggetti imprevisti.

Sembra particolarmente interessante indagare queste ambivalenti dinamiche del racconto filmico soprattutto nel regime dell’«ipervisibilità lesbica» (Fabbiani 2019) offerto dalla produzione audiovisiva degli ultimi vent’anni, nella quale la dimensione del «cronotopo dell’appartamento» (Wallace 2009) riveste un’importanza pari a quella della costruzione della fisionomia dei caratteri nella genesi del dispositivo diegetico. Secondo Wallace, infatti, l’appartamento si offre come nuovo spazio della narrazione in cui la soggettività lesbica si muove rinegoziando la relazione fra dimensione pubblica e privata, fra esposizione e nascondimento, superando il binarismo troppo rigido di vecchi cronotopi come il carcere, l’aula scolastica o il college (Wallace 2009, p. 138). Del resto, come afferma Giuliana Bruno (2015, p. 135) i «mobili perimetri» delle «residenze animate» rappresentate sul grande schermo «raccontano la storia della vita privata e, così facendo, creano un luogo per la sua esibizione pubblica».

Si procederà dunque a una mappatura (per necessità provvisoria e incompleta) degli arredi e degli oggetti che popolano i differenti spazi narrativi in cui si muovono le personagge lesbiche, facendo risuonare nelle varie stanze di un ideale edificio domestico costruito dall’assemblaggio di fotogrammi provenienti da differenti case di celluloide i rimandi fra «sight» e «site», «motion» ed «emotion» (Bruno 2015), provando a decifrare, accanto alle differenti strategie di uccisione dell’«Angel in the House», le modalità che ciascuna storia proietta sul grande schermo tentando di dire ‘la verità dell’esperienza del corpo’ di una donna che ama un’altra donna («telling the truth about my own experiences as a body» è appunto per Woolf la sfida più ardua).

Nell’ampio corpus del cinema lesbico degli anni Zero si è scelto di isolare il fronte della produzione mainstream, dove le complesse oscillazioni fra le affermazioni del diritto all’esistenza di relazioni non eteronormative e i tentativi di uccidere ogni riemersione di antichi fantasmi vestiti di nuovo appaiono più interessanti. Nello specifico, data l’esiguità dello spazio a disposizione, si è preferito insistere su quei film in cui la comparsa di oggetti e arredi incongruenti o risemantizzati rispetto alle stanze in cui vengono collocati allude metadiscorsivamente alla ricerca del racconto della verità del corpo, dei pensieri e dei desideri in esso racchiusi. In particolare i pochi casi su cui ci si sofferma si presentano come siti di una mappa di relazioni intersoggettive che riscrivono il perimetro dello spazio domestico grazie all’introduzione di significativi oggetti e strumenti, di gesti e modelli di relazioni che mettono in discussione le norme dell’ordine patriarcale. Possono essere considerati tutti (parafrasando Bruno 2015, p. 272) come ‘percorsi più o meno inesplorati di solidarietà più o meno produttiva’ in cui ciò che conta è il legame che viene mostrato nel site-seeing (ancora un riferimento a Bruno 2015, p. 16 e sg.) fra affetti, passioni, sentimenti e luoghi che li abitano.

Un’ultima precisazione è necessaria per l’individuazione del campo di indagine e la definizione di ‘cinema lesbico’, nella quale entrano in gioco i diversi sguardi dell’autorialità multipla della narrazione cinematografica, come pure quelli legati all’orizzonte della ricezione del pubblico di spettatrici e spettatori che, in base al proprio orientamento sessuale, si pongono in modo differente di fronte al grande schermo. In questo contesto, pur nella consapevolezza del vasto e controverso dibattito sull’argomento e sulla mobilità di un canone in continuo e rapido aggiornamento (si vedano De Lauretis 1997, Fabbiani 2019, Stacey 1994), si guarderà soprattutto allo spazio della rappresentazione delle donne che amano altre donne, prendendo l’aggettivo ‘lesbico’ nella sua più grande estensione semantica, per disegnare la planimetria di una casa senza fantasmi, composta di stanze in cui la loro uccisione si consuma attraverso un’appropriazione dello spazio domestico. Uno spazio refrattario – secondo Sara Ahmed – alla rappresentabilità del desiderio lesbico perché contesta in sé tutti i binarismi fondamentali della visione patriarcale. Del resto, si assume qui l’aggettivo “lesbico” proprio nell’accezione di orientamento sessuale interpretato da Ahmed in termini eminentemente spaziali, come una “questione di residenza” (matter of residence), che influenza il modo in cui si abitano i luoghi, intesi a loro volta come espressione di affetti e desideri (Ahmed 2006).

