2.6. Revolutionize the house. La casa nelle sceneggiature cinematografiche di Alice Birch

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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
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Il saggio indaga il ruolo della casa in due film sceneggiati dall’apprezzata drammaturga britannica Alice Birch, Lady Macbeth (W. Oldroyd, 2016) e Secret love (Mothering Sunday, E. Husson, 2021). Entrambi sono adattamenti letterari: il primo è liberamente tratto dalla novella russa Lady Macbeth del distretto di Mtsensk (N. Leskov, 1865), il secondo dal romanzo inglese Un giorno di festa (Mothering Sunday, G. Swift, 2016). A essere evidenziato è il contributo creativo della sceneggiatrice, soprattutto in relazione alla presenza e al significato degli interni domestici, prestando attenzione anche alle analogie con i suoi lavori teatrali quali, in particolare, la pièce Ophelia’s Room. L’analisi sottolinea il ruolo essenziale giocato dal riferimento a Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf nell’adattamento di Un giorno di festa, in cui Birch espande le sezioni nelle quali la protagonista ha finalmente conquistato lo spazio fisico e simbolico necessario a diventare una scrittrice. In Lady Macbeth, invece, le scene ideate da Birch rendono esplicito come uno dei principali obiettivi della lotta di Katherine (Florence Pugh) sia quello di controllare l’accesso agli ambienti domestici, sottraendolo al dominio patriarcale. La sceneggiatura, inoltre, modifica radicalmente il finale della novella, confinando la protagonista ancora all’interno della casa e gettando così nuova luce sull’intera narrazione.

This paper explores the role of the house in two films screenwritten by the acclaimed British playwright Alice Birch, Lady Macbeth (W. Oldroyd, 2016) and Mothering Sunday (E. Husson, 2021). Both of them are literary adaptations, as the first one draws on the 1865 Russian novella Lady Macbeth of the Mtsenk district by Nikolaj Leskov, while the second one is based on the 2016 British novel Mothering Sunday by Graham Swift. To be highlighted is the creative contribution of the screenwriter, especially in relation to the meaning of domestic spaces, and attention is also paid to the similarities with her theatrical works, in particular the play Ophelia’s Room. The analysis points out the pivotal role of Virginia Woolf’s A Room of One’s Own in Birch’s adaptation of Mothering Sunday, which generously expands the sections where the main female character has fully achieved to get her own physical and symbolic space as a writer. As regards Lady Macbeth, the additional scenes devised by Birch make it clear that one of the main goals of Katherine (Florence Pugh)’s struggle is to control the access to the domestic spaces, taking it away from patriarchal domain. Moreover, the script ending is radically different from the novella’s and sheds new light on the whole narration, through showing the main character still confined into the house.

 

 

Revolutionize the language (…).

Revolutionize the world (…).

Revolutionize the work (…).

Revolutionize the body (…).

Alice Birch, Revolt. She said. Revolt again

 

 

Accostandosi ai due film sceneggiati dalla drammaturga britannica Alice Birch, Lady Macbeth (W. Oldroyd, 2016) e Secret love (Mothering Sunday, E. Husson, 2021), si sarebbe tentate di aggiungere un nuovo complemento oggetto alla serie anaforica con cui si aprono le scene di Revolt. She said. Revolt again, pièce firmata dall’autrice nel 2014. ‘Revolutionize the house’ potrebbe, infatti, risuonare l’imperativo che guida le violente azioni di Katherine (Florence Pugh), protagonista di Lady Macbeth, così come il più delicato, ma potente, gesto eversivo di Jane (Odessa Young) in Secret love.

