2.7. «You didn’t tell me it was a house of mad women». Il violento controllo femminile sulla casa in Lady Macbeth (2016) di William Oldroyd e L’inganno (2017) di Sofia Coppola

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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
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Una fitta rete di analogie sembra legare Lady Macbeth (2016) del britannico William Oldroyd a L’inganno (The Beguiled, 2017) della statunintense Sofia Coppola. Entrambe le pellicole hanno come protagoniste donne borghesi del XIX secolo costrette a una pesante condizione di prigionia domestica. Soltanto la scoperta di un prepotente desiderio sessuale riuscirà violentemente a trasformare il loro modo di abitare tanto lo spazio del corpo quanto lo spazio stesso della casa. A dispetto delle numerose somiglianze sul piano del racconto, i due film si rivelano anche profondamente diversi. Lady Macbeth è stato molto ammirato per il suo severo impianto visivo, dichiaratamente ispirato alla pittura minimalista di Vilhelm Hammershøi. Al contrario, L’inganno manifesta quell spiccaoto gusto per l’immagine ‘piacevole’ che ha alternativamente procurato lodi e critiche alla regista. Attraverso il confronto di alcuni momenti salienti, l’intervento intende evidenziare punti di contatto e punti di allontanamento fra le due opere.

A dense network of analogies links Lady Macbeth (2016) by British director William Oldroyd to The Beguiled (2017) by Sofia Coppola. Both films show middle-class women from the 19th century who are forced to a severe condition of domestic confinement. It is only the breakthrough of a strong sexual desire that will cruelly change their way of occupying the space of their bodies as much as their own homes. Although the films seem to share several similarities in the stories they tell, numerous are the differences they show as well. Lady Macbeth was highly appreciated for its stern and austere visual setting, explicitly inspired by Vilhelm Hammershøi’s minimalist paintings. On the other hand, The Beguiled shows a keen interest for a ‘likeable’ visual quality of the cinematic image that has often given the American director either praise or, alternatively, criticism. By comparing relevant scenes of both films, this contribution aims to highlight the main points of convergence and divergence that characterize them.

 

1. Lady Macbeth e L’inganno: due racconti di prigionia domestica dall’Ottocento

Coperto da un diafano velo nuziale, il volto di una giovanissima donna appare attraversato da un’espressione di ansiosa vulnerabilità. Durante la celebrazione del matrimonio, il suo capo si muove nervoso, sotto la superficie serica del tessuto, col chiaro intento di scrutare lo sposo al proprio fianco. Ma poiché l’uomo è momentaneamente e strategicamente relegato nel fuoricampo, le occhiate furtive della fanciulla risultano vane [fig. 1].

Su questa emblematica immagine di condizionamento dello sguardo femminile si apre Lady Macbeth, pellicola diretta dal britannico William Oldroyd nel 2016. Grazie all’imprescindibile apporto della sceneggiatrice Alice Birch, Oldroyd trasferisce sullo schermo una celebre novella di Nikolaj Leskov guidato essenzialmente da due slanci. In primo luogo, colpisce l’atteggiamento di audace disinvoltura nei riguardi del testo letterario di partenza. Già fonte di ispirazione per Dmítrij Šostakóvič in ambito lirico e per Andrzej Wajda in quello cinematografico, Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk (1865) è qui usata come modello narrativo da cui trarre solo alcune linee fondamentali, quelle maggiormente prossime alla potenza del mito.

