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A partire da una prospettiva che interseca diversi livelli di subalternità (donna-nera-senza radici), la regista e artista afro-femminista Amandine Gay ripercorre, nel suo film Une histoire à soi (2020), la storia di cinque persone adottate attraverso le loro immagini private. Le fotografie e i film di famiglia mostrano esperienze di adozioni transnazionali e transrazziali dentro a contesti domestici in cui il/la nuovo/a arrivato/a viene accolto/a come corpo individuale da annettere alla stirpe, secondo un principio di somiglianza che è dettato da convenzioni sociali, spesso veicolate dalle stesse pratiche visive amatoriali. Tradizionalmente, infatti, la casa si configura sia come lo spazio di esibizione di immagini di famiglia, sia come lo scenario per la rappresentazione del gruppo familiare nei momenti di festa e autocelebrazione. Tuttavia, nel caso delle famiglie adottive, simili rappresentazioni mostrano un’eccedenza che rimarca la discontinuità e la differenza tra i bambini e il resto del gruppo, richiamando un altrove che si definisce grazie alla reinterpretazione del principio di analogia, su cui si fonda una nuova identità sotto il segno della relazione estesa.

By structuring her perspective around different levels of subalternity (woman-black-rootless), in the film Une histoire à soi (2020), Afro-feminist filmmaker and artist Amandine Gay traces the history of five adoptees through their private images. The family photographs and films show experiences of transnational and transracial adoptions within domestic contexts in which the newcomer is welcomed as an individual body to be annexed to the lineage, according to a principle of resemblance that is dictated by social conventions, often conveyed by the same amateur visual practices. Traditionally, in fact, the home is configured both as the space for the exhibition of family images and as the setting for the representation of the family group in moments of happiness and self-celebration. However, in the case of adoptive families, such representations show an excess that emphasises the discontinuity and difference between the children and the rest of the group, recalling an elsewhere that is defined through the reinterpretation of the principle of analogy, on which a new identity is founded under the sign of the extended relationship.

Non mi è necessario tentare di diventare l’altro (di diventare altro), né di ‘fare’ l’altro a mia immagine.

É. Glissant

 

All’interno delle mura domestiche, la sala da pranzo è spesso percepita come il luogo dell’incontro tra le diverse generazioni. La convivialità dei pasti in famiglia fa rivivere i ricordi e concede spazio al racconto di episodi e aneddoti che si tramandano nel tempo (Demetrio 2022). In sala poi, si espongono fotografie che rappresentano i momenti salienti e le figure centrali della storia familiare, ma molte volte è questo stesso spazio a trasformarsi nella cornice di nuove immagini tese a fissare la complicità che unisce i vari membri della famiglia. In molte inquadrature, i soggetti sono ritratti vicini gli uni agli altri, si guardano reciprocamente, di frequente si stringono in un abbraccio, compiono cioè gesti che ostentano una prossimità affettiva attenta a rimarcare l’orgoglio di appartenere alla stessa stirpe. Non di rado si offre a livello visivo una somiglianza di tratti che connota l’identità familiare nel suo complesso, generando una trasformazione dell’ambiente domestico in ‘spazio dell’analogia’, vale a dire uno spazio agente in cui la disposizione dei corpi, reali o riprodotti in immagine, modella i processi di mutuo riconoscimento tra i membri del gruppo. Come infatti sostengono Marre e Bestard, le pratiche visive offrono l’opportunità di interrogare la potenza culturale delle somiglianze e delle connessioni corporee, dal momento che, seguendo il pensiero freudiano, nei processi di identificazione il soggetto forma sé stesso o sé stessa ‘per analogia’ rispetto a coloro che lo hanno preceduto o appartengono alla propria famiglia nel presente (Marre, Bestard 2009).

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Questo breve saggio tiene come punto di partenza implicito la considerazione dello spazio domestico, delle relazioni che storicamente lì si sono strutturate – e ancora si strutturano – e del lavoro che lì si consumava e si consuma, come uno dei centri della critica alla produzione capitalistica da parte di posizionamenti femministi considerati, a ragione, anche molto distanti tra loro. La casa, dunque, come spazio generatore di conflitto politico, la casa come luogo dal quale, paradossalmente, partire per una critica alla privatezza e per tornare, rilanciandola, sulla differenza tra personale e privato (Fraire 2002; Pasquinelli 1977). Nell’agosto del 1974 Carla Lonzi scrive, nel suo Taci, anzi parla. Diario di una femminista (1978), di star progettando la realizzazione di alcuni «filmini sui gesti delle donne che provvedono al sostentamento dell’umanità: rigovernare, accudire i bambini, i malati, ecc.». Questo piano, mai realizzato, ma al quale Lonzi si cura di dare anche un titolo (‘Cultura femminile del sostentamento dell’umanità’) sarà l’oggetto al centro del saggio, analizzato in relazione alla serie di fotografie che Lonzi inserisce nello stesso Diario (Bertelli 2021a, Bertelli 2021b; Cardone 2014). Il saggio studia questi progetti lonziani, al di là della loro modalità di realizzazione, come compiuti atti espressivi, leggendoli come uscita possibile alla critica dell’atto artistico e del mito dell’artista sulla quale Lonzi insiste già a partire dalla metà degli anni Sessanta, e che diventerà, come già ampiamente studiato, un tema ricorrente ed esemplare del suo femminismo (Conte, Fiorino, Martini 2011; Iamurri 2016).

