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Una fitta rete di analogie sembra legare Lady Macbeth (2016) del britannico William Oldroyd a L’inganno (The Beguiled, 2017) della statunintense Sofia Coppola. Entrambe le pellicole hanno come protagoniste donne borghesi del XIX secolo costrette a una pesante condizione di prigionia domestica. Soltanto la scoperta di un prepotente desiderio sessuale riuscirà violentemente a trasformare il loro modo di abitare tanto lo spazio del corpo quanto lo spazio stesso della casa. A dispetto delle numerose somiglianze sul piano del racconto, i due film si rivelano anche profondamente diversi. Lady Macbeth è stato molto ammirato per il suo severo impianto visivo, dichiaratamente ispirato alla pittura minimalista di Vilhelm Hammershøi. Al contrario, L’inganno manifesta quell spiccaoto gusto per l’immagine ‘piacevole’ che ha alternativamente procurato lodi e critiche alla regista. Attraverso il confronto di alcuni momenti salienti, l’intervento intende evidenziare punti di contatto e punti di allontanamento fra le due opere.

A dense network of analogies links Lady Macbeth (2016) by British director William Oldroyd to The Beguiled (2017) by Sofia Coppola. Both films show middle-class women from the 19th century who are forced to a severe condition of domestic confinement. It is only the breakthrough of a strong sexual desire that will cruelly change their way of occupying the space of their bodies as much as their own homes. Although the films seem to share several similarities in the stories they tell, numerous are the differences they show as well. Lady Macbeth was highly appreciated for its stern and austere visual setting, explicitly inspired by Vilhelm Hammershøi’s minimalist paintings. On the other hand, The Beguiled shows a keen interest for a ‘likeable’ visual quality of the cinematic image that has often given the American director either praise or, alternatively, criticism. By comparing relevant scenes of both films, this contribution aims to highlight the main points of convergence and divergence that characterize them.

 

1. Lady Macbeth e L’inganno: due racconti di prigionia domestica dall’Ottocento

Coperto da un diafano velo nuziale, il volto di una giovanissima donna appare attraversato da un’espressione di ansiosa vulnerabilità. Durante la celebrazione del matrimonio, il suo capo si muove nervoso, sotto la superficie serica del tessuto, col chiaro intento di scrutare lo sposo al proprio fianco. Ma poiché l’uomo è momentaneamente e strategicamente relegato nel fuoricampo, le occhiate furtive della fanciulla risultano vane [fig. 1].

Su questa emblematica immagine di condizionamento dello sguardo femminile si apre Lady Macbeth, pellicola diretta dal britannico William Oldroyd nel 2016. Grazie all’imprescindibile apporto della sceneggiatrice Alice Birch, Oldroyd trasferisce sullo schermo una celebre novella di Nikolaj Leskov guidato essenzialmente da due slanci. In primo luogo, colpisce l’atteggiamento di audace disinvoltura nei riguardi del testo letterario di partenza. Già fonte di ispirazione per Dmítrij Šostakóvič in ambito lirico e per Andrzej Wajda in quello cinematografico, Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk (1865) è qui usata come modello narrativo da cui trarre solo alcune linee fondamentali, quelle maggiormente prossime alla potenza del mito.

Non a caso, Antonija Primorac definisce il film nei termini di una riappropiazione piuttosto che di un semplice adattamento (Primorac 2021, pp. 148-152). Benché sfrutti fin dal titolo il fantasma della sanguinaria eroina di Shakespeare, Leskov sceglie di calare il proprio racconto nella torpida provincia russa dell’Ottocento. Similmente regista e sceneggiatrice, pur mantendo la stessa centralità assegnata a una protagonista capace di ogni efferatezza, spostano l’azione in un contesto culturalmente loro più familiare come l’Inghilterra vittoriana. La rielaborazione leskoviana della figura universalmente nota di Lady Macbeth diventa dunque punto di partenza per una nuova rielaborazione, in cui il confronto con illustri testi preesistenti subisce l’inevitabile influsso delle tendenze in auge nella cinematografia odierna. Il risultato finale è un’opera che, al pari di altre pressoché coeve, si inscrive nel solco del cosiddetto neo-Victorian cinema, proponendo l’ennesima vicenda di insubordinazione femminile a un sistema socio-familiare integralmente maschilista. Del resto, il panorama accademico anglosassone ha spesso evidenziato la natura eversiva della sexual politics al centro di molti fra i prodotti ispirati al lungo regno di Vittoria (Kohlke e Gutleben 2011; Primorac 2018; Tomaiuolo 2018). In secondo luogo, colpisce come proprio questa torbida vicenda di rivolta muliebre non si esprima soltanto attraverso l’involucro pulsante del corpo, dell’eros, ma anche attraverso una progressiva, seppur aberrante, conquista dell’abitazione del suocero e del marito. A proposito della capacità del gender di porsi quale principio organizzativo in campo architettonico, Lynne Walker afferma che «sebbene la casa vittoriana venisse […] continuamente definita “il regno per eccellenza della donna”, di fatto si trattava di uno spazio fortemente patriarcale in termini di territorio, controllo, e significato» (Walker 2002, p. 826). In tal senso, ben si comprende la specularità istituita dal film fra il prepotente desiderio sessuale del personaggio femminile e la sua concomitante ricerca di un dominio sul perimetro domestico.

