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Il salotto è per costituzione un ambiente domestico di ricezione degli ospiti, un luogo esclusivo in cui si svolgono processi relazionali e scambi di esperienze. Muovendosi simbolicamente fra i salotti (fittizi) del cinema di regime e i luoghi (reali) del dietro le quinte della produzione cinematografica, questo contributo esplora le trasformazioni sociali che vertono sul cambiamento del ruolo domestico e professionale della donna in Italia tra la fine degli anni Trenta e la prima metà degli anni Quaranta. Le vicende ambientate nei salotti borghesi del cosiddetto cinema dei telefoni bianchi diventano spunto per riflettere sulla posizionalità della donna all’interno della ‘casa del cinema’ e per osservare l’emergere di una tessitura professionale al femminile finora ignorata dai modelli storiografici. 

The drawing room is by definition a domestic environment devoted to receiving guests, an exclusive space where interpersonal relations are formed and experiences exchanged. Shifting symbolically between the (fictional) drawing rooms of the cinema of the regime and the (real) behind the scenes of film production, this contribution explores the social transformations which centre on the changing professional and domestic role of women in Italy between the end of the 1930s and the first half of the 40s. The events set in the bourgeois rooms of the so-called cinema of the white telephones prompt us to reflect upon the positionality of women within the ‘house of cinema’ and to observe the emergence of professional women’s networks which so far have been overlooked by existing historiographies. 

 

1. Premessa

Come sostengono le geografe Mona Domosh e Joni Seager in Putting Women in Place, lo spazio e la sua organizzazione non fanno semplicemente da sfondo neutrale ai drammi umani, ma ne influenzano la condizione e le relazioni (2001, pp. xxi-xxiii). La creazione, l’uso e la disciplina degli ambienti edificati (built environment), spazi intesi sia come entità fisiche in generale (space), sia come luoghi vissuti e associati alla sfera personale (place), sono determinati in parte da presupposti riguardanti ruoli e relazioni sociali. Secondo questo approccio, la ‘genderizzazione’ (gendering) degli spazi quotidiani (abitativi, professionali, ricreativi e così via), ossia il ruolo che lo spazio gioca nella formazione dei ruoli di genere, si presenta come elemento critico per identificare, e mettere in discussione, relazioni di potere fra i sessi di natura gerarchica, binaria e discriminatoria.

La categoria dello spazio diventa, in questo contesto, utile strumento di indagine storiografica per esaminare come l’industria cinematografica italiana rielabori e si rispecchi nei processi di modernizzazione sociale e di urbanizzazione dei costumi che attraversano il Paese tra gli anni Trenta e Quaranta. Un’ottica ‘spaziale’ permette anche di riflettere sulle dinamiche di genere che si sviluppano all’interno della filiera filmica nella sua complessa organizzazione artistica, tecnica ed economico-amministrativa.

 

2. Il panorama produttivo

L’articolato panorama produttivo del cinema italiano tra l’avvento del sonoro e la fine della seconda guerra mondiale è stato oggetto di ampio dibattito storiografico che qui non si ha la pretesa di rivisitare nella sua complessità. Durante la prima metà degli anni Trenta la filiera produttiva, raggiunta una fase di assestamento in seguito alla graduale conversione al sonoro delle strutture, degli impianti e della formazione tecnico-artistica, si avvia, con la fine del decennio, verso un’ulteriore espansione infrastrutturale dettata in parte, com’è noto, dall’istituzione del monopolio per l’acquisto, l’importazione e la distribuzione dei film stranieri e il conseguente ritiro delle majors americane dal mercato italiano. Esacerbato dall’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania nazista e dalle restrizioni autarchiche, il grande sforzo costruttivo e produttivo incoraggiato dal governo (si calcola siano circa 96 i lungometraggi italiani distribuiti nel 1942, contro i 33 del 1937) si arresta bruscamente all’indomani dell’esautorazione di Mussolini nel luglio del 1943.