This short essay holds as an implicit point of departure the consideration of domestic space, of the relationships that historically have been structured there – and even still are structured there – and of the labor that was and still is consumed there, as one of the centers of critique of capitalist production by feminist positionings considered, with good reason, also very distant from each other. The home, then, as a space that generates political conflict, the home as a place from which, paradoxically, to start for a critique of privateness and to return, relaunching it, to the difference between the personal and the private (Fraire 2002; Pasquinelli 1977). In August 1974 Carla Lonzi wrote, in her Taci, anzi parla. Diario di una femminista (1978), that she was planning to make some «short films on the gestures of women who provide for the sustenance of humanity: cleaning up, caring for children, for the sick, etc.». This plan, which was never realized, but to which Lonzi also takes care to give a title (‘Female culture of humanity sustenance’) will be the object at the center of the essay, analyzed in relation to the series of photographs that Lonzi includes in the same diary (Bertelli 2021a, Bertelli 2021b; Cardone 2014). The essay studies these projects, beyond their mode of realization, as accomplished acts of expression, reading them as a possible exit to the critique of the artistic act and the myth of the artist on which Lonzi already insists since the mid-1960s, and which will become, as already extensively studied, a recurring and exemplary theme of her feminism (Conte, Fiorino, Martini 2011; Iamurri 2016).

1. Spazio domestico e ‘gesti fatti di aria’

Al di là dell’apparente, presunta immediatezza del genere diaristico, Taci, anzi parla. Diario di una femminista (1978) di Carla Lonzi è un libro ostico: ci lascia continuamente nell’apertura, quando non nelle contraddizioni – a dire il vero ovvie, se pensiamo al fatto che copre, a cadenza più o meno quotidiana, le trasformazioni di un periodo lungo quattro anni e mezzo (agosto 1972-gennaio 1977) – e, nello stesso tempo, nel continuo ribattere errante sulla stessa questione irrisolvibile, non chiudibile: l’autocoscienza.

In una pagina dell’agosto 1974, formulando l’ipotesi relativa a un progetto documentario sul gesto femminile, Lonzi scrive alcune righe, già al centro del mio ragionamento in altri scritti (Bertelli 2021a; Bertelli 2021b), che risultano un importante punto di attacco per una riflessione sullo spazio domestico:

 

Questo passo pone la questione del senso dell’operazione documentaria come mediazione estetica rimasta incompiuta, e della sua rimediazione nel diario. Tale rimediazione permette di cogliere l’intera operazione come operazione critica di ‘visibilizzazione’ di prassi, relazioni e oggetti altrimenti relegati ai margini, nell’insignificanza dal punto di vista del loro apporto culturale. Partire dalla visibilità di quei gesti è un modo per «mettersi intorno quella casa che lei è» (Irigaray 1984, p. 55) e riguarda allora il processo opposto, quanto al suo significato, rispetto a un’estetizzazione della tradizione che situa la donna nella casa, facendo di quest’ultima l’elemento protettivo e, insieme, imprigionante (un «esilio interno», ancora con le parole di Irigaray). In primo luogo, dunque, è evidente che a questi gesti è assegnata una nuova iscrizione simbolica che ne fa emergere tutta la loro rilevanza politica nella misura in cui essi, attraverso la radicale revisione critica del femminismo, sono decisamente sottratti alla dimensione privata, intesa come sfera separata da quella pubblica, che sarebbe figlia di un altro ordine. Non si tratta soltanto di smascherare la natura economica del privato e di porre l’attenzione sui rapporti sociali che nascono all’interno dello spazio domestico, ma si tratta di ripercorrere e risignificare tale spazio. Ciò riguarda, ovviamente, tanto una parte del modo in cui le donne sono state nella storia quanto una parte delle ragioni dalle quali, storicamente, ha preso avvio la presa di parola femminile: «L’autocoscienza diventa il metodo di politicizzazione del privato» (Pasquinelli 1977; Cfr. Fraire 2002, pp. 71-83), politicizzazione che è stata, com’è ampiamente noto, tradotta nella formulazione ‘il personale è politico’, laddove nell’adozione del termine ‘personale’ si consuma la demistificazione della separazione delle due sfere, della donna come soggetto naturale e impolitico, e della politica come amministrazione del potere. Nelle parole di Lonzi appare, allora, anche un senso ulteriore, punto che costituisce il centro della mia riflessione in queste pagine.

