«A quei tempi (gli ultimi della Regina Vittoria), ogni focolare aveva il suo angelo», attestava, nel 1931, Virginia Woolf parlando alla National Society for Women’s Service e, in particolare, alle giovani in ascolto. Dichiarava come uccidere ‘l’angelo del focolare’ avesse rappresentato un’esperienza ineludibile per se stessa e per le donne della sua generazione decise a intraprendere il mestiere di scrittrice o, più in generale, a esercitare la libertà del proprio pensiero. Attenta alle implicazioni delle condizioni economico-materiali sui destini delle donne, Woolf, in quell’occasione, individuava l’impedimento più granitico, periglioso e infido in una delle creazioni forgiate dall’immaginario patriarcale: un ‘fantasma’ dalle sembianze femminee, in grado di catturare nel gorgo della propria similitudine speculare ogni moto di devianza. Testimonianza e invettiva al contempo, il testo di Woolf è scandito da una continua tensione tra un approccio storicizzante e un orizzonte atemporale, infestato dalla creatura fantastica di cui evidenziava la persistenza e la resilienza.
A quasi cent’anni di distanza, il lascito di Woolf, giunto oggi a noi in Professioni per le donne, pubblicato postumo, è riconoscibile proprio nella natura fantasmica attribuita dalla scrittrice all’angelo del focolare impregnante lo stesso spazio domestico, garante della sua esistenza e contestualmente campo di esercizio della sua coercizione. Del revenant è il tratto iterativo, carsico, multiforme dell’aggressione che chiama ancora oggi le donne a reiterare l’esperienza fondativa invocata da Woolf. I momenti di ‘crisi’ – come quella indotta dal covid – si fanno al riguardo faglie emblematiche.
Affatto neutrale, il carattere essenzialmente haunted del domestico è dunque di volta in volta storicamente abitato da forze ed energie che necessitano di essere costantemente affrontate; spazio materiale e simbolico, espone la solidità delle proprie barriere ma è capace, fluidamente, di permeare di sé anche architetture e strutture apparentemente altre, esterne al perimetro. In un contributo degli anni Ottanta sulla possibile configurazione di una città non sessista, l’architetta e studiosa Dolores Hayden interlacciava l’housing con il design urbano e l’organizzazione del lavoro. A suggello dello sguardo portato sulla progettazione delle città statunitensi nel Novecento (Hayden, 1980) è l’assioma «il posto della donna è in casa»; posto significativamente nell’incipit del suo articolo, era da Hayden individuato tra i principi sottesi, ma dominanti, e a lungo operante con modalità implicita nella predisposizione di zonizzazioni di fatto. Ancora, quando non interdetto o difficilmente frequentabile, lo spazio pubblico ̶ qual è quello delle professioni o del governo ̶ si fa ‘domesticamente’ normato, modellando comportamenti, prossemiche, aree di visibilità e percorribilità.
Nella ricorsiva necessità di fare fronte all’antica nemica, le donne hanno saputo tuttavia anche individuare nelle potenzialità commutative del fantasma e nelle pratiche di ‘bonifica’ l’ambito strategico di intervento; di qui l’azione trasformativa di una presenza espropriata nelle forme di un abitare in cui risuoni il sentimento di un ‘sentirsi a casa’ da riversare oltre la soglia quale agente di radicale riformulazione dello spazio sociale. Dal domestico, le donne, potremmo dire, hanno guardato a un’idea di mondo capace di ospitare ‘stanze tutte per sé’, fucine accoglienti delle differenti soggettività. Prendersi cura della casa-mondo diventa allora pratica politica, affrancata dalle funzioni oblative originarie. Un prendersi cura come gestione ma anche come progettazione di architetture di pensiero, di comportamenti, di rappresentazione.
Dalla rivolta alla riappropriazione, il percorso non è stato lineare né immediato. Riprendendo le parole di Claudia Mattogno nel suo Progettare con cura (2018, p. 241), è stata necessaria «una pedagogia dello spazio» riformulata. L’autrice ricorda al riguardo l’alfabetizzazione portata avanti negli anni Settanta nella lettura e decifrazione dei disegni tecnici di progettazione urbana nell’attivismo dei collettivi femministi e dei movimenti della nuova architettura. Ad affacciarsi è la necessità di un cambio di paradigma che Marta Lonzi, componente del gruppo Rivolta Femminile – creato, tra le altre, anche dalla sorella Carla – in L’Architetto fuori di sé (1982) collocava nel passaggio da un’ottica demiurgica alla progettualità a un approccio relazionale, dalla distanza oggettivante al confronto vivo con le materialità quotidiane. Nel ‘fuoriuscire’ il pensiero delle donne ha operato dislocazioni verso zone interstiziali, i margini in una messa in discussione di gerarchie e posizionamenti.
Intercettando slanci e battute d’arresto, in queste righe solo suggerite, le pagine che seguono rintracciano riaffioramenti spettrali, pratiche insediative e progettualità trasformative che hanno scandito – e continuano a scandire – il lungo ritorno ‘a casa’ delle donne, nella pluralità delle loro soggettività, all’interno dello spazio-mondo del cinema e dell’audiovisivo in un orizzonte di intrecci e sconfinamenti tra media e linguaggi.