Pur difformi nella resa estetica, che in Secret love lascia spazio a compiacimenti nell’osservazione degli ambienti del tutto alieni al rigore stilistico di Lady Macbeth, i due titoli condividono l’ambizione, rivendicata da Birch nelle interviste su Secret love (Gant 2021), di smarcarsi dal fortunato filone heritage britannico, caratterizzato da indugi nostalgici della macchina da presa sulle tracce di un passato discutibilmente idealizzato (Higson 2003). Quel che più ci interessa è che entrambi sono quasi integralmente ambientati in interni domestici, nei quali le protagoniste cercano di conquistare margini di agency in opposizione al sistema patriarcale e alla sua organizzazione spaziale dei rapporti di potere, esternati con cruda brutalità (Lady Macbeth) o in forme venate di bonario paternalismo (Secret love). Il ruolo protagonistico della casa, ben identificabile nelle narrazioni letterarie di partenza, viene potenziato, o investito di nuove sfumature, dagli apporti di Birch, che già nel proprio lavoro teatrale – si pensi a Ophelia’s Room (2015) – aveva tradotto la condizione di marginalità della sua personaggia attraverso il confinamento in una singola camera.

Il progetto di Secret love nasce, nelle parole della regista Eva Husson (Mongrel Media 2021), sotto il segno di un «triumvirato femminile» composto da Husson, Birch ed Elizabeth Karlsen, già produttrice di Carol (T. Haynes, 2015). A questi tre nomi si potrebbero aggiungere quelli dell’interprete Odessa Young, il cui contributo alla definizione della personaggia di Jane viene sottolineato da Husson (si veda l’intervista contenuta negli extra del dvd), e della costumista Sandy Powell, affermatasi grazie a Orlando di Sally Potter (1992). Il nume tutelare del progetto è Virginia Woolf, amatissima da Husson che ha chiesto a Powell di trarre ispirazione dall’abbigliamento della scrittrice per la parte di film che si svolge negli anni Venti. L’ammirazione per Woolf è condivisa da Birch, la cui opera teatrale, oltre a un adattamento di Orlando, presenta echi woolfiani anche in testi quali il ricordato Ophelia’s Room (Montironi 2020). Riferimenti espliciti a Woolf, assenti nel romanzo di Graham Swift Un giorno di festa (Mothering Sunday, 2016) da cui il lungometraggio è tratto, vengono così introdotti nella sceneggiatura: se Orlando è il libro che Jane consiglia al marito Donald (Sopé Dìrísù) di acquistare come regalo per la madre, è soprattutto Una stanza tutta per sé a costituire un sottotesto di riferimento per l’intera narrazione filmica. Il volume verrà donato a Jane da Donald, il quale proporrà alla donna di acquistare una nuova casa nella quale ella possa avere a disposizione una stanza per scrivere. E proprio le stanze in cui Jane scrive, nei differenti piani temporali che la vedono adulta e successivamente anziana, acquistano nel film un certo rilievo, con la reiterazione di immagini che la ritraggono seduta di fronte a una finestra [fig. 1]. Birch ha lavorato soprattutto sull’ampliamento di tali sezioni, funzionali a descrivere la vita di Jane successiva a quella domenica del 1924 (il Mothering Sunday che dà il titolo originale al romanzo) nella quale la maggior parte della narrazione letteraria è ambientata. Per la sceneggiatrice è dunque cruciale portare l’attenzione verso l’acquisizione strutturale, e autonoma, da parte della protagonista, della ‘stanza tutta per sé’, di condizioni materiali e psicologiche indispensabili al lavoro di scrittrice. Condizioni che durante il Mothering Sunday del 1924 ella sperimenta per la prima volta solo in una cornice di eccezionalità, e unicamente attraverso il dono di un uomo, il ricco amante Paul Sheringham (Josh O’ Connor).