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Il testo teatrale La voix humaine (1930) di Jean Cocteau è un atto unico con un solo personaggio femminile parlante al telefono rinchiusa tra le pareti domestiche. L’opera è un monologo disperato di una donna che parla con l’uomo che la sta abbandonando, ovvero un dialogo simulato in cui il pubblico partendo dalle parole di lei deve immaginare le parole e l’essenza di lui. Il testo è stato ed è ancora oggi uno degli spettacoli più rappresentati e più volte oggetto di riscrittura e adattamento. Nell’introduzione Cocteau definisce il progetto come risposta alle lamentele da parte delle attrici che le sue opere erano troppo dominate dallo scrittore/regista, non lasciando spazio per dimostrare la capacità artistica di chi recita. Col passare degli anni è diventato praticamente un manuale di recitazione, la grande prova attoriale per tante grandi interpreti che volevano dimostrare la propria bravura tramite le tante sfumature offerte da un testo puntato sugli aspetti dolorosi dell’amore. In questo saggio prendo in considerazione tre adattamenti cinematografici di La voix humaine che mettono alla prova tre grandissime attrici, partendo dal film di Rossellini con Anna Magnani, passando dall’adattamento di Edoardo Ponti con la madre Sophia Loren, fino ad arrivare alla versione recentissima di Almodovar con Tilda Swinton. In modi diversi e sovversivi, le trasposizioni cinematografiche indagano e sfruttano l’originale, amplificano il tempo e lo spazio spoglio di Cocteau, focalizzando sulla complessità dell’autorappresentazione della protagonista e del suo rapporto con gli oggetti e con gli spazi domestici in cui vive: spazi di sofferenza e assenza ma anche di agency e dignità.

Jean Cocteau’s theatrical text La voix humaine (1930) is a one-act play featuring a sole female character speaking on the phone trapped within the confines of the domestic space. The work is a monologue or more precisely a simulated dialogue of a desperate woman speaking with her lover who is leaving her. From her words, the audience is meant to imagine the words and the essence of the man. Still today the text is a widely staged work, often rewritten and adapted for the stage and screen. In the introduction, Cocteau defines the project as a response to actresses’ complaints that his works were all too often dominated by the writer/director leaving little space for the display of the artistry of the actress. With the passage of time, the text has become practically a manual for acting, a great challenge for actresses who wanted to demonstrate their versatility thanks to the many nuances offered by a text focused on the painful aspects of love. In this essay, I look at three cinematic adaptations of La voix humaine that put three great actresses to the test: Rossellini’s early version featuring Anna Magnani, Edoardo Ponti’s version featuring his mother Sophia Loren, and most recently Pedro Almodovar’s version starring Tilda Swinton. In distinctive and subversive ways, the adaptations explore and exploit the original, expanding the time and space of Cocteau’s text and focusing on the complexity of the self-representation of the protagonist and of her relationship with the objects and the domestic space that she inhabits: spaces of sufferance and absence but also of agency and dignity.

Nell’introduzione al suo testo teatrale La voix humaine (1930), Jean Cocteau definisce il progetto come una risposta alle lamentele da parte di quelle attrici che lo avevano accusato di far risaltare, nelle sue opere, più la voce dello scrittore/regista che non la capacità artistica di chi recita. Il testo di Cocteau nasce quindi come un esperimento a partire da alcuni elementi basilari: è un atto unico, c’è un solo personaggio femminile in una camera da letto spoglia in cui spicca l’accessorio di ogni dramma moderno, il telefono, un’invenzione che ha cambiato definitivamente il modo di concepire e rappresentare le relazioni. Il monologo è un dialogo simulato in cui, tramite le parole della protagonista, dobbiamo immaginare le parole, le reazioni e il carattere di chi sta dall’altra parte della cornetta. Il dramma infatti consiste in una lunga telefonata, più volte interrotta, tra una donna che sta parlando al telefono – probabilmente per l’ultima volta – con l’uomo che la sta lasciando dopo un rapporto sentimentale durato cinque anni. Si tratta di uno spettacolo che è stato fatto più volte oggetto di riscrittura e adattamento, e col passare degli anni è diventato praticamente un manuale di recitazione per tante grandi attrici che volevano dimostrare la propria bravura a partire da un testo basato sugli aspetti dolorosi della fine di un amore.

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Il film Castaway on the Moon (2009) del regista sud coreano Lee Hey-Jun si colloca nella tradizione delle Robinsonnades con una novità interessante. Lo spazio dell’isola in cui vive un naufrago ‘urbano’, dentro la città di Seul, ha un corrispettivo speculare nella stanza di una ragazza hikikomori che lo osserva dalla finestra. Due eterotopie, isola e stanza chiusa, dialogano inaspettatamente attraverso i personaggi che le abitano. La camera della ragazza hikikomori rappresenta un intero mondo, terrestre e lunare, reale e virtuale. Il disagio dell’autoreclusione è attenuato dalla ricerca di un’armonia interiore che la protagonista troverà attraverso l’osservazione del mondo esterno.