1. La casa è lo schermo. Ombre, luci e proiezioni di libertà
Luogo reale e simbolico di costruzione o, forse più propriamente, di edificazione dei destini femminili autorizzati, la casa ha lungamente contenuto e insieme propagato innumerevoli, e apparentemente invincibili, stereotipi muliebri incentrati sull’efficienza pragmatica, sull’etica del sacrificio, e sulle segrete gioie del dono di sé. La dimora familiare, del padre prima e del marito poi, desiderata quale segno concreto della propria affermazione sociale, si mostra, nei primi vorticosi decenni del Novecento, infragilita da impreviste pulsioni, scossa da sommovimenti che covano nel profondo. A raccontarlo è anzi tutto la letteratura, che volentieri indugia sul confine fra dentro e fuori, mettendo in scena personagge obbedienti e trasgressive, indecise sulle soglie di appartamenti confortevoli, dove inizialmente si accomodano quali eleganti prigioniere, avvolte in sontuose vestaglie disegnate da Fortuny, per poi tramutarsi in ombre fuggitive, e pertanto massimante desiderabili, per sempre perdute, e imprendibili. Mi riferisco, ma soltanto in un rapido passaggio, alla Albertine di Proust, della quale scrive qui Beatrice Seligardi, e alle sue pose feline, a quell’incedere di gatta parimenti attratta dalla morbidezza placida dei cuscini e dalla saettante traiettoria di una bicicletta che corre via, conquistandola con l’affascinante mutevolezza del suo divenire. E ancora vorrei convocare, accanto alla umbratile fanciulla in fiore – così vicina, peraltro, alla giovane in fiamme di Sciamma, per l’intimità domestica e per quel senso di comunanza, di minuta complicità che assorella, pur nella siderale lontananza di narrazioni che non si toccano, queste donne che amano le donne – la spigolosa silhouette della Massaia raccontata da Paola Masino (1941-42), anche lei segregata, ancorché per sua tenace determinazione, nella casa di un uomo borghese. Figura luminosa e tuttavia scontornata dall’oblio, paradossalmente dissolta dalla raffinatezza di un romanzo incandescente, fuori dal canone e «imperfetto» (Manetti, 2016), la protagonista della esorbitante parabola donnesca che sconcertò l’Italia fascista ingaggia un feroce corpo a corpo con la magione coniugale, prendendo alla lettera, con piglio filosofico, i valori e i compiti della perfetta padrona di casa, regina e schiava allo stesso tempo, giungendo addirittura, in un parossismo grottesco, a saggiare con la lingua la nettezza dei pavimenti:
non ebbe ritegno dal buttarsi in ginocchio e due, tre volte, con scrupolo, leccare il pavimento […]. Scivolava avanti e indietro sul marmo lucidato a piombo e un sentore frizzante, quasi di mosto, saliva dalle giunture delle lastre; un fermento algido, una vaporazione di morte minerale, brulichio di germi stellari, l’annuncio di imbalsamati universi. La punta della lingua, fatta di ghiaccio, le si era saldata al pavimento, ma la donna rimase così, con il viso a terra, ad annusare e respirare il fiato della pietra (Masino, 2018, p. 146).
Creatura dell’eccesso, è nella cornice incomprensibile e tuttavia assoluta della guerra che ella trova la misura eroica del suo ministero casalingo, in un insensato crescendo di impegno per la Casa e per la Patria che travalica, per straripante zelanteria, i confini del ridicolo e la conduce alla morte.
Certamente le narrazioni letterarie, e in particolare quelle delle scrittrici, hanno lavorato con acribia sui fili sottili che annodano le donne allo spazio domestico, mettendone a fuoco la dialettica problematica e le complicate contraddizioni; ed è appena il caso di ricordare Virginia Woolf, la maestra di tutte, e la sua stanza, che risuona come un auspicio, un progetto o forse una chimera di libertà. Ma è il cinema a consegnarci le immagini più vivide del periglioso legame che avvince i personaggi femminili alle case in cui abitano per amore o per forza, offrendo una gran messe di situazioni possibili, o immaginabili, sia nelle inquadrature sensibili e rarefatte dei film di ricerca, sia in quelle risapute, convenzionali, eppure persuasive, del mainstream. Penso, scegliendo svagatamente nella mia memoria di spettatrice, a Une femme douce di Robert Bresson (1969), alla casa-prigione di quel bottegaio feroce, sorta di angusto scrigno piccolo-borghese dove brilla l’ovale perlaceo di Dominique Sanda, la cui morte, per silenzioso e opaco suicidio, agìta come la più tragica e definitiva delle evasioni, viene restituita dallo sguardo di Bresson attraverso l’impalpabile volo della sua sciarpa bianca, che si gonfia nel riquadro della finestra. E dall’altro lato, volgendomi con pari svagatezza alla produzione di genere, intravedo la vasta schiera di salotti, di voluttuose camere da letto e di imponenti scaloni elicoidali del cinema déco, frutto dell’inventiva di abili e fantasiosi scenografi. Sono case-teatro dove le attrici del ventennio si trovano incastonate in quadri casalinghi immaginifici e artificiosi, gabbie dorate di stucco e cartapesta da abitare in vesti da sera, che talvolta però sembrano tremare per i passi arditi di Alida Valli, per l’andatura sportiva e dispettosa di Lilia Silvi o per il romantico, ingenuo ancheggiare di Assia Noris.
Così, per le donne di celluloide, lo schermo è la casa, perché proprio come le pareti domestiche nasconde, custodisce e infine mostra, esibisce persino, le traiettorie impreviste della soggettività femminile. Lo testimoniano le immagini e i testi qui raccolti, che esplorano questa tematica rimirando un paesaggio piuttosto ampio e variegato, procedendo rapsodicamente dagli anni oscuri e fascinosi del cinema primitivo per giungere a lambire la contemporaneità più prossima. Ad aprire le danze è il contributo di Rossella Catanese, che percorre le vie del sovvertimento comico attraverso una infilzata di film dei primi anni Dieci, nei quali riecheggia il muto fragore delle case devastate, messe a soqquadro e finanche allagate dalla furia giocosa di ragazzine non accortamente sorvegliate e dalla goffa, anarchica imperizia di vivaci e giovanissime cameriere. Ancora sul versante del capovolgimento, ma seguendo i sentieri più composti dell’intellettualità, germina la riflessione di Stella Scabelli, che propone un inedito affondo nell’archivio Ojetti e nel sofisticato salotto del Salviatino per illuminare la rete di relazioni femminili che, attorno agli schermi di regime, ha consentito a numerose scrittrici di cimentarsi nel giornalismo, nella critica cinematografica e, soprattutto, di imprimere una svolta decisiva alla nascente industria culturale italiana. Sempre a partire dai salotti fascisti, luoghi vivificati da una rigogliosa conflittualità, dove l’immobilismo tradizionalista di ascendenza ottocentesca è messo in crisi da potenti spinte di modernità, Carla Mereu Keating prende l’abbrivio per guardare alle donne nuove e in particolare le ‘fautrici della casa del cinema’ ossia alle professioniste che, variamente, in quel torno d’anni frequentano, spesso non vedute né prese in considerazione, gli spazi di lavoro della filiera filmica.