Quel giorno, infatti, Paul consente a Jane – cresciuta in orfanotrofio, poi vissuta in qualità di domestica nella villa dei Niven (Colin Firth e Olivia Colman) – di avere a disposizione per alcune ore, in solitudine, la dimora di lui. Ogni singolo spazio dell’abitazione viene fruito da Jane in forme differenti rispetto a quelle consentite a una domestica e, più in generale, a una donna. Tanto nel romanzo, quanto nel film, il percorso della giovane nella casa viene minuziosamente seguito. Si inizia con l’entrata dall’ingresso principale e non dalla porta di servizio; si prosegue nella camera da letto, dove per la prima volta il rapporto sessuale con Paul non si consuma frettolosamente in qualche luogo nascosto, bensì in una comoda stanza, con la luce del sole che illumina i corpi nudi di entrambi, finalmente offerti a una prolungata osservazione reciproca. Ma è soprattutto una volta uscito Paul che Jane inizia a fruire a piacimento di ogni singolo ambiente, restando ostinatamente nuda al fine di non ripristinare quel «travestimento» (Swift 2020, p. 84) che la confina nei panni di domestica. Il bagno, lo spogliatoio, il pianerottolo, le scale, il salone, il vestibolo, la biblioteca, la cucina. La dimensione sensoriale dell’esperienza di Jane (non più limitata al ruolo di domestica che «osserv[a] la vita, rimanendone esclusa»: Swift 2020, p. 95), sottolineata nel romanzo tramite i riferimenti al contatto fisico dei piedi con il pavimento, viene restituita filmicamente nei momenti in cui Jane tocca i dipinti, annusa i libri, fuma all’interno della biblioteca [fig. 2]. È proprio quella della biblioteca la sequenza maggiormente significativa, di cui la regista rivendica le valenze politiche, accostandola al momento di Una stanza tutta per sé in cui Woolf riscontra l’assenza, sugli scaffali, di testi firmati da donne (Fagerholm 2022):

 

I felt this scene was the cinematic version of that discourse where suddenly, just by her own presence, she belongs there and is an embodiment of the future of creativity […]. It’s such a powerful visual in a patriarchal society where for millennia, it was not even thinkable that she would be able to stand there at all, and all of a sudden, her presence is entirely natural.

 

Nel romanzo, la biblioteca viene definita un «santuario maschile» (Swift 2020, p. 74), precluso alla protagonista non solo per la sua appartenenza di classe, ma anche per quella di genere («Era difficile pensare a qualcosa di più scioccante di una donna che entrasse nuda in una biblioteca», Ivi). L’ingresso alla biblioteca dei Niven consentito, pur con qualche iniziale esitazione, da Mr. Niven, sembrava reso possibile solo dall’assenza dei figli maschi morti durante il conflitto mondiale (i cui libri annotati finiscono tra le mani di Jane), collocandosi nel quadro degli spazi di emancipazione femminile aperti da quella congiuntura. Ma è solo la situazione orchestrata da Paul a consentire per la prima volta a Jane un pieno accesso alla biblioteca (questa volta degli Sheringham, descritta però come molto simile a quella dei Niven), nel giorno in cui ella stessa rivelerà, in seguito, di essere diventata una scrittrice. Una possibilità che, in linea con gli assunti di Woolf, si apre solo grazie alla temporanea fruizione di una condizione abitualmente riservata al genere maschile.

Nel romanzo è ampiamente sottolineato come Jane prenda, quel giorno, il posto di Paul – e con particolare evidenza nella sezione che si svolge in cucina –. Come per Katherine in Lady Macbeth, anche per Jane l’atto di cibarsi in modo famelico e scomposto, e di ruttare, traduce un eccesso, la rivendicazione di un piacere che travalica la mera espletazione delle funzioni corporali – non diversamente da quello generato dalla «cruda sessualità» che Birch reputa il principale elemento di connessione tra i due film (Gant 2021) [fig. 3] –. L’emancipazione di Katherine, al pari di quella di Jane, si realizza attraverso l’utilizzo eversivo dei singoli ambienti che compongono la dimora. Se quella di Jane è una conquista graduale, l’unica possibilità per Katherine appare lo scontro frontale, che mira anche ad arrogarle il diritto a regolare in prima persona lo stesso accesso agli spazi, sottraendo tale regolazione al dominio patriarcale.