South Korean director Lee Hey-Jun’s Castaway on the Moon (2009) is part of the Robinsonnades tradition with an interesting novelty. The space of the island where an ‘urban’ castaway lives, inside the city of Seoul, has a mirror equivalent in the room of a hikikomori girl who observes him from her window. Two heterotopias, island and closed room, unexpectedly dialogue through the characters who inhabit them. The hikikomori girl’s room represents an entire world, terrestrial and lunar, real and virtual. The discomfort of self-enclosure is mitigated by the search for an inner harmony that the protagonist will find through observation of the outside world.

Tradotta dal sud coreano Kim’s Island, Castaway on the Moon è la seconda opera del regista Lee Hey-Jun, che esordiva nel 2006 con il film Like a Virgin, scritto e diretto insieme a Lee Hae-Young e insignito di numerosi premi. Lee Hey-Jun inaugurava con quel film un percorso tematico che avrebbe proseguito nelle produzioni successive: il protagonista di Like a Virgin è un sedicenne sovrappeso, fan di Madonna, che cerca di vincere i soldi necessari all’intervento chirurgico per cambiare sesso impegnandosi in competizioni liceali di wrestling. Le tematiche giovanili inerenti a ricerca dell’identità, rapporti familiari e solitudine hanno interessato numerosi film in cui Lee Hey-Jun ha lavorato sia come sceneggiatore (ad esempio Coming Out del 2000) sia come regista (ad esempio My Dictator del 2014).

In Castaway on the moon Hey-Jun affronta la tematica dell’isolamento giovanile contestualizzandola in due spazi speculari: l’isola e la camera da letto. Inserendosi nella tradizione occidentale delle Robinsonnades, il regista propone la vicenda di un giovane che fa ‘naufragio’ a poca distanza dalla capitale coreana: la sua storia viene osservata – e parzialmente narrata – da una ragazza hikikomori che guarda il mondo esterno dalla finestra della sua stanza attraverso il potente obiettivo della macchina fotografica. La presenza femminile, quasi del tutto assente in Defoe e molto rarefatta nelle riprese successive della vicenda di Robinson Crusoe, come vedremo assume qui un ruolo diegetico decisivo come nesso tra due spazi separati e distanti, rifugio delle rispettive solitudini. La stanza di Kim, la ragazza, da luogo di autoimposta intimità diventa lentamente e progressivamente proiezione sul mondo e ponte verso la conquista dell’identità.

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Una fitta rete di analogie sembra legare Lady Macbeth (2016) del britannico William Oldroyd a L’inganno (The Beguiled, 2017) della statunintense Sofia Coppola. Entrambe le pellicole hanno come protagoniste donne borghesi del XIX secolo costrette a una pesante condizione di prigionia domestica. Soltanto la scoperta di un prepotente desiderio sessuale riuscirà violentemente a trasformare il loro modo di abitare tanto lo spazio del corpo quanto lo spazio stesso della casa. A dispetto delle numerose somiglianze sul piano del racconto, i due film si rivelano anche profondamente diversi. Lady Macbeth è stato molto ammirato per il suo severo impianto visivo, dichiaratamente ispirato alla pittura minimalista di Vilhelm Hammershøi. Al contrario, L’inganno manifesta quell spiccaoto gusto per l’immagine ‘piacevole’ che ha alternativamente procurato lodi e critiche alla regista. Attraverso il confronto di alcuni momenti salienti, l’intervento intende evidenziare punti di contatto e punti di allontanamento fra le due opere.

A dense network of analogies links Lady Macbeth (2016) by British director William Oldroyd to The Beguiled (2017) by Sofia Coppola. Both films show middle-class women from the 19th century who are forced to a severe condition of domestic confinement. It is only the breakthrough of a strong sexual desire that will cruelly change their way of occupying the space of their bodies as much as their own homes. Although the films seem to share several similarities in the stories they tell, numerous are the differences they show as well. Lady Macbeth was highly appreciated for its stern and austere visual setting, explicitly inspired by Vilhelm Hammershøi’s minimalist paintings. On the other hand, The Beguiled shows a keen interest for a ‘likeable’ visual quality of the cinematic image that has often given the American director either praise or, alternatively, criticism. By comparing relevant scenes of both films, this contribution aims to highlight the main points of convergence and divergence that characterize them.