Incontriamo poi, grazie al saggio di Chiara Tognolotti, il profilo di Isa Miranda, ritratta in una postura desueta, che si poggia sulle case della sua vita, ricordate negli scritti autobiografici e poetici e messe in scena nell’episodio a lei tributato di Siamo donne (1953). Emerge l’ossatura di una personalità malinconica, punteggiata di perdite, in primis quella dell’abitazione milanese dei suoi anni di bambina e di ragazza proletaria, distrutta da un bombardamento. In un dolente esercizio di memoria, tra le macerie della guerra, l’attrice si sforza, con la tenacia che tutte e tutti le riconoscono, di ritrovare quella parte di sé e propriamente di riscriverla, allontanandosi con decisione dall’ombra della femme fatale interpretata sugli schermi del cinema internazionale.
Sulla guerra e sulla conseguente penuria e desiderio di cibo che si riverbera, con densi rimandi simbolici e culturali, nelle cucine autarchiche riflette Elena Mosconi, che propone un desueto e persuasivo itinerario fra i fornelli e le sale da pranzo di alcune commedie del 1943, anno cruciale, per ovvie e innumerevoli ragioni, per la storia e per il cinema italiano.
Stefania Carpiceci, invece, soffermandosi sull’alfabeto woolfiano, ordisce un personale itinerario all’interno delle cucine di Luchino Visconti, in Ossessione (1943) e Rocco e i suoi fratelli (1960), cercando le tracce, in ogni modo disturbanti, dell’angelo del focolare e della pazza in soffitta. Anche Marga Carnicè-Mur recupera le radici del pensiero femminista, tanto che rilancia la ricerca su Anna Magnani costruendo a partire da lei e dal suo abitare lo spazio domestico, nei film e nella vita, una convincente genealogia del sovvertimento. In particolare, analizza alcuni ritornanti motivi iconografici, fra i quali spicca, per densità emotiva e potenza rigenerativa, l’immagine della donna sul letto, luogo di esperienze estreme, che trascolorano dal dolore al piacere, dalla nascita alla morte, affidandoci «un fecondo fuori campo legato alle profondità dell’inconscio».
Una terza grande attrice e invero una mattatrice, Monica Vitti, campeggia, graziosamente e ironicamente distratta, fra le pagine di questa galleria. Icona reticente della tetralogia antonioniana, la sua figura è connessa saldamente all’idea del sabotaggio, compiuto con piccoli e illusoriamente innocui gesti, della stabilità normativa borghese. Qui Martina Zanco la segue nelle case della commedia all’italiana, marcate da garrula e colorata eleganza: spingendo sulla componente slapstick, sapientemente mescidata con gli stilemi antichi e modernissimi della commedia dell’arte, Vitti si muove in maniera selvaggia e beffardamente anti borghese sconvolgendo dall’interno quegli spazi aggiornati sullo chic, di per sé bislacco e giocosamente irridente, del design e dell’arredamento Pop caratteristici del genere forte della cinematografia nazionale.
Anche Angela Bianca Saponari si misura con l’immagine di Monica Vitti e con i suoi legami con la avveniristica Villa Bini, in Sardegna, luogo del cuore e segno del peculiare legame con Antonioni, con il quale peraltro l’attrice ha condiviso non l’abitazione principale, ma per così dire l’ascensore, giacché come è noto il loro ménage romano prevedeva due appartamenti nella stessa palazzina: contigui ma, modernamente, separati. Saponari indaga poi le ville da sogno, composte da decine di stanze, isolate in ritiri prestigiosi nelle campagne attorno a Roma, di Sophia Loren e di Silvana Mangano. L’autrice ravvisa nella raffinata struttura di quelle dimore favolose, ampiamente esplorate e messe in scena dalla stampa popolare, le sottese contraddizioni che si andavano diffondendo nel corpo sociale italiano, percorso da tensioni e desideri inconciliabili per le donne, prese fra il vagheggiamento di un focolare confortevole e la spinta ad abbandonare le sponde tradizionali per gettarsi nel mondo di fuori, in una piega avventurosa e finalmente affrancata dalla domesticità.
Lucia Di Girolamo continua a tenerci in compagnia delle attrici italiane, con una prima incursione negli archivi fotografici della agenzia DIAL, componendo una saporita sequenza di star nostrane immortalate sui ‘set’ delle loro ville, prova architettonicamente tangibile del successo raggiunto che si diffonde, senza soluzioni di continuità, negli spazi intimi e familiari in quelli magniloquenti, bonariamente lussuosi, della messa in scena divistica.
Dispiegando la loro attenzione sul côté del Black cinema, Daniela Ricci e Micaela Veronesi affrontano con Bush Mama di Haile Gerima (1975) la storia di una donna afroamericana, Dorothy (impersonata da Barbara O. Jones), che compie la sua rivoluzione, autodistruttiva ma necessaria, a partire dalla casa, luogo di iniziale costrizione finalmente liberato, seppure distrutto, dal quale, ricordando bell hooks, può misurarsi in modo libero con la sua umanità.
Paola Zeni, che pure si confronta con il cinema internazionale, sceglie di inseguire il corpo energico di Kristen Stewart, protagonista di incomparabili performance all’interno dei più disparati spazi domestici, dalla Panic Room di David Fincher (2002) dove, appena undicenne, interpreta una ragazzina capace di insospettabili risorse di resistenza e di audacia, respingendo, assieme alla madre (Jodie Foster), la violenta aggressione della loro casa; alle regali stanze del recente Spencer di Pablo Larraín (2021), nel quale dà corpo alle inquietudini della principessa Diana, che si agita nei meandri di scintillanti o diroccati palazzi, ville e sotterranei rievocando, in un certo senso, la pazza in soffitta tratteggiata da Woolf.