Non a caso, Antonija Primorac definisce il film nei termini di una riappropiazione piuttosto che di un semplice adattamento (Primorac 2021, pp. 148-152). Benché sfrutti fin dal titolo il fantasma della sanguinaria eroina di Shakespeare, Leskov sceglie di calare il proprio racconto nella torpida provincia russa dell’Ottocento. Similmente regista e sceneggiatrice, pur mantendo la stessa centralità assegnata a una protagonista capace di ogni efferatezza, spostano l’azione in un contesto culturalmente loro più familiare come l’Inghilterra vittoriana. La rielaborazione leskoviana della figura universalmente nota di Lady Macbeth diventa dunque punto di partenza per una nuova rielaborazione, in cui il confronto con illustri testi preesistenti subisce l’inevitabile influsso delle tendenze in auge nella cinematografia odierna. Il risultato finale è un’opera che, al pari di altre pressoché coeve, si inscrive nel solco del cosiddetto neo-Victorian cinema, proponendo l’ennesima vicenda di insubordinazione femminile a un sistema socio-familiare integralmente maschilista. Del resto, il panorama accademico anglosassone ha spesso evidenziato la natura eversiva della sexual politics al centro di molti fra i prodotti ispirati al lungo regno di Vittoria (Kohlke e Gutleben 2011; Primorac 2018; Tomaiuolo 2018). In secondo luogo, colpisce come proprio questa torbida vicenda di rivolta muliebre non si esprima soltanto attraverso l’involucro pulsante del corpo, dell’eros, ma anche attraverso una progressiva, seppur aberrante, conquista dell’abitazione del suocero e del marito. A proposito della capacità del gender di porsi quale principio organizzativo in campo architettonico, Lynne Walker afferma che «sebbene la casa vittoriana venisse […] continuamente definita “il regno per eccellenza della donna”, di fatto si trattava di uno spazio fortemente patriarcale in termini di territorio, controllo, e significato» (Walker 2002, p. 826). In tal senso, ben si comprende la specularità istituita dal film fra il prepotente desiderio sessuale del personaggio femminile e la sua concomitante ricerca di un dominio sul perimetro domestico.

Se nel prologo appena descritto il velo produce una sorta di barriera attorno alla protagonista, ostacolandone la visuale, nella sequenza immediatamente successiva è tutto il corpo di questa sposa adolescente ad apparire prigioniero: prigioniero di una gelida unione coniugale così come di una altrettanto gelida dimora signorile nella campagna inglese. Spogliata degli abiti da cerimonia e diligentemente infilata in una sobria camicia da notte, Katherine (Florence Pugh) ‒ così scopriremo chiamarsi la giovane ‒ è presto costretta a scontrarsi con la sadica impotenza del marito, il borghese Alexander Lester (Paul Hilton). Incluso ora nel campo visivo, Lester si rivela una figura mefistofelica nella sua spettrale magrezza e soprattutto nell’algida crudeltà delle sue richieste. Dinanzi al trepido apprezzamento della moglie per le passeggiate all’aria fresca, l’uomo ribatte aspramente che dovrà invece rimanersene chiusa in casa. Poi, senza manifestare alcuna intenzione di consumare il matrimonio, le intima di restare in piedi, nuda. Significativamente, alla morbida nudità della nuova Mrs. Lester, immobile in una camera arredata con ferale rigore, si contrappone, nell’inquadratura seguente, la selvaggia nudità della brughiera, su cui viene a imprimersi il titolo del film.

Neppure cinque minuti sono trascorsi dall’inizio e già la regia di Lady Macbeth manifesta un’estetica severamente robusta, in grado di suggerire, senza inutili orpelli in termini di narrazione o di forma, pregnanti connessioni sul piano dell’immagine. L’esibita corporeità femminile è idealmente associata a un paesaggio che, seppur brullo, appare oscuramente affascinante nella sua assenza di confini. Di contro, la protervia maschile trova la propria funerea materializzazione in un interno asfittico, dove il talamo nuziale risulta sinistramente posizionato fra due ampie finestre sbarrate da scuri [fig. 2].