 

1. Angeli del focolare

La nostra visita di questa casa virtuale non può non cominciare che dalla cucina della dimora in cui si svolge la vicenda raccontata da Céline Sciamma nel Portrait de la jeune fille en feu (2019) [fig. 1]. È nella messa in quadro dello spazio della servitù che la regista esibisce con maggiore enfasi il ribaltamento della gerarchia dei rapporti sociali, rappresentando la serva Sophie che ricama mentre la sua padrona Héloïse prepara la cena e la pittrice Marianne mesce il vino per le tre commensali. Se uno degli intenti di Sciamma è, infatti, quello di disegnare i contorni di una utopica isola felice, nella quale le relazioni umane sono riscritte a partire dalla più radicale eguaglianza dei ruoli, nella stanza in cui resta sempre acceso il fuoco, che come un Leitmotiv polisemico congiunge i vari discorsi visivi proposti dal racconto filmico, si intessono i legami fra le tre protagoniste. I ‘nuovi angeli del focolare’ rifondano il senso della loro soggettività imprevista non cambiando il luogo della loro azione, ma mutando la ‘traiettoria delle loro visioni’ per scorgere meglio le tracce del world to come.

La proiezione verso un ordine e una felicità di là da venire, negata nel presente, fa pensare a un’altra cucina eletta a spazio dell’incontro e della riscrittura creativa della liaison fra due donne, nel film intitolato appunto The World to Come (2020) diretto da Mona Fasvold, nel quale le due protagoniste (Tallie ed Abigail) non riescono a liberarsi del fantasma sempre incombente del ruolo di buone mogli. Eppure nella storia d’amore, che scrivono con i loro corpi e inseguendo anche se fugacemente i loro desideri nella cucina di Abigail, si riconosce quella tensione a dire la ‘verità delle proprie passioni’, confermata peraltro dalla presenza costante di un diario che la padrona di casa compone ogni giorno, registrando le sue sensazioni in relazione allo scorrere del tempo e al passare delle stagioni. Quell’oggetto, che appare incongruente nel contesto di un ordine patriarcale che scricchiola come le travi che sostengono la casa in cui si svolge la vicenda, ma che non sembra poter essere messo realmente in discussione, rappresenta in realtà l’apertura di uno spazio d’azione per una delle due personagge, come correlativo oggettivo della voce narrante e dell’atto di conquista della parola attraverso la quale viene raccontata la storia.

In maniera analoga, ma molto più perentoria, la cucina-laboratorio dell’esperimento sociale di Sciamma si trasforma, in un momento del film, in sala di lettura e luogo di dibattito critico per l’interpretazione di un passo controverso del decimo libro delle Metamorfosi di Ovidio. L’insistenza sull’immagine del volume ovidiano, che compare in diverse scene della pellicola e che costituisce il traite d’union visivo fra il racconto e la sua cornice, suggerisce in modo esplicito il valore di messa in abisso del senso complessivo della storia affidato al rimando intermediale al mito di Orfeo. A metà circa del film, proprio in cucina, Héloïse, Marianne e Sophie si ritrovano a leggere il testo e a interrogarsi sull’incomprensibile voltafaccia dell’eroe antico. È bene rievocare le battute del dialogo per comprendere la risonanza che esse hanno nello sviluppo della vicenda:

Sophie: S’en tiennent pas ces raisons. Ce sont précisément les consignes qu’on lui a donné.
Héloïse: Il est fou d’amour, il ne résiste pas.
Marianne: Moi je crois que Sophie n’a pas tort. Ce n’est pas plus fort que lui, les raisons ne sont pas sérieuses. Peut-être que s’il se retourne c’est qu’il fait un choix.
Sophie: Quel choix?
Marianne: Il choisit le souvenir d’Eurydice, c’est pour ça qu’il se retourne.
[poi rivolta verso Héloïse] Il ne fait pas le choix de l’amoureux, il fait le choix du poète.