Infine, individuando e stringendo il nodo che lega dive e regine, il saggio di Simona Busni, dedicato alle sovrane dello schermo, chiude la sezione. Passando dalla ‘stanza dell’amore’ di Cristina, interpretata da Greta Garbo nella pellicola del 1933 (Queen Christina, R. Mamoulian), alle ‘private audience room’ di Elisabetta II, la scrittura di Busni tiene insieme, magistralmente e con approccio intermediale, l’ambivalenza delle case reali dislocate sul palcoscenico (The Audience, P. Morgan 2013), sul grande schermo (The Queen, S. Frears 2006) e su quello piccolo, ma straordinariamente pervasivo e insistente della serialità televisiva (The Crown, 2016-2020).
2. Intrecci intermediali
La casa è stata spazialmente intesa, perlopiù, come luogo di immobilità, simbolo di costrizione fisica per chi la abita. Ma è pur vero che proprio la casa può trasformarsi in luogo di attraversamento, di scontro e incontro di polarità tensive, attraverso una superficie porosa dalle cui aperture è possibile rivolgere lo sguardo a ciò che sta al di fuori. Questa capacità di ibridarsi, che il domestico e il quotidiano manifestano in maniera spesso nascosta e obliqua, appare tanto più pronunciata in quelle testualità che sono esse stesse frutto di sconfinamenti tra i media, i codici, i generi e in particolar modo nel duplice scambio tra parola e immagine, sia statica che in movimento. Recuperare l’inclinazione plurale della rappresentazione domestica significa allora interrogarsi anche sulle modalità in cui l’intreccio intermediale favorisce l’emergere di una complessità tutt’altro che semplice da inquadrare, eppure proprio per questo capace di decostruire lo spazio, liberando la casa dal rischio di farsi ‘luogo comune’.
Un primo ambiente di continua contrattazione del sé, di sconfinamento tra pubblico e privato, è rappresentato dal salotto, stanza che la tradizione del novel borghese ci ha insegnato essere dotata di un capitale simbolico fortissimo: è lo spazio della messa in scena della classe sociale, dell’esibizione dell’armonia domestica, il regno del ‘femminile’ per eccellenza, come ci mostra l’analisi di Giulia Muggeo condotta a partire dalle norme di galateo impartite dall’Enciclopedia della donna, pubblicata a partire dal 1963. Ma se il salotto è spesso legato a un’immagine di sottomissione, di reclusione del soggetto femminile costretto nel ruolo deteriore di ‘angelo del focolare’, nondimeno può trasformarsi in uno spazio in cui esercitare anche una forma di nuova emancipazione, a partire dalla responsabilità estetica che la donna assume di fronte alla casa del boom economico, in cui l’organizzazione sapiente dello spazio riservato al nuovo elettrodomestico per eccellenza, quella «finestra sul mondo» che è il televisore, si trasforma, paradossalmente, anche in una strategia per uscire dai confini passivi della ‘spettatrice’, verso piuttosto una agency da «amministratrice di una nuova routine».
Il salotto, poi, possiede anche una storia alternativa a quella spiccatamente borghese, una storia di lunga durata che lega la donna alla prassi intellettuale: il salotto letterario, animato da donne che aprono la propria casa alla parola, alla discussione, al confronto anche per uscire dai confini asfittici della stessa dimora, è ripresa nelle parole di Corinne Pontillo a proposito di Elsa de’ Giorgi, attrice, scrittrice, salottiera, che incarna quella necessità di essere corpo e mente comune alle figure riconducibili al fenomeno divagrafico. Sondando le scritture autobiografiche e romanzesche dell’autrice e confrontandole con le testimonianze di chi a quelle feste aveva partecipato assiduamente, nonché guardando anche ai ruoli interpretati sul grande schermo, Pontillo delinea il ritratto di una vera e propria salonnière contemporanea capace di attribuire al salotto le molteplici funzioni di rifugio e di luogo politico; una salonnière che alla sapienza del corpo, esibito con arguzia attraverso mascheramenti che rivelano la sua intelligenza attoriale, unisce il desiderio di una vita della mente: «Tutta la mia seduzione l’ho esercitata per essere riconosciuta come persona pensante», affermerà proprio de’ Giorgi.
Il salotto è anche una fra le stanze messe a fuoco da Maria Rizzarelli a proposito del cinema lesbico contemporaneo, secondo percorsi che intrecciano l’immagine in movimento e la parola esibita, oppure latente, sullo schermo. Se ad esempio in Portrait de la jeune fille en feu di Céline Sciamma (2019) la cucina viene eletta a «luogo dell’alchemica riscrittura delle dinamiche dello sguardo creativo» anche alla luce di una ri-lettura eccentrica e dirompente del mito di Orfeo ed Euridice nelle Metamorfosi ovidiane, in La vie d’Adèle di Abdelatif Kechiche (2013) e Carol di Todd Haynes (2015) – entrambi adattamenti cinematografici a partire dalla graphic novel di Jul’ Maroh e dal romanzo di Patricia Highsmith – risemantizzano la mappatura domestica, dalla camera da letto al giardino passando per il salotto, in funzione di una specifica capacità di abitare lo spazio, fatta di gesti minimi eppure cruciali, come una mano sulla spalla o uno sguardo che dialoga silenziosamente con gli oggetti e con lo spazio circostante. Attraverso ulteriori dispositivi scopici insiti nelle soglie domestiche, come le finestre dello studio della poeta Elizabeth Bishop in Flores raras–Reaching for the moon (2013) di Bruno Barreto, o il vialetto percorso da Emily Dickinson in Wild Nights with Emily di Madeleine Olnek (2018), anche lo spazio della creazione poetica assume, nella sua interstizialità, una connotazione eversiva, sorprendentemente mobile pur nell’apparente staticità del corpo.
«La casa come luogo della scrittura» è anche quella di Marguerite Duras a Neauphle-le-Château, che la scrittrice-regista elegge a set per il film Nathalie Granger (1972) analizzato nel saggio di Ivelise Perniola. In questa «casa-utero» viene a innescarsi un procedimento di piena compenetrazione fra il mondo ‘reale’ dell’autrice, che non possiede uno studio perché è la casa nella sua interezza a costituire lo specchio del suo ordine interiore e creativo, e quello finzionale popolato da due donne e dalle rispettive figlie, capaci di costruire uno spazio di libertà rispetto alla violenza maschile del mondo esteriore.