L’estraneità dell’opera a quella patina edulcorata tipica di tante anacronistiche produzioni in costume è stata ampiamente notata dalla critica. Secondo per esempio Anke Brouwers, «analogamente ad altri adattamenti tratti da romanzi del XIX secolo come […] Jude (1996) di Michael Winterbottom, Cime tempestose (Wuthering Heights, 2011) di Andrea Arnold e, in misura minore, Jane Eyre (2011) di Cary Joji Fukunaga», Lady Macbeth mira a un effetto di livida sincerità che non rifugge dalla sporcizia, dalla bruttezza e dalla reale sofferenza fisica» (Brouwers 2017). In altre parole, questo e altri film sono «esteticamente espliciti»:

Vogliono [cioè] mostrare quello che le pellicole della classicità hollywoodiana […] avrebbero di norma occultato, suggerito o ignorato: gli animali sono torturati e uccisi, i bambini picchiati; la sessualità è una faccenda imbarazzante e sgradevole oppure è il suo esatto contrario: appassionata ed eccitante così come mai sarebbe stata rappresentata […] durante l’era del Production Code (Ibidem).

La stessa ruvida autenticità modella luoghi e psicologie: «Ci sono mosche in cucina e topi in soffitta; la campagna è fangosa, nebbiosa e fredda; le case sono scricchiolanti e piene di spifferi; la gente è razzista, ingiusta, crudele […] e la classe sociale resta un fattore divisivo determinante» (Ibidem). Il rifiuto di qualsiasi ipocrisia nella ricostruzione del passato è consonante con la già accennata riflessione circa le possibilità di autonomia femminile in un’epoca che paradossalmente fu prefemminista. Robert Koehler osserva come il passaggio dal 2016 al 2017 abbia visto l’uscita, oltre a Lady Macbeth, di ben altri tre period dramas A Quiet Passion (2016) di Terence Davies, Una vita (Une vie, 2016) di Stéphane Brizé e L’inganno (The Beguiled, 2017) di Sofia Coppola ‒ che sembrerebbero formare, in virtù delle loro molteplici affinità, una sorta di corpus compatto (Koehler 2017, p. 40). Scrive Koehler:

Questi quattro titoli ritraggono donne borghesi dell’Ottocento alle prese con vite davvero simili nella loro condizione di quasi totale prigionia domestica. […] Non tutte sono trattenute con la forza […], ma tutte provano la medesima palpabile sensazione di soffocamento fisico ed emotivo. Ciascuno di questi film ha origini letterarie e ciascuno adotta strategie cinematografiche diverse per […] distruggere un eventuale effetto di imbalsamazione teatrale (Ibidem).

Sebbene il critico stesso ammetta che tali similitudini potrebbero essere frutto di pura coincidenza, rimane forte la tentazione di addentrarsi in un gioco interpretativo all’insegna del confronto. In particolare, sono soprattutto Lady Macbeth e L’inganno a evocare una suggestiva rete di risonanze, a cominciare innanzitutto dalle rispettive trame. Ambientata nella brumosa Inghilterra del 1865, la pellicola di Oldroyd comincia, come abbiamo visto, con la celebrazione di un tipico matrimonio vittoriano, la cui logica non si basa certamente sul sentimento ma sul bieco scambio economico. Fin dalle prime disturbanti scene, i danni inferti da tale logica alla sfera del desiderio non sono ignorati. Anche se le viene continuamente rammentato che i suoi principali doveri sono generare un erede e provvedere alla casa, Katherine è a più riprese rifiutata dal consorte tanto sul piano sessuale che su quello affettivo. A un orizzonte esistenziale così disparitario la giovane si ribella diventando amante di Sebastian (Cosmo Jarvis), un giovane stalliere dalla bruna ed esotica bellezza. Fatto degno di nota, la relazione inizia proprio quanto Katherine è chiamata ad assumere il ruolo di indiscussa padrona di casa, dal momento che sia il suocero sia il marito si sono allontanati per affari. Ma proprio la strenua difesa di tale ruolo finirà per condurla a una incalzante serie di azioni delittuose. A ben vedere, i tre omicidi commessi dalla protagonista ‒ quello del suocero Boris (Christopher Fairbank), del marito Alexander e di Teddy (Anton Palmer), il figlioletto illegittimo di quest’ultimo ‒ hanno il paradossale effetto di spezzare una tossica catena di legami patriarcali. Invero, il dispotismo dell’anziano Boris sembra aver inciso sulla contorta sessualità del figlio Alexander. Alexander, dal canto suo, tiene nascosta l’esistenza di Teddy, bambino concepito con una donna nera, malgrado il riconoscimento come legittimo erede.