 

1. Lady Macbeth e L’inganno: due racconti di prigionia domestica dall’Ottocento

Coperto da un diafano velo nuziale, il volto di una giovanissima donna appare attraversato da un’espressione di ansiosa vulnerabilità. Durante la celebrazione del matrimonio, il suo capo si muove nervoso, sotto la superficie serica del tessuto, col chiaro intento di scrutare lo sposo al proprio fianco. Ma poiché l’uomo è momentaneamente e strategicamente relegato nel fuoricampo, le occhiate furtive della fanciulla risultano vane [fig. 1].

Su questa emblematica immagine di condizionamento dello sguardo femminile si apre Lady Macbeth, pellicola diretta dal britannico William Oldroyd nel 2016. Grazie all’imprescindibile apporto della sceneggiatrice Alice Birch, Oldroyd trasferisce sullo schermo una celebre novella di Nikolaj Leskov guidato essenzialmente da due slanci. In primo luogo, colpisce l’atteggiamento di audace disinvoltura nei riguardi del testo letterario di partenza. Già fonte di ispirazione per Dmítrij Šostakóvič in ambito lirico e per Andrzej Wajda in quello cinematografico, Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk (1865) è qui usata come modello narrativo da cui trarre solo alcune linee fondamentali, quelle maggiormente prossime alla potenza del mito.

Non a caso, Antonija Primorac definisce il film nei termini di una riappropiazione piuttosto che di un semplice adattamento (Primorac 2021, pp. 148-152). Benché sfrutti fin dal titolo il fantasma della sanguinaria eroina di Shakespeare, Leskov sceglie di calare il proprio racconto nella torpida provincia russa dell’Ottocento. Similmente regista e sceneggiatrice, pur mantendo la stessa centralità assegnata a una protagonista capace di ogni efferatezza, spostano l’azione in un contesto culturalmente loro più familiare come l’Inghilterra vittoriana. La rielaborazione leskoviana della figura universalmente nota di Lady Macbeth diventa dunque punto di partenza per una nuova rielaborazione, in cui il confronto con illustri testi preesistenti subisce l’inevitabile influsso delle tendenze in auge nella cinematografia odierna. Il risultato finale è un’opera che, al pari di altre pressoché coeve, si inscrive nel solco del cosiddetto neo-Victorian cinema, proponendo l’ennesima vicenda di insubordinazione femminile a un sistema socio-familiare integralmente maschilista. Del resto, il panorama accademico anglosassone ha spesso evidenziato la natura eversiva della sexual politics al centro di molti fra i prodotti ispirati al lungo regno di Vittoria (Kohlke e Gutleben 2011; Primorac 2018; Tomaiuolo 2018). In secondo luogo, colpisce come proprio questa torbida vicenda di rivolta muliebre non si esprima soltanto attraverso l’involucro pulsante del corpo, dell’eros, ma anche attraverso una progressiva, seppur aberrante, conquista dell’abitazione del suocero e del marito. A proposito della capacità del gender di porsi quale principio organizzativo in campo architettonico, Lynne Walker afferma che «sebbene la casa vittoriana venisse […] continuamente definita “il regno per eccellenza della donna”, di fatto si trattava di uno spazio fortemente patriarcale in termini di territorio, controllo, e significato» (Walker 2002, p. 826). In tal senso, ben si comprende la specularità istituita dal film fra il prepotente desiderio sessuale del personaggio femminile e la sua concomitante ricerca di un dominio sul perimetro domestico.

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Il saggio indaga il ruolo della casa in due film sceneggiati dall’apprezzata drammaturga britannica Alice Birch, Lady Macbeth (W. Oldroyd, 2016) e Secret love (Mothering Sunday, E. Husson, 2021). Entrambi sono adattamenti letterari: il primo è liberamente tratto dalla novella russa Lady Macbeth del distretto di Mtsensk (N. Leskov, 1865), il secondo dal romanzo inglese Un giorno di festa (Mothering Sunday, G. Swift, 2016). A essere evidenziato è il contributo creativo della sceneggiatrice, soprattutto in relazione alla presenza e al significato degli interni domestici, prestando attenzione anche alle analogie con i suoi lavori teatrali quali, in particolare, la pièce Ophelia’s Room. L’analisi sottolinea il ruolo essenziale giocato dal riferimento a Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf nell’adattamento di Un giorno di festa, in cui Birch espande le sezioni nelle quali la protagonista ha finalmente conquistato lo spazio fisico e simbolico necessario a diventare una scrittrice. In Lady Macbeth, invece, le scene ideate da Birch rendono esplicito come uno dei principali obiettivi della lotta di Katherine (Florence Pugh) sia quello di controllare l’accesso agli ambienti domestici, sottraendolo al dominio patriarcale. La sceneggiatura, inoltre, modifica radicalmente il finale della novella, confinando la protagonista ancora all’interno della casa e gettando così nuova luce sull’intera narrazione.