La dimensione materna, osservata nella complessità delle sue dinamiche più controverse, in perenne oscillazione fra senso di cura e sentimento di reciproca oppressione, è al centro dell’intervento di Federica Piana: a partire dalla lezione del Southern Gothic, la cui maestra indiscussa è stata la scrittrice statunitense Shirley Jackson, Piana analizza alcuni esempi di cinema horror contemporaneo per decostruire la tematizzazione del «mostruoso materno» nella sua intima relazione con uno spazio domestico fantasmatico. Superando, in questo modo, le stereotipie di genere, è possibile dare forma a una rappresentazione complessa di «paure ataviche e universali: il terrore di non essere una buona madre e, viceversa, quello di non essere amato dalla propria madre; il venire a patti con la malattia e la perdita di un genitore anziano e la paura, in età matura, di essere dimenticato dai propri cari».
Giulia Lavarone e Diletta Pavesi muovono a partire da un’altra casa in cui emergono trame contradditorie di violenza, e di cui il corpo femminile appare, al contempo, vittima e carnefice: entrambe prendono spunto da un medesimo esempio filmico – Lady Macbeth di William Oldroyd (2016) – per creare intrecci intermediali a cavallo tra parola, immagine in movimento e riferimenti pittorici che ci raccontano storie decisamente poco pacificanti di auto-reclusione, dominio e vendetta. Il film di Oldroyd, liberamente ispirato all’omonimo racconto di Nikolaj Leskov e intriso delle iconografie pittoriche di Vilhelm Hammershøi, viene analizzato da Lavarone seguendo le trame della riscrittura operata dalla sceneggiatrice Alice Birch, e per questo osservato in parallelo a un altro film scritto dalla stessa Birch, ovvero Secret love (Mothering Sunday) diretto da Eva Husson (2021) – a sua volta adattamento del romanzo di Graham Swift. Il background teatrale della sceneggiatrice sostiene la sua capacità di rivivificare il ruolo narrativo delle abitazioni in entrambe le pellicole: pur nelle consistenti differenze, i film mostrano donne inizialmente vessate da una condizione di subalternità, ma in grado di rovesciare le proprie sorti attraverso una fisicità che si manifesta in maniera anche brutale, benché l’ombra dell’oppressione patriarcale appaia tutt’altro che definitivamente dissolta. Pavesi propone un confronto tra le atmosfere ruvide di Lady Macbeth e quelle più soffuse, ma non meno violente, di The Beguiled di Sofia Coppola (2017): attraversando le pellicole, entrambe ascrivibili al genere del period drama, e rintracciandone tangenze e divaricazioni, l’autrice ci riporta il ritratto di personagge in continua oscillazione fra reclusione ed evasione: «storie di un focolare domestico che la donna, a qualsiasi costo, è pronta a conquistare o riconquistare».
La dicotomia fra spazio interno e spazio esterno è al centro della riflessione di Marina Guglielmi, che si sofferma sul film sudcoreano Castaway on the Moon (2009), seconda opera del regista Lee Hey-Jun. Rientrando all’interno del filone delle robinsonnades – ovvero le scritture letterarie e cinematografiche ispirate al Robinson Crusoe di Daniel Defoe (1719) – la pellicola instaura una narrazione parallela a partire dalle ‘case’ decisamente atipiche di due personaggi di nome Kim: il primo è un uomo che ha perso tutto per debiti, e il cui tentativo fallito di suicidio lo porta a ritrovarsi bloccato su una piccola isola deserta di fronte alla città di Seul; la seconda è una ragazza hikikomori, che ha scelto di vivere reclusa nella propria camera da letto, interagendo con il mondo esterno solo attraverso una serie di strumenti – Internet, un telescopio, un casco per i rarissimi momenti in cui è obbligata a uscire di casa. È proprio un dispositivo scopico, ovvero il telescopio, a instaurare un collegamento fra la casa open air dell’uno e l’ambiente recluso dell’altra, favorendo, attraverso l’intreccio sentimentale che si costruisce fra i due, un progressivo reinserimento spaziale dei due soggetti all’interno della più ampia ‘casa’ che è la città, dove avranno infine modo di ritrovarsi.
La complessità del rapporto amoroso è alla base anche di un’altra serie di riscritture filmiche, a partire da un’opera teatrale che costringe la voce della donna/attrice nello spazio angusto di un interno: La voix humaine di Jean Cocteau (1930) è al centro del focus di Bernadette Luciano, che ne analizza tre adattamenti cinematografici, al centro dei quali si staglia la potenza della figura femminile e dell’attrice in tutta la sua ‘corporealtà’. La voce umana di Roberto Rossellini (1948), Voce umana di Edoardo Ponti (2014) e The Human Voice di Pedro Almodóvar (2020) si configurano, innanzi tutto, come tre omaggi alle rispettive interpreti – Anna Magnani, Sophia Loren, Tilda Swinton –, riplasmando la camera da letto originaria, abitata solo dal corpo dell’attrice e dal telefono, in un luogo della performance del sé, della «complessità dell’auto-rappresentazione della protagonista, del suo rapporto con gli oggetti e con gli spazi domestici in cui vive – spazi di sofferenza e assenza ma anche di agency e dignità».
Concludiamo i nostri attraversamenti all’insegna proprio del recupero dei «gesti fatti d’aria» che contraddistinguono lo spazio domestico secondo la riflessione di Carla Lonzi, ri-letta e re-inquadrata da Linda Bertelli che mette a fuoco tutta la potenza intermediale dell’edizione originaria del diario lonziano Taci, anzi parla. Diario di una femminista (1978). La tessitura di parola, pensiero e immagine di Lonzi, che vuole dare visibilità alla «cultura del sostentamento dell’umanità», può sussistere, come sottolinea Bertelli, solamente attraverso la mediazione estetica, che passa anche per progetti filmici abbozzati e incompiuti raccontati nelle pagine di diario, oppure per il montaggio fototestuale dell’album – apparato iconografico purtroppo perduto nelle edizioni successive del testo –, un dispositivo di narrazione del sé nel quale può intravedersi un vero e proprio ‘inconscio ottico’, che inquadra i «momenti della propria identità sui quali tornare (e ritornare) in quanto portatori di un’autocoscienza che, tuttavia, è ancora sepolta, non dispiegata», ma già avviata a quel processo di «fessurazione» decisiva per raggiungere la più piena trasformazione del sé.