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Il saggio indaga il ruolo della casa in due film sceneggiati dall’apprezzata drammaturga britannica Alice Birch, Lady Macbeth (W. Oldroyd, 2016) e Secret love (Mothering Sunday, E. Husson, 2021). Entrambi sono adattamenti letterari: il primo è liberamente tratto dalla novella russa Lady Macbeth del distretto di Mtsensk (N. Leskov, 1865), il secondo dal romanzo inglese Un giorno di festa (Mothering Sunday, G. Swift, 2016). A essere evidenziato è il contributo creativo della sceneggiatrice, soprattutto in relazione alla presenza e al significato degli interni domestici, prestando attenzione anche alle analogie con i suoi lavori teatrali quali, in particolare, la pièce Ophelia’s Room. L’analisi sottolinea il ruolo essenziale giocato dal riferimento a Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf nell’adattamento di Un giorno di festa, in cui Birch espande le sezioni nelle quali la protagonista ha finalmente conquistato lo spazio fisico e simbolico necessario a diventare una scrittrice. In Lady Macbeth, invece, le scene ideate da Birch rendono esplicito come uno dei principali obiettivi della lotta di Katherine (Florence Pugh) sia quello di controllare l’accesso agli ambienti domestici, sottraendolo al dominio patriarcale. La sceneggiatura, inoltre, modifica radicalmente il finale della novella, confinando la protagonista ancora all’interno della casa e gettando così nuova luce sull’intera narrazione.

This paper explores the role of the house in two films screenwritten by the acclaimed British playwright Alice Birch, Lady Macbeth (W. Oldroyd, 2016) and Mothering Sunday (E. Husson, 2021). Both of them are literary adaptations, as the first one draws on the 1865 Russian novella Lady Macbeth of the Mtsenk district by Nikolaj Leskov, while the second one is based on the 2016 British novel Mothering Sunday by Graham Swift. To be highlighted is the creative contribution of the screenwriter, especially in relation to the meaning of domestic spaces, and attention is also paid to the similarities with her theatrical works, in particular the play Ophelia’s Room. The analysis points out the pivotal role of Virginia Woolf’s A Room of One’s Own in Birch’s adaptation of Mothering Sunday, which generously expands the sections where the main female character has fully achieved to get her own physical and symbolic space as a writer. As regards Lady Macbeth, the additional scenes devised by Birch make it clear that one of the main goals of Katherine (Florence Pugh)’s struggle is to control the access to the domestic spaces, taking it away from patriarchal domain. Moreover, the script ending is radically different from the novella’s and sheds new light on the whole narration, through showing the main character still confined into the house.

 

 

Revolutionize the language (…).

Revolutionize the world (…).

Revolutionize the work (…).

Revolutionize the body (…).

Alice Birch, Revolt. She said. Revolt again

 

 

Accostandosi ai due film sceneggiati dalla drammaturga britannica Alice Birch, Lady Macbeth (W. Oldroyd, 2016) e Secret love (Mothering Sunday, E. Husson, 2021), si sarebbe tentate di aggiungere un nuovo complemento oggetto alla serie anaforica con cui si aprono le scene di Revolt. She said. Revolt again, pièce firmata dall’autrice nel 2014. ‘Revolutionize the house’ potrebbe, infatti, risuonare l’imperativo che guida le violente azioni di Katherine (Florence Pugh), protagonista di Lady Macbeth, così come il più delicato, ma potente, gesto eversivo di Jane (Odessa Young) in Secret love.

Pur difformi nella resa estetica, che in Secret love lascia spazio a compiacimenti nell’osservazione degli ambienti del tutto alieni al rigore stilistico di Lady Macbeth, i due titoli condividono l’ambizione, rivendicata da Birch nelle interviste su Secret love (Gant 2021), di smarcarsi dal fortunato filone heritage britannico, caratterizzato da indugi nostalgici della macchina da presa sulle tracce di un passato discutibilmente idealizzato (Higson 2003). Quel che più ci interessa è che entrambi sono quasi integralmente ambientati in interni domestici, nei quali le protagoniste cercano di conquistare margini di agency in opposizione al sistema patriarcale e alla sua organizzazione spaziale dei rapporti di potere, esternati con cruda brutalità (Lady Macbeth) o in forme venate di bonario paternalismo (Secret love). Il ruolo protagonistico della casa, ben identificabile nelle narrazioni letterarie di partenza, viene potenziato, o investito di nuove sfumature, dagli apporti di Birch, che già nel proprio lavoro teatrale – si pensi a Ophelia’s Room (2015) – aveva tradotto la condizione di marginalità della sua personaggia attraverso il confinamento in una singola camera.