Dopo queste battute, Héloïse ricomincia a leggere gli ultimi versi, quelli dell’addio. Si ferma un attimo a riflettere e poi conclude che potrebbe essere stata proprio Euridice a dire a Orfeo di voltarsi e si rivolge di nuovo verso Marianne. Nel corso dell’ultima notte, nel dialogo più intenso fra le due amanti, esse si impegnano a cancellare ogni rimpianto trasformando i momenti più belli della loro breve e intensa storia d’amore in ricordi. Tale risolutiva presa in carico del proprio destino di separazione reclama da parte di entrambe, in quanto soggetti del racconto e dello sguardo, una forma di compartecipazione che si mostra attraverso la composita trama verbo-visiva dell’intero film, nella quale si riconoscono la ripetizione e la riproposizione, attraverso posture e contesti diversi, del gesto dell’eroe che si volta. Quel che occorre sottolineare, però, in questa sede è che Sciamma utilizza la scena del confronto in merito alla scelta di Orfeo per riflettere sulla propria scelta poetica (su questo aspetto rimando a Rizzarelli 2022). In un’intervista la regista dichiara esplicitamente che in quella scena voleva che emergessero gli intrecci fra il processo di elaborazione estetica e l’insorgere della passione sentimentale, sottolineando soprattutto la forza del legame fra Héloïse e Marianne, l’importanza che la reciproca stima ha avuto nell’insorgere della passione amorosa e, infine, dunque, la complementarietà fra eros e ricerca della bellezza (Sciamma 2019). È in fondo questo il vero tema attorno a cui ruota la storia raccontata da Sciamma, che elegge lo spazio della cucina come luogo dell’alchemica riscrittura delle dinamiche dello sguardo creativo, dei suoi meccanismi di empowerment e delle sue traiettorie impreviste.

Anche nelle altre stanze le coppie di donne protagoniste dei vari film si trovano tutte a fare i conti con le complicazioni derivanti da scelte sentimentali ed espressive, fra posizionamento erotico ed estetico, fra il desiderio dell’altra e la necessità di seguire la propria vocazione artistica e la libera espressione della propria soggettività, lungo traiettorie a volte comuni, altre volte antitetiche e che comunque fanno della casa e dei suoi arredi il teatro della loro relazione.

 

2. In camera da letto

La camera da letto è lo spazio della rappresentazione della vita domestica queer più problematico e al tempo stesso più attraente: è il luogo in cui si incontrano e si scontrano le differenti prospettive ideologiche relative alla legittimità e alla autenticità delle voci autoriali a cui dovrebbe essere consentito il racconto dell’eros lesbico; ma è al tempo stesso l’ambiente su cui convergono le istanze voyeuristiche di un ampio spettro dell’audience mainstream ed è dunque il perimetro della narrazione filmica su cui si punta spesso per attrarre gli sguardi curiosi e indiscreti del pubblico più vario. La bedroom racchiude come una scatola incandescente le frizioni fra l’esigenza di visibilità e la necessità di difendersi dalla intromissione di sguardi calamitati soltanto dalla possibilità di esplorare una regione dell’espressione del desiderio avvolta nel mistero. È in fin dei conti il luogo su cui si gioca la sfida della rappresentazione del desiderio lesbico e della sua intima contestazione di un ordine patriarcale che non contempla l’esistenza di uno spazio dell’eros fondato sull’esclusione dell’agency maschile. Gran parte del cinema lesbico non sfugge al pericolo di una visione esotica del sesso fra donne, tanto che il più delle volte la cornice dell’inquadratura coincide interamente con i confini del letto, sul quale si ‘poggia’ una mdp che nella estrema vicinanza dei corpi sembra sfumare i contorni dei soggetti e dei loro gesti.