3. Il cielo in una stanza: stereotipi e immaginario tra narrazioni televisive e social web
Secondo una celebre espressione, nel gennaio del 1954 la televisione entra nelle case degli italiani. Delle italiane, anche, ma all’epoca non c’era traccia di accese discussioni sulle desinenze legate al genere o sull’inclusività o sull’uso dello schwa.
È noto quanto gli anni Cinquanta abbiano contribuito, tra Stati Uniti e Europa, a ridefinire lo spazio domestico, anche nella declinazione di uno spazio di lavoro per la casalinga moderna, resa non solo professionista, grazie agli elettrodomestici, della cura della casa, ma anche arbitro di un gusto rinnovato dello spazio abitativo di una famiglia sempre più mononucleare in cui la moglie, liberatasi delle figure genitoriali, è regina indiscussa. Una casa che, nel Secondo Dopoguerra, viene costruita, a livello immaginario e soprattutto attraverso la pubblicità, come spazio di una nuova agency femminile ma che di fatto si fa prigione, rinnovato confine tra privato e pubblico in cui non c’è una ‘stanza tutta per sé’ ma piuttosto una stanza che assume senso per la donna solo se abitata da marito e prole – come hanno dimostrato gli studi di Giulia Muggeo nel contesto italiano (2021) – aprendosi solo così all’ingresso del cielo e a quegli «alberi infiniti» cantati da Mina nel 1960. È un immaginario potente, che costruisce nuovi e superflui bisogni e delinea un orizzonte di desiderio che risulta, proprio nell’apparente appoggio al bisogno di emancipazione femminile, un boomerang perché del tutto compromesso con il sistema sempre più neocapitalistico e uniformemente borghese che sta colonizzando anche l’Italia.
Sono due i contributi raccolti in questa sezione che indagano un orizzonte italiano in cui, nel corso dei decenni, gli stereotipi di genere, in barba a contestazioni e femminismi, non sembrano incrinarsi più di tanto. Sul salotto di casa, con diretto riferimento a nuovi generi della programmazione televisiva, si concentra Anna Bisogno. Negli anni Settanta, quando sulla spinta del Sessantotto sarebbe auspicabile un deciso cambio di rotta, un fenomeno televisivo che inizia ad imporsi in Italia come il talk show non fa altro che confermare ogni stereotipo, a partire dal caso di Bontà loro, animato da Maurizio Costanzo, per arrivare a fenomeni più contemporanei. Come conclude Bisogno, il ‘salotto’ televisivo rivela così, per dirla con Virginia Woolf, che «è molto più difficile uccidere un fantasma che una realtà». Passando dal salotto alla cucina, Gloria Dagnino evidenzia come la donna, dopo la definizione anni Sessanta di soggetto-target della comunicazione commerciale di elettrodomestici e spazi domestici più moderni, a partire dalla prima metà degli anni Ottanta diventa protagonista di alcuni messaggi pubblicitari non più soltanto come angelo del focolare ma come agente della modernità. Analizzando la campagna a stampa e poi televisiva della Scavolini a partire dal 1984, Dagnino sottolinea però l’involuzione della relazione di genere registrabile dalla testimonial Raffaella Carrà, «la più amata degli italiani» per la sua professionalità e eccezionalità, a Carlo Cracco, cuoco professionista. In mezzo, significativamente, una ben più rassicurante Lorella Cuccarini anni Novanta, di nuovo angelo del focolare in azione tra le pareti di una cucina.
Se i media sono linguaggio e il linguaggio struttura il pensiero, può succedere, come ricordato da Chiara Borroni e Barbara Grespi, che la modernizzazione dell’immaginario del lavoro casalingo implichi una ridefinizione, mediatica e non solo, del ruolo sociale della donna. L’analisi di alcuni esempi di narrazioni filmiche di sci-fiction, che hanno assunto come spazio della rappresentazione case elettrotecniche e domotiche, pone seri interrogativi sulla sempre più radicale dimensione di controllo dello spazio vitale e identitario delle donne, in una prospettiva che, secondo le studiose, si è radicalizzata con lo smart working post pandemico.
Per ritornare ancora a Borroni e Grespi, si delinea così chiaramente l’orizzonte di un falso empowerment femminile, finalmente denunciato in tante esperienze artistiche contemporanee, come le serie fotografiche di Patty Carrol e di Juno Calypso analizzate rispettivamente da Federica Villa e da Deborah Toschi. La serie che vede protagonista l’alter ego Joyce, nei panni in cui si autoritrae Calypso, racconta una donna rinchiusa nei luoghi considerati più intimi degli spazi domestici, e cioè camere da letto e da bagno. Questi spazi diventano set in cui la donna deve costantemente performare una femminilità posticcia, derivata tanto dall’immaginario pubblicitario anni Cinquanta-Sessanta qui sopra evocato, tanto dalla più recente ossessione dei bedroom selfie. Il lavoro fatto da Carroll nelle sue Anonymous Women, ancora, è una stratificata analisi dell'ossessione femminile per la cura della casa, vissuta come spazio ‘domestico’ in cui rifugiarsi ma anche subita come luogo in cui essere fagocitate, tra oggetti e arredamenti, da noia e frustranti attese. Nei lavori di Carroll, tra fotografie, istallazioni e video, si evidenziano i tratti di un soggetto femminile in cui la dialettica tra nascondimento ed esibizione è centrale nella definizione del sé e risulta oppressiva. Per estensione e per converso, Villa fa riferimento alle immagini social, soprattutto quelle delle stories dei profili Instagram: in esse, grazie alla dimensione propria del sociale web e alla presenza di cornici che non sono più pareti fisico-architettoniche ma che comunque definiscono uno spazio protetto, le donne, autoritraendosi con smartphone o webcam, abitano una casa-immagine, in cui non subire più la scissione tra dimensione privata e pubblica.