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Nel prestigioso salotto della villa paterna Il Salviatino, Paola Ojetti, traduttrice e giornalista cinematografica (Film. Settimanale di cinematografo, teatro e radio), costruì tra gli anni Trenta e Quaranta un’articolata rete sociale che annoverava anche diverse scrittrici e giornaliste. Tenendo in considerazione la storia di genere del periodo fascista, il breve contributo indaga la corrispondenza di Ojetti e della sua famiglia conservata in diversi archivi italiani. La giornalista disponeva di un’autorevole trama di relazioni e si servì del capitale sociale accumulato al Salviatino per accedere e farsi strada nel campo culturale, assumendo vesti non normative all’interno del quadro lavorativo del periodo fascista e valorizzando i progetti in cui era coinvolta. Inoltre, i documenti indagati portano alla luce l’importante rete femminile di cui faceva parte Ojetti: in particolare, nomi stimati come Margherita Cattaneo, Ada Negri, Alba De Céspedes e Ojetti stessa collaborarono in diverse occasioni (come la critica o il giornalismo cinematografico, i lavori di sceneggiatura, il periodico l’Almanacco della donna italiana) e si prestarono un importante supporto.

In the prestigious salon of her father’s villa Il Salviatino, Paola Ojetti, translator and film journalist (Film. Settimanale di cinematografo, teatro e radio), built up an articulate social network between the 1930s and 1940s, which also included several female writers and journalists. Taking into account the gender history of the fascist period, this short essay investigates Ojetti and her family’s correspondence preserved in various Italian archives. Relying on the social capital achieved at Salviatino, the journalist had skillfully managed to make her way in the cultural field, taking on non-statutory roles within the working framework of the fascist period and enhancing the projects in which she was involved. Moreover, the documents investigated bring to light the important female network of which Ojetti was a member: in particular, esteemed names such as Margherita Cattaneo, Ada Negri, Alba De Céspedes and Ojetti herself collaborated on various occasions (such as film criticism or journalism, scriptwriting work, the periodical l'Almanacco della donna italiana) and lent important support to each other.

 

1. Il Salviatino e Paola Ojetti

«Da questo poggio dov’è casa mia, vedo tutta Firenze, quella bella, quella antica, quella di macigno e di marmo» (U. Ojetti [1914] 1954, p. 3). Così Ugo Ojetti, critico d’arte, giornalista e ‘accademico d’Italia’, descriveva nei suoi Taccuini la posizione privilegiata del Salviatino, la villa storica immersa nel verde di Fiesole dove dal 1913 si stabilì con la moglie Fernanda Gobba e la figlia Paola [fig. 1]. Il salotto della sua abitazione non si affermava soltanto sul profilo rinascimentale della città, ma anche sul panorama mondano italiano: durante il ventennio divenne infatti un importante luogo di ritrovo per artisti, intellettuali e gerarchi. All’interno di questo contesto pienamente integrato nella società fascista, si era formata tra anni Trenta e Quaranta una rete femminile: attraverso i loro rapporti di amicizia, alcune professioniste della scrittura e del giornalismo (anche nelle vesti della critica cinematografica e della sceneggiatura) conoscevano nuove occasioni lavorative, ponevano le basi per collaborazioni presenti e future e si prestavano un inedito supporto.

Mentre nuove opportunità e cambiamenti nelle possibilità di vita delle donne italiane convivevano e si scontravano con l’ideologia patriarcale e repressiva del fascismo (Benadusi 2014), il regime dispiegò nei confronti del lavoro femminile una radicale politica di discriminazione che faceva certamente leva su pregiudizi di vecchia data ma ne accentuava gli svantaggi e lo sfruttamento (De Grazia, 1992, p. 167). In questo quadro, le professioni intellettuali erano difficilmente accessibili alle donne. Eppure, alcune attività, come la scrittura, il giornalismo e la traduzione, in particolare se non si mostravano, in apparenza, di prestigio (come il lavoro di pubblicista o la letteratura rosa), parevano offrire una veste maggiormente consona al lavoro femminile. Ciò poteva accadere per una supposta posizione ancillare rispetto allo status autoriale, ma anche per la flessibilità di alcune figure e per la possibilità di svolgere certi compiti in una dimensione domestica (De Grazia, 1992, pp. 195-196; Ferrando, 2020). Proprio gli spazi della casa potevano configurarsi come un inedito territorio di emancipazione professionale, in particolare in contesti facoltosi e di prestigio sociale.