In Anatomy of Love Seen (2014) di Marina Rice Bader, per esempio, la struttura metariflessiva del film nel film mette molto bene in evidenza le difficoltà di far dialogare la vita nel fuori campo e la rappresentazione dell’incontro erotico [fig. 2]. Nel banale escamotage per raccontare una altrettanto banale storia d’amore fra due attrici che si erano conosciute e amate durante le riprese di una pellicola e che si incontrano sul set dopo essersi lasciate, convocate dalla regista con la scusa di dover ri-girare la scena di sesso, si condensano tutti i topoi della messa in quadro della bedroom lesbica. Del resto, il setting del sesso fra due donne costituisce molto spesso uno spazio dislocato rispetto al contesto quotidiano, in luoghi che raccontano l’infrazione della norma – come le stanze d’albergo, i bagni pubblici, le camere da letto altrui. Quando le pareti di una casa in cui due donne hanno costruito la propria esistenza cominciano a parlare (come nel film a episodi Women – If these walls could talk 2, 2000, di Jane Anderson, Martha Coolidge e Anne Hache) le modalità di sguardo non mutano poi così radicalmente e la rappresentazione della camera dell’eros focalizza l’attenzione su un unico oggetto d’arredamento.

Ciò è evidente, per esempio, anche nelle prime scene nella stanza da letto del film di Maria Sole Tognazzi Io e lei (2015), costruite come tutto il film con l’intento di normalizzare ogni eccedenza dell’impatto visivo di una storia d’amore fra donne, lasciando nel fuori-campo la dimensione propriamente erotica e provando a rappresentare (stando anche alla dichiarazione della stessa regista) il legame sentimentale e la quotidianità della convivenza delle due protagoniste Federica (alias Margherita Buy) e Mariana (interpretata da Sabrina Ferilli). Al centro dell’inquadratura c’è un letto in cui Bui e Ferilli recitano con gesti banali e quotidiani l’intimità della loro relazione: leggono, si scambiano gli occhiali, accarezzano il loro gatto, fanno colazione, discutono [fig. 3]. Il letto è ancora l’arredo principale, ma diviene anche strumento narrativo versatile, capace di attraversare tutte le nuance della pellicola, dalla comicità dell’episodio dell’acquisto del nuovo materasso alla drammaticità del momento in cui il «Fisiology» (questo il modello scelto da Federica e Marina) viene recapitato nella fase più tragica della loro crisi. Malgrado tale centralità e la convenzionalità nel disegno delle scene, vengono introdotti due dettagli apparentemente congruenti, da cui scaturisce di fatto la momentanea rottura della storia. Gli occhiali di Marina, che Federica le ruba in due scene, alludono al tempo stesso alla reciprocità della vita della coppia, ma anche al motivo che condurrà Federica sulla strada dell’adulterio. Di lì a poco, infatti, incontrerà un affascinante oculista e per metà del film si trasferirà nella sua camera da letto. L’altro oggetto è il copione del film che viene proposto a Marina dopo quindici anni di pausa della sua carriera d’attrice. Lei lo legge a letto e ne discute con Federica, che tenta in tutti i modi di scongiurare il ritorno sul set della sua compagna, per paura della esposizione pubblica di entrambe. Nella discussione che si svolge appunto a letto, l’una, infatti, rivendica la possibilità di partecipare alla decisione dell’altra, invadendo la sfera della sua vocazione artistica in nome della difesa della sua vita privata.