Anche nello scenario contemporaneo in cui ci traghettano l’azione artistica di Calypso e Carroll, l’angelo del focolare, come già emerso in questa introduzione, non ha smesso di chiamare in causa la funzione materna. Anche in questa sezione, per restare in un orizzonte che possiamo definire fortemente cattolico e ‘latino’, vengono analizzate narrazioni finzionali e storytelling social incentrati sulla relazione intergenerazionale. Così, Ilaria De Pascalis analizza in questa direzione il pilot della serie Jane the Virgin in cui la cucina di casa riunisce figlia, madre e nonna venezuelana nella visione di una telenovela ispanofona. Proprio a partire dall’immaginario delle telenovelas, la serie costruisce, attorno alla pratica spettatoriale dei/delle personaggi/e, una vivace e complessa declinazione dei posizionamenti culturali di genere tra generazioni diverse.
Analizza una serie televisiva ispanofona anche il contributo di Farah Polato, che affonda nella relazione tra ‘casa’ e ‘palazzo’ come luoghi di risignificazione da parte delle donne che assumono potere nella sfera pubblica. Nel confrontare la danese Borgen – Il potere e la spagnola Privacy (Intimidad), entrambe con protagoniste impegnate in incarichi di potere potere politico, la studiosa traccia una cartografia tra Nord e Sud dell’Europa, sottolineando la porosità tra spazi pubblici e domestici e codificando le case e i palazzi di governo come «edifici e campi di relazioni» che la storia e la pratica del femminismo sottopone a costante metamorfosi.
Passando dalle narrazioni seriali televisive alle narrazioni del sé social, nel contesto sia delle microcelebrity sia di un’utenza di neomamme che non sono creator/influencer, Elisabetta Locatelli e Sara Sampietro analizzano la ‘mediatizzazione’ del periodo perinatale, tra rappresentazioni stereotipate della maternità perfetta e decostruzione di questo stereotipo in una dimensione più dinamica, vitale, che nasce spesso proprio dalla incoerenza di una definizione caotica del discrimine tra spazio pubblico e spazio privato, tra identità mediale e autenticità del vivere.
Su questo stesso crinale si muove Lucia Tralli analizzando, a partire dalla lettura dello spazio domestico proposta da Iris Marion Young nel suo House and Home: Feminist Variations on a Theme (1997), la casa come appendice dell’io in senso positivo. Da questo orizzonte, Tralli lavora sulla costruzione della soggettività online attraverso social come Instagram, scegliendo il caso, particolarmente significativo, di Ambra Angiolini. L’Ambragram restituisce, infatti, il ricorso ad un affective labor che intercetta la rappresentazione dello spazio domestico per creare una connessione ‘emotiva’ con il pubblico, fondata sulla presunzione di una autenticità che lascia ampio spazio all’improvvisazione ma anche all’immaginazione, e forse in questo aperta a decostruire alcuni stereotipi pur confermandone altri.
Dalla fotografia alle varie tipologie di New Media qui analizzate, lo spazio domestico si fa ancora una volta luogo di frizione e di inevitabile conferma/decostruzione degli stereotipi di genere. Sappiamo quanto nello scenario attuale l’orizzonte del neoliberismo capitalistico e di una macroeconomia che innerva i sistemi di valori condizionino sempre più la reale libertà di ogni individuo. Forse un po’ utopisticamente, l’esito di alcune delle analisi proposte in questa sezione può invitare a considerare quello attuale come uno scenario dinamico, in cui tutto ciò che è new può anche evolvere in narrazioni e definizioni di campo che, tra affettività, definizione del sé, cura e relazione con l’Altro, possano generare (e non è un termine scelto a caso) un nuovo ‘ecosistema’ domestico.
4. Oltre la soglia: case sperimentali
La casa emerge come laboratorio di sperimentazione nella costellazione di immagini che escono dalla cornice del cinema di fiction per entrare nei territori ibridi del documentario di creazione, del cinema sperimentale, del film di famiglia, della videoarte, fino ad approdare al medium fotografico. Siamo qui nelle zone di transito di un cinema e di una fotografia che abitano il rischio di un corpo mobile e senza quiete, i cui gesti espandono e ricodificano gli spazi privati. È all’interno di questo territorio che il cinema sceglie di attraversare la soglia dell’industria (Deren 1959) per illuminare, come una vera e propria costellazione (Keller, Marcheschi, Simi 2020), il tempo delle stanze domestiche dove aleggiano le pratiche minute del quotidiano succedersi degli eventi. Assistiamo così, attraverso numerosi casi di studio all’incrocio tra cinema e arti mediali, all’avventura di soggettività inquiete e perturbanti (Butler 1990) che affondano negli abissi del sé muovendosi nei campi di prossimità per trovare la vertigine della libertà.
Così accade a Casa Susanna, abitazione alla periferia di New York, a cui è dedicato lo studio di Balbi e Ryhai, che durante gli anni Sessanta si trasforma in luogo di autorappresentazione transgender attraverso pratiche di cross-dressing. Attraverso l’analisi degli scatti rimasti di quella esperienza di performance tra le mure casalinghe, vero e proprio album di famiglia dove custodire la memoria di gesti di narrazione del sé, le due studiose ci accompagnano in un viaggio nelle forme visive di un femminile pietrificato dalla narrazione mediale e della loro riappropriazione queer in uno spazio domestico che diviene luogo di resistenza.