Soltanto nel finale, sensibilmente distante da quello della novella russa, Katherine rivolgerà la sua sempre più diabolica scaltrezza contro Sebastian e contro Anna (Naomi Ackie), una delle camerie al servizio dei Lester. Personaggi socialmente subalterni, i due saranno facilmente indicati dalla donna come responsabili dei suoi crimini e quindi consegnati a una frettolosa giustizia. Non ha forse torto Primorac quanto sostiene che la Lady Macbeth di Leskov giungeva a scoprire «il potere del desiderio», mentre quella ricreata negli anni Duemila pare semmai scoprire «il desiderio del potere» (Primorac 2021, p. 150).

Liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Thomas P. Cullinan del 1966, già portato sullo schermo da Don Siegel nel decennio successivo, L’inganno di Sofia Coppola racconta una vicenda parimenti incentrata sul traumatico incontro-scontro fra femminile e maschile. È infatti risaputo come il cinema della regista americana da sempre metta al proprio centro la prismatica esperienza dell’essere donna in seno a una società che, nonostante il divenire storico, si conferma immancabilmente segnata dalle strette maglie del patriarcato. Nel caso particolare di L’inganno, il racconto ci conduce nella Virginia del 1864, dove una decadente villa convertita in ‘collegio per signorine’ si trova ad affrontare i pericoli di un conflitto fratricida ormai perso. Diversamente da Lady Macbeth, la pellicola di Coppola presenta una dimensione corale, giacché si costruisce attorno a una isolata comunità di donne tutte rigorosamente nubili, ma assai diverse fra loro per età, indole ed esperienze. Come rilevato da Koehler, comune a entrambi i film è però la stessa stagnante situazione di confinamento domestico, quasi la casa funzionasse alla stregua di una gabbia volta a imbrigliare gli spiriti e le carni (Koehler 2017, p. 40). Infine, comune ad ambo le opere è l’imprevista irruzione nell’opprimente quotidianità femminile di un desiderio sovversivo, destinato a sconvolgere il modo con cui la donna abita lo spazio, sia esso lo spazio del corpo o quello del focolare domestico.

In L’inganno, la severa direttrice del collegio Miss Martha Farnsworth (Nicole Kidman) e le sue litigiose educande non sperimentano certo una passione animalesca come quella fra Katherine e Sebastian. In questo thriller che alla foschia della brughiera preferisce la non meno perturbante atmosfera del Southern Gothic, i già fragili equilibri dell’Istituto Farnsworth sono scossi dall’accoglienza e dalle cure prestate a un soldato nordista ferito. Come suggerisce il titolo originale ‒ The Beguiled ‒, tra l’affascinante ma astuto caporale John McBurney (Colin Farrell) e le donne del convitto si sviluppa una dinamica pericolosamente all’insegna della reciproca seduzione fisica e psicologica. Trattato dapprincipio con la freddezza che si riserva al nemico, ma infine eletto un po’ da tutte a oggetto di inconfessate fantasie, McBurney rischierà di rovesciare l’originario controllo muliebre sulla casa. Nondimeno, anche in questo caso, l’epilogo vedrà nuovamente l’uomo cadere vittima di una implacabile vendetta femminile. Dopo avergli amputato una gamba ferita, Miss Martha riuscirà, complici le proprie allieve, a uccidere il soldato con una cena a base di funghi avvenelati. Curiosamente anche Katherine sceglie di sbarazzarsi del bilioso suocero procurandogli un avvelenamento da funghi. Oltre ad alludere in maniera poco cifrata all’evirazione, il taglio dell’arto non può, invece, non ricordare i furiosi colpi di attizzatoio che la giovane sferra al marito una volta colta in adulterio. Mai come in questi due momenti di debordante violenza Lady Macbeth e L’inganno si dimostrano segnati da quella ormai lunga tradizione cinematografica che fa del mostruoso femminile il proprio perno (Creed 1993).