A un’analoga invasione di campo, ma ribaltata di segno, si assiste in un’altra camera da letto, quella della casa in cui vivono Emma e Adèle ne La vie d’Adèle – Chapitres 1 & 2 (2013) di Abdelatif Kechiche. La pellicola ha catalizzato il dibattito di gran parte dell’audience proprio per la lunghezza e l’oltranza ‘realistica’ delle scene di sesso che si svolgono nel primo capitolo, nelle quali la radicalità della poetica visiva dichiaratamente voyeuristica del regista si scontra con la refrattarietà della visibilizzazione di un eros fuori norma. Nella storia raccontata da Kechiche la natura eslege e perturbante del desiderio lesbico non è capace di immaginare un nuovo spazio per dare asilo alla sua eccedenza, anzi sembra confermare la conformità della dimensione domestica a un modello di vita eteropatriarcale riadattato e mascherato da sfumature queer. Nel secondo capitolo, che si apre con il racconto della convivenza di Emma e Adèle, il regista sporge lo sguardo con molta più cautela nella loro camera da letto e soltanto per registrare una conversazione nella quale le contraddizioni delle scelte di vita e delle aspirazioni diverse delle due protagoniste emergono con evidenza. La prima vorrebbe spingere la seconda a pubblicare le pagine del suo diario e a coltivare la sua passione per la scrittura, ma Adèle resiste al tentativo della compagna di trascinarla dentro il jet-set della vita artistica di Lille a cui lei ormai sembra appartenere, come dimostrato dalla scena precedente che si svolge nello spazio esterno della loro casa, che ci introduce in un altro ambiente domestico della mappa che si sta tratteggiando, il giardino.

 

3. Lo schermo nel giardino

Nella Vie d’Adèle, film costruito tutto su risonanze, parallelismi e rime visive (per questo aspetto rimando a Rizzarelli 2019), la protagonista viene colta in diverse occasioni in uno scenario naturale, in un parco, su una panchina sotto un albero e anche all’interno di due giardini domestici: verso la fine del primo capitolo nell’abitazione dei suoi genitori, dove festeggia un suo compleanno e nella casa dove vive ormai con Emma all’inizio della seconda parte. In entrambi i momenti, pur nella contrapposizione della fase evolutiva della formazione della protagonista che essi rappresentano, dove il passaggio dal primo al secondo capitolo segna la fine dell’adolescenza e l’inizio della vita adulta, l’obiettivo della mdp indugia sui movimenti del corpo di Adèle che balla seguendo il ritmo della musica. Nel corso della lunga sequenza della cena in cui viene presentata a tutti gli amici di Emma come la sua ‘musa’, la protagonista si muove fra gli invitati come una perfetta padrona di casa, come un’abile cuoca che serve ai suoi ospiti i piatti che ha preparato con cura. La sovrapposizione delle immagini della buona massaia e della modella ispiratrice dell’arte della compagna è esposta e affermata con grande enfasi nell’inquadratura che rappresenta il controcampo dell’ingresso nel giardino, pochi attimi prima che il party abbia inizio. Nella stessa cornice si intravede a sinistra Adèle ai fornelli, che sta ultimando la preparazione degli antipasti, e a destra un suo ritratto appeso sulla parete accanto alla porta della cucina: per qualche secondo le posture e altri piccoli dettagli (capelli, sigaretta in bocca) dei due soggetti sembrano coincidere perfettamente, introducendo un pattern visivo che ritorna in diversi momenti nella scena della festa. Nel giardino infatti campeggia uno schermo nel quale, nel corso della cena, vengono proiettati alcuni spezzoni del Box of Pandora (1929) di Georg Wilhelm Pabst. La citazione non è tanto importante per il riferimento alla storia lesbica presente nel film muto, quanto per l’effetto di raddoppiamento mediale. Il film nel film provoca una rifrazione speculare che insegue la protagonista per tutta la sequenza, fino al momento in cui balla con Samir. Lo specchio-schermo sullo sfondo in cui sono ritratti due ballerini replica quasi la stessa posizione di Adèle e del suo casuale partner danzante, poi lascia il campo alla protagonista e lo sguardo magnetico e disperato della Lulu di Pabst si alterna nella messa a fuoco con quello del volto di Adèle: per alcuni minuti i due soggetti appaiono compresenti nella stessa inquadratura in cui il movimento semanticamente più importante è rappresentato dal cambiamento del fuoco sul primo e sul secondo piano [fig. 4]. A leggere con attenzione le variazioni visive della danza nello specchio dello schermo, si percepisce (forse proprio nella oscillazione dalla coincidenza con la figura rappresentata e all’opposto uscir fuori dai contorni della rappresentazione) la resistenza di Adèle al modello di vita che Emma le propone e che sembra imprigionarla dentro la cornice dell’arte nella quale non si sente a suo aggio (lo dirà esplicitamente alla fine della serata nella quale si è sforzata di entrare nel ruolo). In fin dei conti, di fronte alle insistenze della compagna artista, la protagonista rivendica il diritto di scegliere la propria via verso la felicità, che si identifica nella professione di maestra elementare e di good wife. In questo caso la riapparizione dei fantasmi sembra essere un po’ più complicata: Adèle infatti si mostra come una musa che vuol essere l’angelo del focolare. La tragica fine dell’appassionata storia d’amore raccontata da Kechiche arriva al capolinea proprio in quel giardino in cui sbocciano i desideri diversi delle sue muse.