Nella prima parte di Lady Macbeth, la sceneggiatura di Birch insiste sulla ripetizione, sulla «routine quotidiana» impostata su un «ritmo ciclico», che si dipana in interni «spartani, privi di colore e austeri» atti a «visualizza[re] le costrizioni patriarcali», riprendendo in tal senso soluzioni già adottate in Ophelia’s Room (Montironi 2020). Ogni camera è deputata a rituali da svolgersi in precisi orari: si pensi solo all’apertura mattutina della finestra da parte della domestica Anna (Naomi Ackie).

Nella novella russa Lady Macbeth del distretto di Mtsensk (Nikolaj Leskov, 1865), che Birch ricolloca nel nord dell’Inghilterra, l’impatto destabilizzante dei comportamenti di Katherina appare riconducibile non solo all’aver intrapreso una relazione amorosa con lo stalliere Sergeji (nel film, Sebastian), ma anche all’aver consentito all’uomo di frequentare gli spazi padronali, sino a prendere definitivamente, da un certo punto in poi, il posto del marito. La sceneggiatura di Birch moltiplica le situazioni in cui è Katherine a stabilire chi può e chi non può oltrepassare le soglie delle diverse stanze. Si pensi solo alla sequenza dell’uccisione del suocero (Cristopher Fairbank), assente nel romanzo: Katherine, bloccando la porta della sala da pranzo con una sedia, impedisce all’uomo sofferente di entrare, costringendo invece Anna a permanere all’interno e sedersi al tavolo che, in quanto domestica, le era rigorosamente precluso [fig. 4]. Birch intensifica inoltre le misteriose apparizioni del gatto, nella novella una sorta di fantasma del suocero, che nel film appare però anche prima che l’omicidio avvenga. La presenza dell’animale, che si muove accanto a Katherine quando ella dorme ‘inappropriatamente’ sul sofà, si ciba sulla tavola mentre lei fa l’amore in camera con Sebastian (Cosmo Jarvis), o si siede al tavolo da pranzo al pari di un commensale [fig. 5], oltre ad alludere all’emersione di una dimensione istintuale può essere letto, a mio avviso, quale figura paradigmatica dell’‘effrazione’: ennesimo elemento ‘esterno’ a cui Katherine consente di fruire dell’abitazione in modi che sfidano le norme stabilite. Altri passaggi introdotti da Birch esplicitano come la lotta di Katherine si giochi sul controllo dello spazio domestico. Se nella novella di Leskov, infatti, l’arrivo di un giovane erede rischia di privare i due amanti della loro fortuna, confinandoli al ruolo di «padroni di una casa vuota» (Leskov 2015, p.68), nel film l’accento è continuamente posto sull’esclusione di Sebastian dalla dimora padronale, intensamente sofferta da entrambi; inoltre, Birch inserisce il dettaglio della richiesta a Katherine di cedere la propria stanza al bambino.

Le soglie – tanto quelle che delimitano gli ambienti interni, quanto quelle che danno sull’esterno – assumono un ruolo centrale sia in Lady Macbeth sia in Secret love, anche attraverso l’evidenza visiva a esse conferita. Secret love, ad esempio, comincia proprio con l’inquadratura di una finestra, inizialmente presentata quale cortina impercettibile, teatro di osservazione per la futura scrittrice, e, subito dopo, quale superficie materica, resa visibile grazie al panno con il quale, nel suo ruolo di domestica, Jane la sta strofinando [fig. 6]. In Lady Macbeth, porte e finestre sono sovente inquadrate nell’ambito di studiate composizioni simmetriche, che spesso includono la protagonista immobile, sapientemente posizionata tra le spoglie scenografie al fine di apparire un arredo fra gli altri. Il loro valore viene naturalmente esaltato nel quadro di una drammaturgia incentrata sugli ingressi e sulle uscite, su chi viene fatto entrare e chi viene cacciato, su chi è costretto a restare fuori (magari spiando attraverso la porta, come fa Anna) e chi a restare dentro (magari osservando l’esterno da una finestra, come Katherine [fig. 7]).