A dispetto di tanti punti di contatto sul piano narrativo, una differenza fondamentale separa però il film di Oldroyd da quello di Coppola. Come si è ormai intuito, molti personaggi in Lady Macbeth sono neri o sono comunque impersonati da attori che portano in campo una evidente alterità etnica. Va da sé che tale scelta ha ripercussioni ineludibili sui meccanismi di potere interni al plot. Se Sebastian è alternativamente trattato dalla protagonista come potenziale compagno, complice nei suoi crimini e infine vittima sacrificale, il piccolo Teddy riveste, invece, fin da subito i panni dell’odioso usurpatore. Nondimeno, per quanto concerne la particolare dimensione del focolare domestico, è Anna a rivelarsi la figura più sfumata e gravida di implicazioni. Invero, questa giovane domestica nera introduce una ulteriore forma di vittimizzazione femminile, complicando così inevitabilmente il ruolo della stessa Katherine come donna bianca, borghese e quindi socialmente avvantaggiata.

Indubbiamente fra i due personaggi non si instaura nessuna di quelle forme di vicinanza che, secondo Tara Puri, gli estenuanti riti della femminilità vittoriana, come la preparazione di acconciature e toilette da sera, finivano per favorire (Puri 2013, pp. 503-525). La regia mette anzi in scena un rapporto sicuramente sbilanciato in termini di autorità sociale, ma comunque caratterizzato per ambo le parti da un bisogno di controllo. Condannata a obeddire a un superiore potere maschile, la mite Anna è destinata a trasformarsi nell’involontaria carceriera di Katherine. Indifferente alla sostanziale innocenza della sua domestica, quest’ultima non soltanto ne boicotterà le invadenti attenzioni, ma ne farà a più riprese il capro espiatorio delle proprie nefandezze, fino a consegnarla assieme a Sebastian a una probabile morte per mano della legge. Pur senza negare quanto più grave sia la condotta manipolatoria di Katherine, il film non teme però di suggerire come al corpo etnicamente altro di Anna corrisponda una modalità di vivere lo spazio domestico non del tutto priva di insospettabili forme di libertà. Basti per esempio pensare alla sua metodica gestione dell’apertura di porte e finestre o alle incombenze legate alla cucina che le consentono, ben più di quanto avvenga per la sua padrona, di allontanarsi da casa. In tal senso, l’attrice Florence Pugh ha un’ottima intuizione quando individua le ragioni dell’ostilità di Katherine nella distorta percezione che «quella davvero libera sia Anna» (Pugh cit. in Alakbarova 2017) [fig. 3].

Al complesso protagonismo assegnato a questo e ad altri personaggi neri in Lady Macbeth corrisponde, invece, una problematica assenza in L’inganno, sebbene l’intreccio si svolga sorprendetemente durante la Guerra di Secessione. La drastica decisione della regista di eliminare la figura della schiava Mattie, originariamente presente nel romanzo di Cullinan così come nel primo adattamento firmato da Siegel, ha sollevato veementi critiche. Si accetti o meno la giustificazione adotta da Coppola, è indubbio che la soppressione del personaggio genera un incolmabile vuoto all’interno di una pellicola che pure vorrebbe esplorare il vissuto domestico di un gineceo dell’Ottocento americano. Al contempo, la rimozione della vergognosa realtà dello schiavismo conduce inesorabilmente il plot a concentrare tutte le sue energie sulla figura della cosiddetta Southern belle. O, per meglio dire, il racconto finisce per incardinarsi su una eversiva decostruzione di quelle doti di fragile femminilità e misurata civetteria che da sempre accompagnano tale stereotipo (Brody 2017; Loofbourow 2017; Madison III 2017). Infine, pur appartenendo entrambe a quella categoria di period movies esplicitamente autentici di cui parla Brouwers, le due pellicole risultano stilisticamente lontane. Come già accennato, Lady Macbeth è stato molto ammirato dalla critica per la coraggiosa severità del suo impianto visivo. Una severità, questa, che dichiaratamente elegge a suo principale modello il rarefatto minimalismo della pittura d’interni del danese Vilhelm Hammershøi. Al contrario, L’inganno manifesta quel gusto spiccato per l’immagine ‘piacevole’, graziosa e curata ai limiti del pittoresco, che ha procurato ora lodi entusiastiche ora feroci stroncature alla sua autrice.