 

4. Il salotto e lo studio

Molte delle storie d’amore fra donne, lo si è già visto con questi rapidi esempi, intrecciano dunque le ragioni del cuore e quelle dell’arte. La ricerca della libertà invece, che quasi tutte inseguono, si mostra al tempo stesso come una radicale richiesta di autodeterminazione che investe tutti gli aspetti della vita delle protagoniste, trovando differenti soluzioni narrative che definiscono i rapporti di coppia e i diversi equilibri fra le aspirazioni delle personagge. Lo spazio domestico diventa allora prima di tutto lo scenario di queste tensioni, il campo di forze, desideri e ambizioni che non sempre trovano una possibile conciliazione come quella esposta programmaticamente da Sciamma e dalle sue attrici. Ma esso è anche il site-seeing di traiettorie impreviste, le quali attraverso la proposizione di legami intersoggettivi fondati sulla reciprocità e non sulla subordinazione, pur non annullando la possibilità del conflitto, suggeriscono un modo nuovo di abitare tale spazio.

In Carol (2015) di Todd Haynes (tratto dall’omonimo romanzo di Patricia Highsmith), per esempio, la protagonista adulta sembra svolgere quasi un ruolo pigmalionico nell’incoraggiare la giovane coprotagonista a seguire la sua vocazione di fotografa. Ma anche in questo caso la declinazione dei ruoli interpretati da entrambe, osservati attraverso lo speculum del legame fra luoghi e affetti, mostra qualche sorpresa. Secondo Anna Backman Rogers (2020), rifiutando le norme dell’ordine patriarcale Carol e Therese «scelgono una forma di vita fantasmatica», non possono occupare lo spazio domestico che è una incarnazione di tale ordine, vivono infatti il loro desiderio in spazi liminali (bar, ristoranti, motel), luoghi transitori, «attraverso cui si passa ma non ci si ferma definitivamente» (pp. 80-81). Riprendendo le tesi di Sara Ahmed (2006), Backman Rogers ritiene infatti che la sfera del desiderio lesbico non può trovare una sua determinazione nei luoghi codificati dalle norme patriarcali, pertanto le due personagge cercano la fuga dai contesti domestici in cui si sentono imprigionate e trovano nella condizione di invisibilità garantita dagli spazi di transito dei loro appuntamenti la condizione per riorientare liberamente il senso delle loro esistenze. Il viaggio nel periodo natalizio nei motel di provincia dove scoprono la felicità dell’incontro dei loro corpi, nella sovrapposizione di movimento ed emozioni, costituisce la premessa perché entrambe possano immaginare una direzione diversa da intraprendere insieme. Pur accettando quasi in toto i presupposti di tale tesi, ritengo che in realtà nelle loro parallele parabole evolutive Carol e Therese provino sia prima che dopo il loro viaggio ad abitare lo spazio domestico, iscrivendo in esso la novità della loro relazione erotica e solidale al tempo stesso. Le diverse configurazioni intersoggettive dei due salotti delle loro abitazioni costituiscono l’innesco del loro difficile percorso di emancipazione, di «rimappatura della stabilità» (si potrebbe dire ancora con Bruno, 2015, p. 114).