La casa torna invece a indicare la costrizione di un vivere ai margini nelle fotografie di Letizia Battaglia che, nell’indagine di Simona Arillotta, appare con chiarezza nella sua pratica militante. In quella che la studiosa definisce una «impossibilità dell’abitare», le donne di Battaglia sembrano incarnare, in stanze fatiscenti nelle strade di Palermo, la precarietà di una vita che può saldarsi tuttavia nella relazione tra donne, e nello sguardo di riconoscimento tra colei che fotografa e colei che è fotografata. Sulle implicazioni di uno sguardo relazionale si sofferma anche Chiara Petrucci, in un’analisi sulle pratiche del film di famiglia e la rappresentazione del corpo di donne in gravidanza, affondando nelle forme che l'autodeterminazione delle donne può assumere, seppure davanti e non dietro alla cinepresa. Scavando in due casi di studio vicini cronologicamente (anni Settanta) ma lontani per il contesto sociale e creativo, Petrucci mette in luce le possibilità messe in atto dalle donne per sentirsi in pieno controllo di un corpo in metamorfosi. Ancora nell’ambito familiare e affettivo, ma declinati in una narrazione documentaria in prima persona, risiedono gli studi di Alice Cati, Alma Mileto, Silvia Nugara. La prima si addentra nell’opera di Amandine Gay Une histoire à soi (2020), ancora una volta imperniata sul riconoscimento tra donne, in questo caso accomunate dall’esperienza biografica di adozione transnazionale. Nell’analisi di Cati, che affonda nei Post-colonial Studies, lo spazio domestico e le immagini di famiglia appaiono allora come «metarappresentazione» che permette di «rifocalizzare politicamente il sistema delle adozioni transnazionali come sopravvivenza, nella società contemporanea, di un modello coloniale».
Un simile approccio metodologico è adottato da Silvia Nugara, che analizza il documentario autobiografico Thème Je di Françoise Romand mettendone in luce l’incontro con l’alterità, la sovversione dei ruoli, la persistenza di modelli coloniali da demistificare con il gioco. L’abitazione è qui ancora una volta luogo di precarietà, continuamente esposto all’abisso della perdita, simbolo di sradicamento e allo stesso tempo di una contaminazione radicale tra arte e vita che ne rovescia, con sguardo sovversivo e creativo – la cucina si trasforma in spazio del pensiero – funzioni e tradizioni borghesi e patriarcali. Sull’affidamento di una narrazione a un interlocutore e la centralità della voce si sofferma invece l’analisi di Alma Mileto che attraversa le opere documentarie di tre autrici – Alice Guareschi, Daniela De Felice e Alice Rohrwacher – in cui lo spazio della casa si attiva come dispositivo della memoria, dell’indagine (auto)biografica, della prossimità della relazione.
Resta ancora nel dispositivo dialogico l’analisi che Sandra Burchi dedica all’opera video monocanale di Mona Hatoum The Measures of Distance (1988), in cui il dialogo madre-figlia si sviluppa sul filo della condizione di esule dell’artista costretta a vivere fuori dal Libano in tempi di guerra civile. Come sottolinea la studiosa, Hatoum sceglie il bagno, stanza più intima e rassicurante della casa, per fare della relazione affettiva tra donne la postura privilegiata di una «geopolitica dell’intimità» radicata nel privato. Si colloca in ambito videoartistico anche l’indagine di Anita Trivelli, che ci permette di esplorare l’opera pioneristica di Shirley Clarke e in particolare il suo loft-atelier al Chelsea Hotel, in cui, negli anni Settanta, il collettivo da lei ideato e diretto, The Tee Pee Videospace Troupe, ha esplorato pratiche di arte partecipata con video live painting e videocamere a circuito chiuso. Con la ricerca di Beatrice Seligardi, invece, ci addentriamo nel destino intermediale del personaggio di Albertine della Recherche di Marcel Proust, rievocato nelle opere cine-sperimentali di Pia Epremian attraverso la performance della poeta Patrizia Vicinelli, nella plaquette poetica di Anne Carson e nelle fotografie di Francesca Woodman. In tutte, dai riferimenti espliciti e in piena luce a quelli carsici, si coglie il tentativo di offrire voce e libertà a una personaggia schiacciata dal punto di vista unico del Narratore, per «liberare», sottolinea Seligardi, «quel fantasma imprendibile che è Albertine Simonet».
È una casa inquieta, infine, quella dei Women Film Festival analizzata da Francesca Piredda che, nel solco dei Festival e degli Audience Studies, ne traccia la genealogia di ambito femminista e ne sottolinea sia le potenzialità in termini di visibilità per il cinema indipendente realizzato dalle donne, sia i rischi di ghettizzazione e di difficile relazione con l’industria cinematografica di più ampio accesso.
5. Le stanze di Fassbinder
Nel quadro di una tassonomia ‘larga’ degli spazi domestici nel cinema e nelle arti non poteva mancare un richiamo alla cartografia intima e feroce di Fassbinder, capace di mettere in abisso le traiettorie della coscienza attraverso un calcolato gioco di simmetrie e scarti. Per celebrare il quarantennale della morte, il Forum ha accolto la proposta di un panel interamente dedicato al sistema di stanze edificato dal regista tedesco; quel che si ricava da questi primi affondi è una poetica dello spazio che investe con forza il piano della visione, attraverso marche espressive ricorrenti (gli specchi, le porte, le tende) che traducono le intermittenze emotive e i meccanismi di potere interni alle relazioni.
Rosamaria Salvatore, nel rileggere Martha (1974), insiste sulla disposizione sadomasochistica del legame di coppia e individua una corrispondenza molto netta fra piani di ripresa e logica della deviazione, grazie anche alla sottigliezza di un approccio psicanalitico mai scontato. Stefania Rimini propone invece l’analisi del ‘disorientamento’ geografico e sentimentale di Elvira, protagonista eccedente di Un anno con tredici lune (1978): qui, nella dialettica fra interni ed esterni, si consuma la tragedia della vulnerabilità e del disincanto. Giulia Carluccio ripropone un’indagine a tutto tondo su Effi Briest (1974), da cui ricava alcune impressioni topografiche di grande suggestione, legate alla ricorsività di figure dello sguardo e del tempo che contribuiscono a esaltare la disposizione melodrammatica del cinema di Fassbinder.
*Questo saggio è stato concepito in maniera congiunta dalle cinque autrici in tutte le sue parti. A fini pratici, Farah Polato ha scritto l’introduzione; Lucia Cardone il paragrafo 1; Beatrice Seligardi il paragrafo 2; Anna Masecchia il paragrafo 3; Giulia Simi il paragrafo 4 e 5.
Riferimenti bibliografici
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