Non andrà dimenticato che il regista Oldroyd, al pari di Birch, proviene dal teatro; né il costante riferimento pittorico alle opere di Vilhelm Hammershøi, rivendicato da Oldroyd (Weston 2017), alle sue donne alla finestra e alle sue visioni attraverso porte semiaperte. Ma tale insistenza sulle soglie e sulla loro valenza metaforica delle dinamiche di esclusione va ricondotta anche all’indagine delle strutture di potere sulle quali si è costruito l’impero britannico, spesso esplicitamente condotta dal filone cinematografico neo-vittoriano a cui Lady Macbeth appartiene (Primorac 2022). Basti pensare a Cime tempestose (Wuthering Heights, 2011) di Andrea Arnold, adattamento del romanzo di Brontë narrato interamente attraverso il punto di vista dell’escluso Heathcliff, interpretato per la prima volta da un attore di colore (nell’infanzia Solomon Glave, nella maturità James Howson). Un film parimenti ossessionato dal motivo della soglia, e che rappresenta un punto di riferimento per il lavoro di Oldroyd (Colón Semenza 2022), con cui condivide uno degli interpreti principali (Paul Hilton) ma, soprattutto, l’ambientazione nelle brughiere inglesi, che ha spesso spinto ad analizzare Lady Macbeth proprio alla luce del testo di Brontë (Bernabeu 2021). Come in Cime tempestose, anche in Lady Macbeth gli esterni vengono configurati quali spazi di libertà, una connotazione accentuata dall’uso di inquadrature dinamiche che si contrappongono a quelle statiche negli interni. In Lady Macbeth, tuttavia, la contrapposizione viene messa in discussione sul piano narrativo dall’azione della protagonista, che rivendica la propria agency anche dentro l’abitazione.

La lotta di Katherine, però, non si esime da forme di prevaricazione e dalla spietata reiterazione della violenza patriarcale da lei subita, che ella esercita a propria volta nei confronti della domestica Anna, dell’innocente Teddy (Anton Palmer) e dello stesso Sebastian. In particolare nella descrizione del rapporto con Anna, invenzione originale di Birch rispetto alla novella di Leskov (nella quale Katherina si limitava a qualche confidenza con la cuoca Acsinia), viene esplicitamente introdotta una prospettiva intersezionale (Tronicke 2022). Se la traiettoria di Jane in Secret love appare quella di una ribellione fertile e creativa, il percorso di Lady Macbeth assume una forza perturbante, non riconciliata: Katherine conduce una rivolta disperata, scomposta, priva di ogni barlume di pietà, sui cui esiti Birch lascia aperto un interrogativo. L’intervento forse più macroscopico della sceneggiatrice sul testo di Leskov, accanto a quelli che interessano la figura di Anna, è operato sul finale. L’unica, seppur tragica, uscita di Katherina dalla casa, con la deportazione verso i lavori forzati che, nella novella, la condurrà alla morte, viene sostituita da un epilogo che, dopo la cattura di Sebastian e Anna (accusata da Katherine dei crimini da lei stessa commessi), vede Katherine ancora all’interno della propria dimora. Ora totalmente sola, seduta sul sofà, la sua figura reitera una composizione visiva analoga alle precedenti [fig. 8]. Pur sottraendola alla meccanicità della punizione infertale nella novella, in questa chiusura enigmatica Birch sembra costringere la protagonista in una condizione pari a quella iniziale, resa ancor più claustrofobica dalla constatazione di una sorta di inevitabilità. Nonostante la lotta per l’appropriazione dello spazio domestico appaia conclusa, sembra suggerirci la drammaturga, le strutture invisibili che regolano l’esistenza di Katherine nel quadro dell’oppressione patriarcale non sono, ancora, sgretolate.

Tag: spazio domestico, cinema e letteratura, cinema contemporaneo, sceneggiatura, Alice Birch

Bibliografia

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A. Birch, Revolt. She said. Revolt again, London-New York-Dublin, Methuen Drama, 2021.

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