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Quello della casa infestata è probabilmente il tòpos più rappresentativo di tutta la letteratura gotica. Se nel corso dei secoli il rapporto, a livello narrativo, tra donne e case infestate si è consolidato in maniera sempre più salda, nella contemporaneità è senza dubbio Shirley Jackson a rielaborarne gli aspetti fondanti, creando un precedente da cui è impossibile prescindere. Nel suo L’incubo di Hill House (The Haunting of Hill House, 1959) la scrittrice lega in maniera indissolubile l’inconscio della protagonista alle inquietanti manifestazioni di una casa intrinsecamente maligna. Allo stesso tempo, contribuisce a riscrivere quello che Stephen King definisce l’archetipo del ‘Bad Place’ sondando, forse più di chiunque altro, il terrore legato allo spazio domestico. Con questo articolo intendo indagare come tale modello venga reinterpretato in due recenti horror diretti da donne, The Babadook (J. Kent, 2014) e Relic (N. E. James, 2020), allo scopo di mostrare come tali narrazioni contemporanee si inseriscano nella tradizione del gotico femminile.

The haunted house is probably the most representative tòpos of the Gothic literature. Even if the relationship between women and haunted houses has considerably strengthened over the centuries on the narrative level, Shirley Jackson is undoubtedly the contemporary author who reworked its fundamental aspects, creating a precedent that cannot be disregarded. In her The Haunting of Hill House (1959), the writer inextricably linked the protagonist’s unconscious to the disturbing manifestations of an intrinsically evil house. At the same time, she contributed to the rewriting of what Stephen King calls the ‘Bad Place’ archetype by probing, perhaps more than anyone else, into the terror associated with the domestic space. With this paper, I aim to investigate how that model has been reinterpreted in two recent horror films directed by women, The Babadook (J. Kent, 2014) and Relic (N. E. James, 2020), in order to show how such contemporary narratives fit into the tradition of the female Gothic.  

1. Donne e spazio domestico: la tradizione gotica e la ghost story

Come è noto, quello della casa infestata è un motivo ricorrente in tutta la letteratura gotica. Dalle sue origini (intorno alla seconda metà del Settecento) il tòpos del castello infestato da spettri (Punter 1996, p. 5) si è evoluto fino a giungere, attraverso reinterpretazioni successive, alla contemporaneità. Tuttavia, la sola presenza di dimore isolate al cui interno si manifestano eventi soprannaturali non basta a rappresentare pienamente questa specifica tradizione letteraria che, da sempre, ha prestato un particolare riguardo verso i personaggi femminili. Non sarebbe infatti esagerato affermare che è il gotico (più di ogni altro genere) a «testimoniare immancabilmente il legame intimo tra un soggetto femminile e la casa» (Hock Soon 2015, p. 4).

Se, nel contemporaneo, scrittrici come Angela Carter, Margaret Atwood, Emma Tennant e Joyce Carol Oates hanno riattualizzato il genere arricchendolo con una prospettiva di genere e femminista (Wisker 2016, p. 207), prima di loro è stata certamente Shirley Jackson ad averne rielaborato metodicamente gli aspetti fondanti, tanto da diventare un vero e proprio modello per quello che in seguito è stato definito «gotico femminile» (Arnold 2013; Barton 2020; Rubenstein 1996). Nello specifico, rientrano sotto questa etichetta quelle narrazioni scritte da donne e incentrate su personaggi femminili in cui gli elementi tradizionali del gotico vengono rielaborati in maniera peculiare, ad esempio, sondando travagliati rapporti madre-figlia o narrando la prigionia delle protagoniste in case che riflettono i loro fragili stati emotivi e mentali (Rubenstein 1996, p. 312). In questo scenario, Jackson rappresenta senz’altro un precedente da cui è impossibile prescindere: attraverso le sue opere, e in particolare con The Haunting of Hill House pubblicato nel 1959, l’autrice ha riscritto le regole del gotico, utilizzando il motivo della casa infestata per riflettere sulla vita delle donne tra gli anni Cinquanta e Sessanta (Barton 2020), in bilico tra domesticità e desiderio di evasione. Nel romanzo la scrittrice mette a tema il potere delle case di intrappolare e rendere inoffensive le proprie abitanti (Hague 2005, p. 83): nel suo riproporre il motivo gotico dell’ingabbiamento (Barton 2020), Jackson in realtà si concentra sulla «solitudine e la frammentazione identitaria dei suoi personaggi femminili, sulla loro incapacità di relazionarsi con il mondo esterno e allo stesso tempo di vivere autonomamente, e sul loro confronto con un vuoto interiore che spesso sfocia nella malattia mentale» (Hague 2005, p. 74).

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