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Nasty Women (=donne sgradevoli) è la definizione che un piccolo gruppo di studiose, storiche del cinema e archiviste cinetecarie hanno dato alle protagoniste non convenzionali di film comici muti per proporne una valorizzazione nell’ambito dei festival cinematografici di settore, nonché una chiave di lettura più determinante nella stratificazione delle dinamiche sociali legate alle prospettive di genere. Infatti, le studiose Maggie Hennefeld (University of Minnesota, Minneapolis), Laura Horak (Carleton University, Ottawa) ed Elif Rongen-Kaynakçi (EYE Filmmuseum, Amsterdam) si riferivano esplicitamente a quello che è diventato una sorta di grido di battaglia femminista dall’ottobre 2016, quando durante la campagna elettorale di Donald Trump, in un dibattito televisivo tra i candidati alla presidenza degli Stati Uniti, Trump ha interrotto Hillary Clinton sibilando nel microfono «such a nasty woman» («che donna odiosa»). Figure comiche come Léontine, Rosalie, Cunégonde, Lea, Gigetta, Tilly e Sally hanno interpretato ruoli in grado di smascherare il potere patriarcale, smarcandosi dalla rigidità delle norme sociali primonovecentesche, travolgendole insieme con noncuranza distruttiva e allegra incoscienza, per scardinare gli assunti sul decoro fisico femminile. L’idea della deflagrazione dello spazio domestico, come il leitmotiv della catastrofe in cucina, si basa sulla convenzione dell’ambiente casalingo come luogo in cui i confini tra le sfere del pubblico e del privato, separate sulla base dell’identità di genere, vengono messi in discussione, nel potere irriverente della vis comica. La Nasty Woman è una burlona da slapstick, il cui spirito distruttivo è incontenibile e demolisce le griglie delle norme istituzionali del proprio tempo in una fisicità gioiosa e alternativa.

«Nasty Women» is the definition that a small group of scholars, film historians and film archivists have given to unconventional female protagonists of silent comedy films in order to propose an appreciation of them in the context of industry film festivals, as well as a more decisive key in the layering of social dynamics related to gender perspectives. In fact, scholars Maggie Hennefeld (University of Minnesota, Minneapolis), Laura Horak (Carleton University, Ottawa) and Elif Rongen-Kaynakçi (EYE Filmmuseum, Amsterdam) were explicitly referring to what has become something of a feminist battle cry since October 2016, when during Donald Trump's election campaign, in a televised debate between the candidates for the U.S. presidency, Trump interrupted Hillary Clinton by hissing into the microphone «such a nasty woman». Comic figures such as Léontine, Rosalie, Cunégonde, Lea, Gigetta, Tilly, and Sally have played roles that unmask patriarchal power, untangling themselves from the rigidity of early 20th-century social norms, sweeping them together with destructive nonchalance and cheerful recklessness to unhinge assumptions about female physical decorum. The idea of the deflagration of domestic space, like the leitmotiv of catastrophe in the kitchen, is based on the convention of the home environment as a place where the boundaries between the spheres of public and private, separated on the basis of gender identity, are challenged, in the irreverent power of the vis comica. The «Nasty Woman» is a slapstick prankster whose destructive spirit is irrepressible and demolishes the grids of the institutional norms of her time in a joyful and alternative physicality.

 

1. ‘Nasty Women’: dal patriarcato contemporaneo alle figure femminili del patrimonio cinematografico comico del primo Novecento

Le studiose e curatrici Maggie Hennefeld (University of Minnesota, Minneapolis), Laura Horak (Carleton University, Ottawa) ed Elif Rongen-Kaynakçi (EYE Filmmuseum, Amsterdam) [fig. 1] si riferivano esplicitamente a quello che è diventato una sorta di grido di battaglia femminista dall’ottobre 2016, quando durante la campagna elettorale di Donald Trump, in un dibattito televisivo tra i candidati alla presidenza degli Stati Uniti, Trump ha interrotto Hillary Clinton sibilando nel microfono «such a nasty woman» («che donna odiosa»). «Nasty Woman» è dunque diventato virale sui social network in una direzione e significato opposto all’insulto di Trump: è diventato un simbolo femminista, di rifiuto della discriminazione e dell’abuso patriarcale verso un nuovo movimento politico femminista.

È in questo contesto che le studiose sopra citate propongono una presa di posizione dichiaratamente femminista nell’analisi storiografica e nel processo di valorizzazione di figure comiche del cinema muto: figure come Léontine, Rosalie, Cunégonde, Lea, Gigetta, Tilly e Sally hanno interpretato ruoli in grado di rivelare il potere patriarcale, smarcandosi dalla rigidità delle norme sociali primonovecentesche, travolgendole insieme con noncuranza distruttiva e allegra incoscienza, per scardinare gli assunti sul decoro fisico femminile. Le ‘Nasty Women’ mettono alla prova i confini e ribaltano gli stereotipi di genere, compresi quelli poi riprodotti dal cinema commerciale, all’opposto delle immagini hollywoodiane delle donne all'inizio del XX secolo, le quali invece si ponevano molto spesso sulla falsariga dell’immaginario stilnovista che ha caratterizzato la rappresentazione delle donne per secoli.