Alla luce di questo primo generale raffronto, il prossimo paragrafo intende accostare fra loro alcuni momenti salienti presenti in ambo i film suggerendo possibili punti di contatto, di rottura e di allontamento. Seppur in sintesi, si cercherà di dimostrare come sia Lady Macbeth sia L’inganno, pur percorrendo strade diverse, giungano ugualmente a una rappresentazione originale, e mai pacificata, del rapporto che lega la donna alla casa che le è stato imposto abitare.

 

2. Dalla soglia della casa all’incontro imprevisto con il maschile e dalla conquista della casa all’annientamento del maschile

Nel 1854, il celebre poema The Angel of the House dell’inglese Coventry Patmore identifica senza indugi di sorta il tratto precipuo della femminilità nella conduzione della sfera domestica. La forza e la pervasività culturale di questa idea è stata tale che il titolo del componimento ha finito notoriamente per assurgere a sinonimo della donna vittoriana stessa. Parimenti nota è la battaglia in seguito condotta da Virginia Woolf per uccidere simbolicamente questo insopportabile ideale ed esortare le altre donne a farlo. Secondo C. Bruna Mancini, l’angelo del focolare è stato prima di tutto un corpo femminile che il potere patriarcale doveva contenere, recintare, alla stregua di qualsiasi altra proprietà riferita al maschio (Mancini 2020, p. 52): «Solo confinandolo, esso poteva essere celebrato come modesto, costante, educato, gentile, casto. […] Per questo colei che osava varcare la soglia di casa per invadere la sfera pubblica diventava immodesta, trasgressiva, lasciva, lussuriosa, insomma una donna ‘pubblica’, al pari di una prostituta» (Ibidem).

In nessuna delle pellicole qui oggetto di analisi le protagoniste appaiono particolarmente agite da un desiderio di affermazione sociale, con l’eccezione forse dell’intrepida Miss Martha, da sola a capo di un collegio in tempo di guerra. L’agognato superamento del confine domestico mira piuttosto al concretissimo desiderio di smarrirsi nell’avventura del paesaggio circostante. Come già accennato, il primo alterco fra Katherine e il marito contrappone due volontà e, verrebbe da dire, due impressioni sensoriali antitetiche. La donna dichiara di voler uscire e godere dell’aria fresca, mentre l’uomo la esorta a chiudersi in casa, pur paventando il gelo dell’edificio. In molte scene successive, il già citato rituale dell’apertura di porte e finestre rinvierà con distaccata mestizia all’anelito frustrato della giovane sposa per gli spazi aperti. Si tratta sicuramente dei momenti in cui il film si nutre maggiormente dell’immaginario pittorico di Hammershøi. Soggetto privilegiato di questo artista nordico, vissuto a cavallo fra Ottocento e Novecento, è uno spoglio interno borghese sovente abitato da una presenza femminile immortalata di spalle e quindi resa straordinariamente enigmatica nella sua disposizione mentale rispetto all’ambiente. «Quando fanno la loro apparizione», scrive giustamente Bridget Alsdorf, «le figure di Hammershøi spesso volgono le spalle allo spettatore come se fossero assorbite in qualcosa che non possono condividere con lui» (Alsdorf 2016, p. 270). Impossibile, tuttavia, escludere in un atteggiamento corporeo così improntato alla negazione di sé anche un «discreto atto di sfida» (Koehler 2017, p. 41). Ed è proprio una sottile forma di provocazione quella lanciata dalle numerose inquadrature di Lady Macbeth in cui la macchina da presa insiste sulla nuca della protagonista, sul complicato nodo dell’acconciatura e sulla nudità del collo, trasformandola in un ricorrente quanto imperscrutabile leitmotiv visivo [fig. 4].