La prima volta che Carol invita Therese a casa sua vediamo l’una intenta a confezionare il treno comprato come regalo natalizio alla figlia Rindy e l’altra suonare il pianoforte: il salotto nel quale si svolge la scena costituisce il setting all’interno del quale le dinamiche seduttive e quelle pedagogiche di Carol prendono avvio. Tralasciando il lavoro che sta svolgendo, Carol si avvicina a Therese, le fa i complimenti per la musica che sta suonando, le appoggia le mani sulle spalle (un gesto che rappresenta un Leitmotiv performativo che attraversa tutto il film), e la interroga in merito al suo sogno di diventare fotografa [fig. 5]. Il pianoforte, dentro tale contesto, diviene l’arredo principale, il correlativo oggettivo dell’aspirazione artistica di Therese: esso sostituisce per traslazione la macchina fotografica, che fa la sua comparsa nella scena successiva, costruita con una sequenza di gesti e movimento dei corpi e degli sguardi che li inquadrano molto simili. Carol infatti si presenta a casa della fotografa per vedere i suoi scatti e le porta in dono una valigia che contiene una Canon scintillante con tutti i suoi accessori. Entra nella cucina, che funge al tempo stesso da camera oscura e galleria espositiva delle sue foto e osserva gli scatti incollati alla parete. Si sofferma sul suo ritratto, su quello di Therese bambina e poi si sposta, cambiando chiaramente espressione del volto, nel piccolo salotto adiacente dove si siede sul bracciolo del divano e inizia a singhiozzare. A questo punto è Therese che le poggia una mano sulla spalla. Poi la scena si trasferisce nel ballatoio esterno dove stavolta è Carol a parlare delle difficoltà della causa di divorzio, del suo ruolo di madre e del pericolo di perdere la custodia di Rindy. Non è facile disegnare la planimetria dell’appartamento della giovane personaggia, ma si intuisce chiaramente come i due ambienti domestici, con i rispettivi salotti, espongano in modo molto chiaro le profonde differenze di status sociale delle due donne; eppure nelle corrispondenze si intravede la reciprocità del sostegno che l’una sta per dare all’altra nella ricerca della propria identità relazionale, sentimentale e professionale. I due spazi della socialità si trasformano in luoghi d’incontro e di dialogo per due soggetti nomadi, capaci di rispettare i tempi di ricerca dell’altra e di ritrovarsi infine pronte forse per una convivenza in una casa tutta da inventare. Che quello spazio tutto per sé rappresenti per Therese la proiezione della ricerca della sua vocazione espressiva è evidente nel momento in cui la vediamo ridipingere le pareti di quel salotto, arredare e decorare appunto la camera che si è conquistata proprio mentre è in procinto di iniziare il suo lavoro nella redazione del «Times». E in fondo, un itinerario parallelo compie Carol nel rinunciare alla custodia della figlia, alla sontuosa villa che rappresenta la prigione dorata della sua vecchia vita e nel trasferirsi in una nuova abitazione dove – dice lei stessa – c’è finalmente spazio anche per Therese.

Molto più espliciti i ruoli nella costruzione di una room of one’s own nel biopic dedicato a Elizabeth Bishop (Flores rarasReaching for the moon, 2013 di Bruno Barreto, tratto dalla biografia firmata da Carmen Lucia de Oliveira), nel quale si racconta il lungo soggiorno della poeta in Brasile, nella dimora di Lota de Macedo Soares, l’architetta con cui ha intrattenuto una relazione durata quasi vent’anni. Proprio un attimo dopo l’inizio della loro storia d’amore, Lota comincia a costruire lo studio per Elizabeth, che lei stessa ha disegnato [fig. 6]. Si tratta di una stanza tutta per lei, sospesa su una rupe che guarda l’intera valle in cui sorge la loro casa: questo studio costituisce prima di tutto un momentaneo porto sicuro in cui sostare con il corpo, continuando a muoversi con le sue parole, dando espressione alla percezione dello spaesamento come costante basso continuo della poesia di Bishop. Ma esso rappresenta anche il punto d’osservazione di un intero paese e della vita che la poeta scruta da straniera, malgrado il prolungato soggiorno in quella dimora. Ciò che appare più interessante è che anche in questo caso il film racconta l’incontro e poi lo scontro delle due vocazioni artistiche di Lota ed Elizabeth, e il dono di uno spazio che l’una fa all’altra si presenta come il momentaneo coincidere di due tragitti che entrambe percorrono per inseguire la verità delle proprie passioni.