This paper explores the role of the house in two films screenwritten by the acclaimed British playwright Alice Birch, Lady Macbeth (W. Oldroyd, 2016) and Mothering Sunday (E. Husson, 2021). Both of them are literary adaptations, as the first one draws on the 1865 Russian novella Lady Macbeth of the Mtsenk district by Nikolaj Leskov, while the second one is based on the 2016 British novel Mothering Sunday by Graham Swift. To be highlighted is the creative contribution of the screenwriter, especially in relation to the meaning of domestic spaces, and attention is also paid to the similarities with her theatrical works, in particular the play Ophelia’s Room. The analysis points out the pivotal role of Virginia Woolf’s A Room of One’s Own in Birch’s adaptation of Mothering Sunday, which generously expands the sections where the main female character has fully achieved to get her own physical and symbolic space as a writer. As regards Lady Macbeth, the additional scenes devised by Birch make it clear that one of the main goals of Katherine (Florence Pugh)’s struggle is to control the access to the domestic spaces, taking it away from patriarchal domain. Moreover, the script ending is radically different from the novella’s and sheds new light on the whole narration, through showing the main character still confined into the house.

 

 

Revolutionize the language (…).

Revolutionize the world (…).

Revolutionize the work (…).

Revolutionize the body (…).

Alice Birch, Revolt. She said. Revolt again

 

 

Accostandosi ai due film sceneggiati dalla drammaturga britannica Alice Birch, Lady Macbeth (W. Oldroyd, 2016) e Secret love (Mothering Sunday, E. Husson, 2021), si sarebbe tentate di aggiungere un nuovo complemento oggetto alla serie anaforica con cui si aprono le scene di Revolt. She said. Revolt again, pièce firmata dall’autrice nel 2014. ‘Revolutionize the house’ potrebbe, infatti, risuonare l’imperativo che guida le violente azioni di Katherine (Florence Pugh), protagonista di Lady Macbeth, così come il più delicato, ma potente, gesto eversivo di Jane (Odessa Young) in Secret love.

Pur difformi nella resa estetica, che in Secret love lascia spazio a compiacimenti nell’osservazione degli ambienti del tutto alieni al rigore stilistico di Lady Macbeth, i due titoli condividono l’ambizione, rivendicata da Birch nelle interviste su Secret love (Gant 2021), di smarcarsi dal fortunato filone heritage britannico, caratterizzato da indugi nostalgici della macchina da presa sulle tracce di un passato discutibilmente idealizzato (Higson 2003). Quel che più ci interessa è che entrambi sono quasi integralmente ambientati in interni domestici, nei quali le protagoniste cercano di conquistare margini di agency in opposizione al sistema patriarcale e alla sua organizzazione spaziale dei rapporti di potere, esternati con cruda brutalità (Lady Macbeth) o in forme venate di bonario paternalismo (Secret love). Il ruolo protagonistico della casa, ben identificabile nelle narrazioni letterarie di partenza, viene potenziato, o investito di nuove sfumature, dagli apporti di Birch, che già nel proprio lavoro teatrale – si pensi a Ophelia’s Room (2015) – aveva tradotto la condizione di marginalità della sua personaggia attraverso il confinamento in una singola camera.

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Quello della casa infestata è probabilmente il tòpos più rappresentativo di tutta la letteratura gotica. Se nel corso dei secoli il rapporto, a livello narrativo, tra donne e case infestate si è consolidato in maniera sempre più salda, nella contemporaneità è senza dubbio Shirley Jackson a rielaborarne gli aspetti fondanti, creando un precedente da cui è impossibile prescindere. Nel suo L’incubo di Hill House (The Haunting of Hill House, 1959) la scrittrice lega in maniera indissolubile l’inconscio della protagonista alle inquietanti manifestazioni di una casa intrinsecamente maligna. Allo stesso tempo, contribuisce a riscrivere quello che Stephen King definisce l’archetipo del ‘Bad Place’ sondando, forse più di chiunque altro, il terrore legato allo spazio domestico. Con questo articolo intendo indagare come tale modello venga reinterpretato in due recenti horror diretti da donne, The Babadook (J. Kent, 2014) e Relic (N. E. James, 2020), allo scopo di mostrare come tali narrazioni contemporanee si inseriscano nella tradizione del gotico femminile.

The haunted house is probably the most representative tòpos of the Gothic literature. Even if the relationship between women and haunted houses has considerably strengthened over the centuries on the narrative level, Shirley Jackson is undoubtedly the contemporary author who reworked its fundamental aspects, creating a precedent that cannot be disregarded. In her The Haunting of Hill House (1959), the writer inextricably linked the protagonist’s unconscious to the disturbing manifestations of an intrinsically evil house. At the same time, she contributed to the rewriting of what Stephen King calls the ‘Bad Place’ archetype by probing, perhaps more than anyone else, into the terror associated with the domestic space. With this paper, I aim to investigate how that model has been reinterpreted in two recent horror films directed by women, The Babadook (J. Kent, 2014) and Relic (N. E. James, 2020), in order to show how such contemporary narratives fit into the tradition of the female Gothic.  