Ma se le donne ritratte da Hammershøi sono eternamente intrappolate fra pallide pareti domestiche, Katherine, al contrario, osa evadare dai rigidi steccati imposti dalla vita matrimoniale borghese. Significativamente, la sua prima trasgressione sarà quella di avventurarsi nella brughiera con i capelli finalmente sciolti sulle spalle e mossi dal vento. E sarà sempre durante una di queste solitarie escursioni a verificarsi uno sfrontato, ma in realtà gradito, approccio da parte di Sebastian. Non è tuttavia fra le lande desolate o erbose della brughiera che Katherine vuole imporsi. Anche se il primo incontro erotico con lo stalliere mostra i tratti di un’aggressiva invasione ‒ l’uomo irrompe brutalmente di notte nella camera di lei ‒, di fatto tutto il prosieguo del racconto è scandito dall’oscura volontà della protagonista di fare della casa il proprio regno. Un regno in cui il desiderio femminile può finalmente esprimersi e in cui è l’uomo, amato o odiato che sia, a essere progressivamente racchiuso, confinato e perfino distrutto.

La scabra e spigolosa semplicità che Lady Macbeth eredita dalle tele di Hammershøi non trova alcuno spazio nell’universo creativo di Coppola. E questo appare chiaro fin dai rotondi e svolazzanti caratteri del titolo impresso sulle immagini del prologo. Peraltro, come scrive Anna Backman Rogers nella sua monografia dedicata alla regista, «il titolo [originale] del film fornisce la quintessenza del suo stile autoriale: “to beguile” significa raggirare, sviare o ingannare attraverso il piacere» (Backman Rogers 2018, p. 53). Termine, quest’ultimo, che nel cinema di Coppola sempre si associa a una elaboratissima costruzione visiva. In realtà, sostiene la studiosa, questo stesso cinema, così spesso tacciato di virtuosismo formale privo di sostanza, si scopre segnato da una carica di violenza che spinge ai limiti dell’immagine e ne rompe la superficie programmaticamente splendida (Ibidem). Come dimostrava l’indimenticato film di esordio Il giardino delle vergini suicide (The Virgin Suicides, 1999) e come conferma L’inganno diciotto anni dopo, sono le inquietanti strutture del gotico quelle che meglio possono ospitare una simile rottura. Inutile infatti ricordare quanto questo genere, qui declinato nella sua variante sudista, abbia lungamente funzionato quale luogo di proiezione ed esplorazione delle conflittualità femminili (Modleski 1982, p. 83).

Invero, l’incipit della pellicola del 2017 presenta «i tipici elementi di un’ambientazione gotica e fiabesca» (Backman Rogers 2018, p. 49). Alle prime luci del giorno, canticchiando con voce teneramente flebile, una ragazzina di nome Amelia Dabney (Oona Laurence) si incammina lungo un sentiero fra i boschi. Mentre è intenta a raccogliere funghi, l’adolescente fa l’inaspettata conoscenza con il caporale dell’Unione John McBurney e, mossa a compassione dalla sua grave ferita, accetta di scortarlo fino al collegio in cui è ospite [figg. 5-6]. Similmente a Lady Macbeth, anche in L’inganno l’incontro fra femminile e maschile trova nella natura, in una dimensione remota e chiaramente meno costrittiva di quella domestica, il suo luogo di elezione. Ma l’atmosfera goticheggiante del prologo si apre ad altre suggestioni ancora:

La sequenza di apertura allude al classico motivo della giovane donna in pericolo esposta a forze (forse soprannaturali) che sono al di là del suo controllo, mentre il buio della foresta suggerisce l’idea di qualcosa di nascosto (una mancata conoscenza o un impedimento della vista). […] Molto spesso, la crisi che ha provocato il viaggio nell’ignoto è la perdita della figura materna. Non a caso, scopriremo che le fanciulle ancora presenti nell’istitito di Miss Martha sono quelle rimaste prive della cura sollecita delle loro madri durante la guerra. Certo, l’ambientazione evoca anche il rito di passaggio dell’adolescenza: quel momento in cui una ragazzina entra nell’età adulta e una particolare dinamica di potere si impone fra uomini e donne (Ibidem).

Ma a dispetto dell’incontro con un uomo più grande e per giunta schierato con l’esercito nemico, il viaggio di Amelia non è un’esperienza soltanto all’insegna della vulnerabilità adolescenziale. Del resto, la sua spedizione mattutina nasce dal bisogno di cogliere un prodotto naturale potenzialmente pericoloso come i funghi. Nel finale, già lo sappiamo, sarà proprio una cena a base di funghi elegantemente servita a causare la morte di John. Astutamente Backman Rogers osserva che, giocando con l’idea della foresta come luogo consacrato alle streghe e alle pratiche stregonesche, L’inganno «si segnala […] fin da subito […] un film pronto a rivelare i lati più oscuri delle arti femminili. E il veleno, si sa, è spesso ritenuto l’arma preferita dalle donne» (Ivi, p. 50).

Inoltre, il viaggio di Amelia non è neppure un viaggio iniziatico privo di un rassicurante ritorno a casa. Diversamente dal caporale ferito, momentaneamente sprovvisto di qualsiasi reale senso di identità militare o familiare che sia, la giovinetta sa bene di appartenere all’istituto scolastico diretto da Miss Martha. E sebbene le scene successive ci mostrino una monumentale ma ormai fatiscente villa del Sud, restiamo colpiti dall’organizzata scansione fra compiti intellettuali e pratici che le sue ospiti conducono dentro e fuori l’edificio. Piuttosto, il faticoso tragitto verso il collegio inaugura l’inizio di un nuovo viaggio verso l’ignoto: quello del personaggio maschile, letteralmente destinato a non fare mai più ritorno dal collegio Farnsworth. Con inquietante abilità, la regia di Coppola anticipa questo esito fatale, quando McBurney, praticamente privo di sensi, raggiunge l’ingresso della villa. Due immagini in particolare tradiscono una tensione profetica. Lo sguardo ostile e al contempo colmo di desiderio che Alicia (Elle Fanning), la più sensuale delle allieve, rivolge al soldato lascia già intendere come il convitto non sia affatto abitato da diafani angeli remissivi e come la battaglia fra i sessi sarà ben più serrata e violenta di quanto si possa supporre [fig. 7]. Ma è soprattutto l’inquadratura del cancello sinistramente chiuso dinanzi all’istituto ad anticipare quel terrificante momento successivo in cui l’uomo, preso atto della mutilazione che gli è stata inferta, comprenderà come sia diventato per lui ormai impossibile andarsene [fig. 8]. «Non mi avevate detto che era una casa di pazze», piange con disperata costernazione il bel caporale e i suoi lamenti potrebbero essere, in fondo, gli stessi delle vittime di Katherine Lester. Stilisticamente diversi, ma affini nella loro ardita esplorazione di una femminilità oscura ed eccessiva, Lady Macbeth e L’inganno ci consegnano, insomma, storie di un focolare domestico che la donna, a qualsiasi costo, è pronta a conquistare o riconquistare

 

 

Bibliografia

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