 

5. Interstizi: pianerottoli e sentieri selvaggi

Ad eccezione del film di Haynes, ci si è soffermati fin qui a osservare i diversi spazi interni alla planimetria dell’universo domestico abitato da due donne che si amano, anche se spesso, in realtà, molte storie che hanno al centro relazioni lesbiche si situano in luoghi interstiziali, nei quali il fantasma dell’angelo del focolare viene ucciso sperimentando la convergenza che solo il cinema può mettere in luce fra «motion» ed «emotion» (Bruno 2015), nella uscita fuori dalla propria casa, nell’attraversamento dei confini che separano i luoghi in cui sono stati reclusi i corpi con i loro pensieri e desideri.

Il pianerottolo che divide gli appartamenti delle settantenni Nina e Madeleine in Deux (2019, di Filippo Meneghetti) è il cronotopo della loro storia d’amore [fig. 7] appesa a un sogno (il trasferimento a Roma in una casa tutta per loro), che pare infrangersi a causa dell’improvvisa malattia della seconda. Ma nel finale, a seguito della tragica separazione imposta da Anne (la figlia di Madeleine), le due protagoniste si ritroveranno insieme un attimo dopo aver chiuso la porta del pianerottolo che separa le loro due esistenze, in un appartamento messo a soqquadro da malviventi, a ballare sulle note di Chariot di Betty Curtis, provando a costruire «la terra senza frontiere» di cui parla la canzone.

Anche per Abigail e Tallie (protagoniste di The World to Come) il loro incontro si realizza annullando la distanza che separa le loro due abitazioni, nel sentiero impervio, a volte funestato dalle intemperie che l’una percorre per trovarsi fra le braccia dell’altra. Ma è con l’immagine del vialetto attraversato correndo da Emily Dickinson in Wild Nights with Emily (2018, di Madeleine Olnek) per raggiungere la sua amata Susan [fig. 8] che si vuole provvisoriamente completare la mappa di questa casa virtuale. Il film di Olnek si pone come obiettivo esplicito quello di restituire la verità dell’incontro dei corpi e delle menti delle due donne, censurato con un letterale atto di cancellazione del nome di Sue dalle lettere e dai versi scritti dalla poeta. L’immagine di assoluta reclusione tramandata dalla biografia di Dickinson viene messa in crisi dalla corsa quotidiana da lei compiuta per consegnare alla cognata-amante, che ha abitato per tanti anni nella villa accanto alla sua, i versi appena composti. Nella fase della vecchiaia il compito verrà demandato alla nipote, che si fa ambasciatrice di tali consegne, ma poco importa. Quel che conta è che in quel movimento si condensa il senso delle emozioni rapprese nel sentiero che separa e congiunge i due universi domestici contigui, la cui distanza viene colmata dalle parole composte da Emily per una reale prima destinataria della sua arte. È questo il senso di una delle ultime lettere scritte da Dickinson, la cui dizione è affidata nella conclusione del film a una voce fuori campo, mentre Susan le legge immaginando la scena di due ragazzine che corrono insieme sul bagnasciuga, dimostrando di conoscere bene la ‘strada verso casa’, uno spazio liquido che può contenere gli sconfinamenti dei loro nomi accostati finalmente l’uno all’altro:

You must let me go first, Sue, because I live in the sea always and know the road. I would have drowned twice to save you sinking, dear, if I could only have covered your eyes so you wouldn't see the water.

Bibliografia

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