1. Donne e spazio domestico: la tradizione gotica e la ghost story

Come è noto, quello della casa infestata è un motivo ricorrente in tutta la letteratura gotica. Dalle sue origini (intorno alla seconda metà del Settecento) il tòpos del castello infestato da spettri (Punter 1996, p. 5) si è evoluto fino a giungere, attraverso reinterpretazioni successive, alla contemporaneità. Tuttavia, la sola presenza di dimore isolate al cui interno si manifestano eventi soprannaturali non basta a rappresentare pienamente questa specifica tradizione letteraria che, da sempre, ha prestato un particolare riguardo verso i personaggi femminili. Non sarebbe infatti esagerato affermare che è il gotico (più di ogni altro genere) a «testimoniare immancabilmente il legame intimo tra un soggetto femminile e la casa» (Hock Soon 2015, p. 4).

Se, nel contemporaneo, scrittrici come Angela Carter, Margaret Atwood, Emma Tennant e Joyce Carol Oates hanno riattualizzato il genere arricchendolo con una prospettiva di genere e femminista (Wisker 2016, p. 207), prima di loro è stata certamente Shirley Jackson ad averne rielaborato metodicamente gli aspetti fondanti, tanto da diventare un vero e proprio modello per quello che in seguito è stato definito «gotico femminile» (Arnold 2013; Barton 2020; Rubenstein 1996). Nello specifico, rientrano sotto questa etichetta quelle narrazioni scritte da donne e incentrate su personaggi femminili in cui gli elementi tradizionali del gotico vengono rielaborati in maniera peculiare, ad esempio, sondando travagliati rapporti madre-figlia o narrando la prigionia delle protagoniste in case che riflettono i loro fragili stati emotivi e mentali (Rubenstein 1996, p. 312). In questo scenario, Jackson rappresenta senz’altro un precedente da cui è impossibile prescindere: attraverso le sue opere, e in particolare con The Haunting of Hill House pubblicato nel 1959, l’autrice ha riscritto le regole del gotico, utilizzando il motivo della casa infestata per riflettere sulla vita delle donne tra gli anni Cinquanta e Sessanta (Barton 2020), in bilico tra domesticità e desiderio di evasione. Nel romanzo la scrittrice mette a tema il potere delle case di intrappolare e rendere inoffensive le proprie abitanti (Hague 2005, p. 83): nel suo riproporre il motivo gotico dell’ingabbiamento (Barton 2020), Jackson in realtà si concentra sulla «solitudine e la frammentazione identitaria dei suoi personaggi femminili, sulla loro incapacità di relazionarsi con il mondo esterno e allo stesso tempo di vivere autonomamente, e sul loro confronto con un vuoto interiore che spesso sfocia nella malattia mentale» (Hague 2005, p. 74).

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All’interno della filmografia di Duras, Nathalie Granger è un’interessante opera di transizione; film sull’amore materno, è anche una potente metafora del ruolo della donna nel cinema e nella società. Le due donne (Lucia Bosè e Jeanne Moreau) vivono in una casa (la stessa casa di Duras), ultima casa abitabile del suo cinema, che diventa estensione della loro femminilità: una casa-utero, spazio domestico sul quale hanno pieno controllo, luogo di rifugio e di cura. Lo spazio della casa è anche esclusione, volontaria prigione, rispetto all’esterno in cui vivono gli uomini che si allontanano e si vedono sparire inghiottiti dal mondo del lavoro e del linguaggio. Nella casa regna il silenzio, la musica (oppositiva rispetto alla verbalizzazione dei sentimenti), i gesti ripetitivi e lenti della cura domestica (sparecchiare, stirare, cucinare), le preoccupazioni mute di una madre per le intemperanze di una figlia bambina. Dal fuori arrivano le voci minacciose di una violenza diffusa e un venditore ambulante che cerca inutilmente di vendere alle due donne una lavatrice rivoluzionaria, senza ottenere nessuna risposta, se non la velata insinuazione dell’inutilità del proprio ruolo all’interno della società, della velleità di voler dare un nome ad ogni cosa. Il contributo vuole quindi approfondire l’idea dello spazio domestico come luogo del silenzio, un silenzio che diventa atto rivoluzionario, oppositivo del femminile nei confronti del verbo maschile. 