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  • Arabeschi n. 21→
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Se per le donne la casa è tradizionalmente luogo di segregazione e separazione dalla cosa pubblica, in questa indagine dedicata alle forme audiovisive dello spazio domestico si rivela anche cornice per nuovi intendimenti, gesti di resistenza e atti di ribellione, tessitura di relazioni proibite e impreviste, cura che si trasforma in rete di relazione con altre e altri, in luogo di elaborazione e costruzione di modelli alternativi di socialità e di rappresentazione. Insospettabile luogo del divenire, lo spazio domestico assume i tratti di un laboratorio femminile dove si affinano pratiche e pensiero. Il cinema e l’audiovisivo ci consegnano in molteplici modi questa dimensione creativa: attraverso le narrazioni (dentro e fuori dal canone); le rappresentazioni divistiche e spettatoriali; le pratiche cine e video sperimentali e quelle in bilico tra le arti (performance, fotografia, installazioni). Con un approccio interdisciplinare e transnazionale, intrecciando diverse prospettive metodologiche – Film Studies, Production Studies, Performance Studies, Visual Culture, Arti visive e Fotografia – questa galleria ripercorre le stanze di una «casa delle donne» liberata dal fantasma dell’angelo del focolare. Questo numero di Smarginature, così come il Forum Fascina 2022, vuole festeggiare un'autentica amica geniale, Giulia Carluccio. Brindiamo a lei, dunque, con riconoscenza e ammirazione per quanto ha fatto come Presidente della Consulta Universitaria del cinema, e per molto altro.

If for women the house is traditionally a place of segregation and separation from public affairs,  audiovisual forms of domestic spaces also reveal a framework for new understandings, gestures of resistance and acts of rebellion. Unsuspected place of becoming, the domestic space takes on the features of a female laboratory where practices and thoughts are refined. Cinema and the audiovisual deliver this creative dimension to us in many ways: through narratives (inside and outside the canon); star and spectator representations; experimental video practices and those hovering between the arts (performance, photography, installations). With an interdisciplinary and transnational approach, intertwining different methodological perspectives - Film Studies, Production Studies, Performance Studies, Visual Culture, Visual Arts and Photography - this gallery retraces the rooms of a "women's home" freed from the ghost of the angel of the house.

 

«A quei tempi (gli ultimi della Regina Vittoria), ogni focolare aveva il suo angelo», attestava, nel 1931, Virginia Woolf parlando alla National Society for Women’s Service e, in particolare, alle giovani in ascolto. Dichiarava come uccidere ‘l’angelo del focolare’ avesse rappresentato un’esperienza ineludibile per se stessa e per le donne della sua generazione decise a intraprendere il mestiere di scrittrice o, più in generale, a esercitare la libertà del proprio pensiero. Attenta alle implicazioni delle condizioni economico-materiali sui destini delle donne, Woolf, in quell’occasione, individuava l’impedimento più granitico, periglioso e infido in una delle creazioni forgiate dall’immaginario patriarcale: un ‘fantasma’ dalle sembianze femminee, in grado di catturare nel gorgo della propria similitudine speculare ogni moto di devianza. Testimonianza e invettiva al contempo, il testo di Woolf è scandito da una continua tensione tra un approccio storicizzante e un orizzonte atemporale, infestato dalla creatura fantastica di cui evidenziava la persistenza e la resilienza.

A quasi cent’anni di distanza, il lascito di Woolf, giunto oggi a noi in Professioni per le donne, pubblicato postumo, è riconoscibile proprio nella natura fantasmica attribuita dalla scrittrice all’angelo del focolare impregnante lo stesso spazio domestico, garante della sua esistenza e contestualmente campo di esercizio della sua coercizione. Del revenant è il tratto iterativo, carsico, multiforme dell’aggressione che chiama ancora oggi le donne a reiterare l’esperienza fondativa invocata da Woolf. I momenti di ‘crisi’ – come quella indotta dal covid – si fanno al riguardo faglie emblematiche.

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