Within Duras’ filmography, Nathalie Granger is an interesting work of transition; a film about maternal love, it is also a powerful metaphor for the role of women in cinema and society. The two women (Lucia Bosè and Jeanne Moreau) live in a house (the same house of Duras), the last habitable house of her cinema, which becomes an extension of their femininity: a home-womb, a domestic space on which they have full control, a place of refuge and care. The space of the house is also exclusion, voluntary prison, compared to the outside in which all the men live moving away and seeing themselves disappear swallowed up by the world of work and language. In the house reigns silence, music (opposition to the verbalization of feelings), repetitive and slow gestures of domestic care (clearing, stretching, cooking), the mute concerns of a mother for the intemperance of a daughter. From the outside come the threatening rumors of widespread violence and a salesman who tries in vain to sell the two women a revolutionary washing machine, without getting any answer, if not the veiled insinuation of the futility of one’s role in society, of the desire to give a name to everything. The contribution aims to deepen the idea of domestic space as a place of silence, a silence that becomes a revolutionary act, opposing the feminine’s silence to the male verb. 

1. Nathalie Granger e il cinema della modernità

L’obiettivo primario di questo contributo è quello di riflettere sulla funzione simbolica che la dimensione domestica riveste nell’immaginario letterario e cinematografico di Marguerite Duras, partendo in particolare da un film, molto significativo, come Nathalie Granger: girato nella primavera del 1972, è interpretato da due dive come Lucia Bosè e Jeanne Moreau, e da un giovane attore alle primissime armi, Gérard Depardieu; fu presentato al Festival di Venezia dello stesso anno, ottenendo un riscontro piuttosto tiepido da parte della critica e del pubblico.

I temi del cinema di Duras sono gli stessi della sua narrativa, del suo teatro, dei suoi interventi saggistici e giornalistici. Nel cinema non è difficile identificare tre periodi ben distinti: da La Musica (1966) a Nathalie Granger (1972) siamo nel ‘cinema della modernità’, sotto l’influsso di Alain Resnais (con il quale Duras aveva collaborato alla sceneggiatura di Hiroshima, mon amour); da La Femme du Gange (1972-73) a Le Navire Night (1979) siamo nel ‘cinema delle voci’, in cui immagini e suono non sono più sincroni, ma viaggiano su piani temporali distanti e talvolta irraggiungibili, in cui il film e il testo percorrono binari paralleli, e le voci dialogano con le immagini; da Césarée (1979) a L’Homme atlantique (1982) siamo nel ‘cinema della voce sola’, poiché solo la voce di Marguerite Duras accompagna le immagini, monologando con esse.

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Il paper si propone come preliminare e sommaria esplorazione degli intrecci fra rappresentazione delle donne che amano altre donne e costruzione filmica dello spazio domestico. L’obiettivo è quello di evidenziare la sovrapposizione del fantasma dell’angelo del focolare e quello delle varie apparizioni di personagge lesbiche nel cinema contemporaneo, mettendo in evidenza metamorfosi, sopravvivenze stereotipiche e nuove immagini di libertà che si confrontano con la problematicità della visibilizzazione di soggetti imprevisti.

The paper is intended as a preliminary and cursory exploration of the interweavings between the representation of women who love other women and the filmic construction of domestic space. The aim is to highlight the overlap of the ghost of the angel of the hearth and that of the various appearances of lesbian personages in contemporary cinema, highlighting metamorphoses, stereotypical survivals and new images of freedom that are confronted with the problematic nature of the visualisation of unexpected subjects.

Nel saggio (da cui è tratto il titolo di questa edizione di FASCinA) che costituisce una rielaborazione del discorso tenuto nel 1931 presso la Women’s Service League, Virginia Woolf sostiene che l’impasse più significativa della sua esperienza di scrittrice riguarda, oltre che la difficoltà di dire la verità sul suo corpo e sulle sue passioni, la sopravvivenza di un modello di femminilità incarnato dal fantasma dell’angelo del focolare che lei ha tentato di uccidere ogni volta che ha preso la penna in mano. Queste pietre d’inciampo si ripresentano secondo lei ad ogni donna che prova a fare della scrittura (romanzesca o giornalistica) un mestiere e riappaiono in tutta la loro ingombrante presenza malgrado le conquiste ottenute nel tempo. Rivolgendosi alle sue interlocutrici Woolf conclude, infatti, sottolineando la necessità di continuare a lavorare in quella direzione:

Richiamando l’immagine della ‘camera tutta per sé’, Woolf pone nuovamente la questione dell’agency delle donne proiettandola nella dimensione dello spazio, evidenziando la necessità di impegnarsi con cura negli ‘arredi’, nelle ‘decorazioni’, cioè nella traduzione visiva e architettonica della configurazione dei luoghi appena acquisiti. Insistendo proprio su questa figurazione iconica della conquista di una libera espressione della soggettività femminile si intende condurre una preliminare e sommaria esplorazione degli intrecci fra rappresentazione delle donne che amano altre donne e costruzione filmica dello spazio domestico, nell’intento di mettere a fuoco la sovrapposizione del fantasma dell’angelo del focolare e quello delle varie apparizioni di personagge lesbiche nel cinema contemporaneo, evidenziando metamorfosi, sopravvivenze stereotipiche e nuove immagini di libertà che si confrontano con la problematicità della visibilizzazione di soggetti imprevisti.

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